Continuiamo la collaborazione con Max Ciotola, professionista noto per i suoi incarichi nell'editoria italiana di manga, che è anche un grande appassionato di animazione.

 
Junji Itō Maniac: Japanese Tales of the Macabre

La prendo larga.
Noi umani raccontiamo storie. Da sempre, in qualunque società e cultura presente e passata.
Ci raccontiamo storie romantiche, eroiche, drammatiche.
Lo facciamo perché attraverso le storie scateniamo nei nostri corpicini tante piccole e piacevoli scariche di sostanze chimiche: dopamina, serotonina, adrenalina...
Lo facciamo perché le storie ci emozionano, e noi siamo animali emotivi: ci rapportiamo al mondo che ci circonda e ai nostri simili non solo attraverso ciò che vediamo e sentiamo, le nostre percezioni, ma anche e soprattutto a un livello più profondo, alla nostra interpretazione emotiva.
Con le storie noi proiettiamo e introiettiamo queste emozioni, gli diamo forma e sostanza e, attraverso di esse, impariamo, sentiamo, cresciamo, viviamo innumerevoli vite.
Questo, naturalmente, vale anche e soprattutto per una delle emozioni più basilari: la paura.
Il che potrebbe sembrare un bel paradosso: perché mai dovremmo raccontarci, o addirittura trovare piacevoli, storie che provocano paura?
Perché, come direbbe un famoso Dottore, la paura è un superpotere.
Ti accelera battito e pressione sanguigna, acuisce i sensi, ti paralizza in presenza di un predatore (se rimani assolutamente fermo, è probabile che non ti veda!), ti rende in grado di fuggire più rapidamente, ti impedisce di ficcarti nei guai.
Passata la paura, proverai sollievo e felicità per essere sopravvissuto.
Il brivido della paura è quindi un'esperienza a suo modo affascinante.
Intossicante, perfino.
 
Junji Itō Maniac.jpg


Nelle storie spaventose noi cerchiamo di replicare e controllare quel sottile senso di pericolo: la consapevolezza, a livello primordiale, che c'è qualcosa che non va; che un elemento estraneo e pericoloso sia in agguato nel buio, nel silenzio, proprio lì dietro l'angolo.
I mostri sono predatori, certo, ma a volte sono qualcosa di ancora più inquietante: un'anomalia nell'ordine naturale delle cose, una nota dissonante nella tranquilla routine della propria vita.
Scrivere storie dell'orrore significa andare a cercare i recettori nervosi più sensibili e... stuzzicarli.
Lo si può fare con feroce brutalità o con una carezza gelida, scavando nelle paure più inconsce e condivise dall'umanità o radicandole in un contesto socioculturale preciso, ma l'effetto resta sempre lo stesso: farvi paura.
Il che spiega anche perché, praticamente, la paura non passa mai di moda.
E Junji Ito la paura la conosce bene.
Vi invito a cercare qualche sua intervista.
O, meglio ancora, a recuperare la puntata di Manben in cui Naoki Urasawa lo incontra e parlano insieme del suo lavoro.
Ne viene fuori il ritratto di un artista dall'aspetto placido e quasi dimesso, che lavora in modo lento, certosino, e che vive di paure.
Ha paura quasi di qualunque cosa, Junji Ito: degli scarafaggi, degli squali, di essere seguito...
 
Junji-Itō-Maniac-3.jpg


E ha un'immaginazione fervida (che è un elemento abbastanza comune, in chi ha paura: l'immaginazione ti aiuta a prepararti a ogni tipo di attacco immininente).
Basta un albero dai rami particolarmente contorti, un'ombra dalla forma strana, un'associazione di idee peculiare, e lui è capace di trasformare quello spunto, di sublimarlo con i suoi pesanti tratti di pennino rendendolo ancora più grottesco e disturbante, fino a creare mostri.
Junji Ito è non solo un narratore e un illustratore straordinario, un esponente di prim'ordine della categoria dei cantori degli orrori cosmici lovecraftiani, dotato di una capacità di rappresentazione visiva di rara potenza, ma è anche uno scienziato, uno studioso che effettua arditi esperimenti mentali, come solo i grandi artisti riescono ad essere.
Le sue storie non si limitano a "spaventare": sono inquietanti. Molto spesso non c'è catarsi, non c'è la "liberazione" dal mostro di turno.
Piuttosto lasciano nel lettore un senso di disagio (ma, diciamocelo, così dolce...), l'impressione che quello a cui abbiamo appena assistito sia solo il principio di qualcosa di più grande e terribile, un frammento, un lampo fugace che ha aperto una momentanea finestra su un universo alieno, incomprensibile e ostile.
Spesso non sono neanche "storie" nel senso compiuto del termine, ma intuizioni attorno a cui si sviluppa una cornice, in cui i personaggi vengono trascinati a forza e costretti a una discesa inesorabile verso luoghi oscuri e folli, dove qualcosa si contorce, e li attende.
Che si tratti di racconti brevi, di frammenti che si intersecano per dar corpo ad affreschi più complessi o di storie lunghe, il suo stile riesce a esprimere tutte le sfumature del nero (in tutti i sensi) ed è diventato, giustamente, uno degli artisti più osannati e influenti dei nostri giorni.
Peccato che tutto questo Netflix lo abbia capito solo a metà.
 

