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Aperte le prime pagine virtualmente e sfogliate con iniziale distrazione, alla mia perplessità è in breve subentrata un'impressione di colpevolezza immediata e struggente per la poca attenzione prestata in precedenza alla lettura.
Watashitachi no shiawase na jikan non è una favola, lungi dall'esserlo, ma ne esercita fascino uguale su chiunque si avvicini incautamente a leggerne la storia. È un quadro di vita reale, dolorosamente reale, tratteggiato con cura e pochi sentimentalismi, tanti quanti ne bastano per non cadere nella ricercata banalizzazione che oggigiorno è diventato il mondo. I sentimenti non vengono commercializzati né sono oggetto di speculazione, così come le esperienze sofferte dei protagonisti della vicenda non diventano argomento patetico da sviscerare, ma solo un punto di svolta, positivo o meno che sia, verso il giorno che seguirà con deliberato tedio.

La protagonista femminile, Juri, agli albori di una promettente carriera da pianista intrapresa in tenera età per riscattare una nascita che ha provocato nella madre, pianista anch'ella, l'interruzione della propria, subisce una violenza da parte dell'insegnante privato, buon amico di famiglia. Nei suoi soli sedici anni si ritrova costretta a subirne una seconda e ben più brutale quando, cercando conforto nell'unica figura familiare rimastale oltre il fratello e una zia suora, vede rifiutata la sua versione e non creduta. Amareggiata nel profondo, delusa e ferita dal disinganno, abbandona la musica e con essa il concetto stesso di vita rifugiandosi nella meschinità della menzogna che è costretta a perpetrare giorno dopo giorno: far finta di nulla e tacere. Dieci anni dopo davvero poco è mutato, tranne l'odio che riversa verso quel mondo d'ipocrisia e sofferenza bruciante, nonché verso la madre che tanto tempo prima l'aveva accusata ingiustamente d'essere una bugiarda e ora d'essere un peso e un fallimento con le classiche e mortifere parole "Sarebbe stato meglio tu non fossi mai nata".
La vicenda trova il suo inizio al terzo tentativo di suicidio da parte sua, unico modo di risposta che le sembra d’avere per reagire, che la costringe in letto d'ospedale. Tre, quanti sono gli omicidi del condannato a morte Yuu, uomo che come lei non è rimasto ragazzo nel cuore a differenza di altri e forse mai lo è stato davvero, se non proprio nell'inespressa necessità di sicurezza e punti stabili a cui far riferimento di cui ci si abbisogna in quell'età difficile, sensibilissima a pressioni esterne e perciò tanto più fragile. Entrambi colpevoli del risvolto di futuri in scatafascio, vite che si diramano piene di nodi e prospettano minaccia di gragnola all'orizzonte, ma in ultima analisi innocenti quanto può esserlo uno animo devastato dalla pena e dal rammarico di ciò che ha fatto o perduto - innocenza e spensieratezza.
Errori e rimpianti accantonati in un angolo durante incontri settimanali in cui ci si presenta all'altro nella riscoperta di se stessi, della vita e della sua bellezza fugace. Giorni trascorsi nell'attesa del giovedì, profumo di primavera nella neve e nei sorrisi sfumati d'agrodolce malinconia. "Se solo io non...", "Se solo fosse Giovedì ogni giorno...", se, se, i se dell’esistenza che loro avevano smesso di porsi e che ora, riaccettando la vita per quel che è e da ad ognuno, ritrovano.

Una stanza di prigione e un vetro divisorio a separarli, manette ai polsi di lui e altre a quelle di lei, invisibili, che le impediscono di suonare e che Juri infine si dimostrerà capace di spezzare. Un orgoglio complicato da mandar giù quello di entrambi, ma che diventa chiaro nel rifiuto di pietà e commiserazione di cui s’appronta, "apparente comprensione" ricevuta da chi sembra invece non capire proprio nulla. Simili per esperienze e riflessioni riguardo l’ambiente che li circonda, Yuu e Juri capiscono di aver scovato un prezioso amico e alleato l’uno nell’altra, qualcuno che riesca davvero capire e non finga, ma soprattutto non sia gentile per un secondo fine che esuli dal semplice impulso di un attimo. Sono occhi che si osservano e si rispecchiano i loro, cicatrici complementari e un amore che non risulta affatto scontato, ma di una dolcezza che ferisce e consola, punge e guarisce. E non danna, ma fa male solo un po’, quel dolore che fa capire si sia ancora vivi e ricorda che anche nella sofferenza possa esserci qualcosa di bello. Perché nel se più grande, quello del “se non fosse successo quella maledetta cosa, non fosse scattata la molla nella mente in quel maledetto giorno” sta la base del loro incontro e del loro rapporto. Sarebbero stati diversi, non si sarebbero mai conosciuti e probabilmente mai sarebbero cambiati. Non sarebbero state le persone migliori che sono adesso, capaci di affrontare con le lacrime, ma a testa alta, ciò che li attende alla fine di un lungo corridoio e di una scalinata. Di accettare le gioie così come le tristezze della vita e dispiegare a proprio piacimento i ricordi dei preziosi momenti vissuti in comune.

Watashitachi no shiawase na jikan è un percorso di otto tappe, un fiore a cui strappare per gioco le corolle, petalo dopo petalo, con tenerezza commovente e toccante. Un ardente sensazione di libertà quella del finale, che dilegua l’amaro lasciato in bocca poche pagine indietro con un senso di pace e speranza, la capacità di perdonare i torti subiti e andare avanti, voltare pagina una volta per tutte.
Passato che s’intona in un’ultima musica d’addio suonata al pianoforte, astio perduto da tempo e l’ultimo ricordo a cui aggrapparsi, quello che in fin dei conti il loro incontro fosse già avvenuto nel confine labile dove tutto è possibile.
Le lacrime non sono e non saranno mai sinonimo di debolezza o incertezza, ma solo sfogo di quel che si ha nell’animo. La tristezza non tortura né lambisce con carezze mortifere né tantomeno culla. È lo sfogo di un sentimento normalissimo che non ci deve essere precluso: di delusione, sconforto, dispiacere. Un invito a lasciarsi andare alle richieste del cuore. Gli ultimi sguardi che i protagonisti si scambiano, così umani, limpidi e pulsanti, mi hanno scosso nel profondo, così come l’intera storia e l’intreccio della trama.
Il fatto incontrovertibile sia un unico volume mi aveva fatto dubitare della valenza di un’opera che nella sua brevità immaginavo insipida, davo già per scontata considerata comunque la mole di argomenti che si prefissava di presentare e affrontare. Dubbi dissipati completamente, come avrete potuto intuire.

Non solo quindi una storia degnissima del voto pieno che mi sento in dovere di darle, ma trattata con una cura per i dettagli, i dialoghi, la caratterizzazione di ogni singolo personaggio, il turbine di emozioni che provoca nel lettore che s’accinge ad immergersi e un senso del verosimile che lascia di stucco. Chiunque potrebbe essere Juri e chiunque tra noi potrebbe cadere nel vortice disperato in cui l’abuso di pazienza ha trascinato Yuu. Ed è questo che più di tutto colpisce e sgomenta: che per una volta non ci si deve sforzare di vedere od essere eroi. Lo si diventa per le piccole azioni, normali schermaglie quotidiane. Eroe è il giovane universitario che lavora e si mantiene gli studi, la donna che fa il lavoro a tempo pieno di casalinga e la madre senza altra retribuzione che non sia rispetto e gratitudine e affetto dalla sua famiglia. Eroi sono questi due ragazzi e chiunque ne legga la storia e ne comprenda il messaggio trasmesso.