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Sembra che esista un imperativo nell'esistenza umana. Tutto deve.
Deve essere. Deve essere fatto. Deve essere ottenuto. Tutto sia.
Come se fosse proibito anche solo ipotizzare che esistano orizzonti inviolati.

Cos'è quindi la magia, se non un "sei's gewesen", un imperativo, un richiamo al controllo assoluto?

Questa domanda si presenta nella sua forma più pura ed essenziale nel film "Mary e il fiore della strega".

La storia parte dalle esperienze di Mary, una ragazzina che passa le vacanze presso la casa di una prozia. Annoiata a morte dalla placida vita di campagna, fatta di giardinaggio e sonnolenta routine, la giovane spera di trovare qualcosa che la distragga, per dimenticare il suo essere fuori luogo, l'insicurezza per il suo aspetto, la goffaggine che la porta a combinare guai e l'irritazione che le suscita Peter, un ragazzo conosciuto da poco. Un fiore dai misteriosi poteri e una scopa abbandonata nella foresta porteranno Mary a scoprire l'esistenza della magia, di un mondo alternativo, dove le arti occulte sono trattate come materie di studio nell'università di Endor gestita dalla rettrice Madama Mumblechook, e dove vivono e insegnano alchimisti come il dottor Dee. Tutto sembra allo stesso tempo luminoso ma ambiguo. Vero e falso si mescolano in una formula seducente ma pericolosa. E quando la ragazza commetterà un errore fatale, tutte le ombre di quel mondo riveleranno la loro vera natura.

Tratto dal romanzo per l'infanzia di Mary Stewart "La piccola scopa" del 1971, il film è il primo lavoro del neonato Studio Ponoc, composto da molti autori e animatori provenienti dallo Studio Ghibli. Il regista Hiromasa Yonebayashi ha già alle spalle lavori come "Arrietty" e "Quando c'era Marnie", e a suo tempo lo si era indicato come un possibile erede di Miyazaki.

I richiami alle tecniche, alle atmosfere e allo stile del maestro sono evidenti al punto che appare chiaro l'intento di non voler attuare un "divorzio" da quel modello. Sfondi, inquadrature, character design, colori, musiche... tutto parla un linguaggio troppo noto, per non presumere che l'idea è fondamentalmente quella di suggerire allo spettatore di non trovarsi di fronte a qualcosa di diverso da un film Ghibli.

I richiami e le suggestioni sono appositamente costruiti per far correre la mente ad altre produzioni, ma con l'espediente di condire il tutto grazie a una trama canonica, favorita dal ricorso a un canovaccio "classico", unito a un gusto che però non risulta un semplice aggiornamento fine a sé stesso, come spesso avviene per adattamenti di opere di pubblicazione non recente.
La realtà espressa dal film vive nel segno delle percezioni del mondo com'era al tempo del romanzo di riferimento. Nessun sito web informa più di un grimorio, nessun iphone connette meglio di uno specchio magico. Tutto ciò che è magico deve essere scoperto, non viene vissuto come un trend social. In questo è coerente la visione di un mondo parallelo (più che immanente) lontano dall'esperienza comune. Maghi, creature mitologiche, homuncoli ecc. si avvicinano più agli archetipi delle favole tradizionali dei Grimm che alle espressioni wicca o alle successive elaborazioni alla Rowling.
Se non si può non notare il ricorso ai perni più semplici delle narrazioni, come la queste, l'artefatto, il salvataggio, l'agnizione ecc. si percepisce anche la volontà di non farli reggere da soli, affiancandoli a scambi di ruolo e di prospettiva che rendono questi stilemi più vicini al sentire odierno.
Indicativi in tal senso i richiami ai temi e ai problemi d'attualità. Si pensi al rovesciamento dei ruoli di genere nel modello salvatore/salvato o al dislivello prometeico che confonde volutamente i piani fra magia, scienza e tecnica.
Questo è forse l'elemento più interessante fra quelli proposti dal film. La magia del mondo di Mary è una forza che chi la pratica tratta come un elemento alla sua portata, nell'illusione di dominarla.

Il tema dell'apprendista stregone di goethiana memoria è un altro elemento non nuovo, ma attualizzato nel discorso del rapporto dell'Uomo con la techne. Interessanti le figure di Madama Mumblechook e del dottor Dee, emblemi del delirio di onnipotenza che strumentalizza ogni cosa e deforma in maniera fisica corpo e anima. Evidente il sottotesto che suggerisce un parallelismo fra scienza e magia nera, grazie alle combinazioni quasi osmotiche di Endor tra stregoneria e tecnologia.
La manipolazione genetica, l'energia nucleare, i danni ambientali, troppi i riferimenti a problemi quotidiani per non cogliere le citazioni.
Così, se la rettrice ci conferma che l'elettricità è anch'essa classificabile come magia (marcando una precisa relazione fra le materie oscure e la tecnologia), la stessa trasale nel momento in cui perde il controllo del suo esperimento, che provoca la percolante fuoriuscita di un potere devastante e incontenibile, secondo dinamiche che non possono non ricordare gli eventi di Fukushima.

L'invito è esplicito. Nulla di buono viene dal cedere alle lusinghe delle nostre eccedenze, che finiscono col dominarci. Diventa imperativo riportare la narrazione su noi stessi, l'Uomo nelle sue limitazioni. La protagonista trova così il suo percorso di formazione nello scoprire che non è sola nelle sue incertezze, nel suo condividere i difetti della mortalità. Riesce alla fine a trovare quella connessione con gli altri (perfino con Peter) che pensava di non possedere.

C'è una netta separazione tra il potente e il potere. Confondere quella separazione o tentare di annullarla coincide col passo fatale che, nel tentativo di abbattere gli orizzonti, abbatte la capacità di orizzontarsi. L'ansia reificante di ciò che "deve" essere diviene la condanna a non vedere ciò che "può" essere.

Assieme a Mary scopriamo che tutto nel mondo è magico. Tranne il mago.