LA FREDDA CRONACA
Netflix ha reso disponibile una nuova antologia di racconti di Junji Itō Maniac: Japanese Tales of the Macabre.
La produzione è dello Studio Deen (The Seven Deadly Sins), alla regia e al character design troviamo Shinobu Tagashira, che aveva già lavorato a una precedente trasposizione anime di opere di Junji Ito, la Junji Ito Collection.
Se dopo aver letto questo avete iniziato ad avere perplessità, sappiate che avete ragione.
La serie Netflix, che conta 20 storie in 12 episodi, ha purtroppo diversi problemi.
Il meno grave è l'essere un'antologia: per forza di cose è difficile mantenere una qualità costante in una selezione di racconti. Alcuni saranno sempre meno riusciti ed efficaci di altri, anche nel caso di un maestro come Junji Ito.
In questo caso ottime storie come "Palloncini appesi" o "I lunghi capelli in soffitta" si alternano a episodi meno riusciti come "Quattro mura" o "I bizzari fratelli Hikizuri", il primo della serie.
Ma questo, appunto, è un peccato veniale e comunque anche questa selezione, per quanto possa essere discutibile, riesce comunque a rappresentare -anche solo parzialmente- il genio e l'inventiva di Junji Ito.
In questa raccolta si percepisce chiaramente la volontà di Ito di giocare con le sue intuizioni e con le emozioni, più che con un vero e proprio sviluppo narrattivo. Molto spesso il racconto si interrompe "sul più bello", per così dire, o manca del tutto una spiegazione razionale e scientifica di ciò a cui si è assistito (e che i malcapitati personaggi subiscono sulla loro stessa pelle).
L'intenzione è di spiazzare, di prendere un concetto e portarlo al limite, così come i protagonisti vengono spinti, inesorabilmente, fino ad arrivare a mettere un piede oltre il baratro.
Dove invece Maniac mostra seriamente il fianco è nel comparto tecnico: per cominciare il character design è spaventosamente inefficace rispetto al tratto originale.
Per quanto lo stile graffiante, iper-dettagliato e oppressivo di Junji Ito sia obiettivamente difficile da rendere in animazione, in Maniac l'impressione è che ci si sia limitati comunque al minimo sindacale. Perfino gli sfondi e le ambientazioni sono spesso solo abbozzati.
Il che, unito ad animazioni molto carenti e a occasionali e alquanto inutili passaggi in CG, conferisce al tutto un aspetto decisamente mediocre e raffazzonato, indegno dell'opera originale che resta esteticamente molto più complessa e stratificata.
La regia rimane costantemente anonima e piatta, senza nessun guizzo particolare, limitandosi a trasporre in sequenza le inquadrature e le tavole del fumetto.
In questo mare di piattume si salva giusto il sound design, con alcuni effetti obiettivamente ben riusciti (e che accompagneranno i miei prossimi incubi notturni...).
Nota di merito anche per la presenza del doppiaggio italiano, diretto da Marco De Risi con i dialoghi curati da Silvia Barone. Anche qui, però, dobbiamo notare una qualità piuttosto altalenante e passaggi a volte meno riusciti.
In sostanza siamo di fronte all'ennesima occasione sprecata, con un enorme potenziale che è stato usato poco, e male, laddove si poteva e doveva mirare molto più in alto.




CONCLUSIONI
Junji Ito Maniac si regge esclusivamente sul nome del geniale autore, un po' come quei videogiochi che cercano di sfruttare un brand proponendo poi un'esperienza deludente dal punto di vista tecnico.
Se la realizzazione la serie animata mostra troppo spesso il fianco, con animazioni scarse e un character design elementare, per fortuna le storie mantengono il loro fascino perverso e inquietante, con l'apparizione anche di un paio delle guest star più famose create da Junji Ito.
Rimane purtroppo un prodotto non all'altezza dei manga originali, e può avere un senso unicamente come stimolo, appunto, a recuperare i volumi, che promettono un'esperienza molto più intensa e appagante.