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9.0/10
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«Chainsaw Man», è una serie dell’autunno 2022 che traspone (al momento) qualcosa meno dei primi cinque volumi del manga omonimo di Tatsuki Fujimoto, entrato nella sua seconda parte con il dodicesimo volume. I dodici episodi sono prodotti dallo studio MAPPA, la regia è di Ryū Nakayama, mentre la direzione generale delle animazioni è di Kazutaka Sugiyama.

Qualche parola per il manga è necessario spenderla: anche se da questi primi volumi non si ha che un’introduzione alla storia, è chiaro fin da subito che «Chainsaw Man» è uno shounen molto particolare: vuole stupire Tatsuki Fujimoto, e lo fa già a partire da un tratto grezzo, estremamente dinamico e per nulla estetizzante, ma di grande efficacia; dalle tavole traspaiono tantissimi riferimenti, cinematografici e non, e una gran voglia di spiazzare, di destabilizzare, non è detto che piaccia a tutti. È una storia brutta e sporca «Chainsaw Man», con un protagonista che è l’ultimo degli ultimi e no, non è animato da buone intenzioni, da grandi ideali. Denji è un ragazzino solo al mondo, poverissimo, oppresso dai debiti ereditati dal padre morto, tira avanti vendendo parti del proprio corpo e si improvvisa devil hunter con l’aiuto dell’unico alleato che ha: il demone cane-motosega Pochita. E, in uno scontro con degli yakuza che sono suoi creditori, sarà l’affetto di Pochita a salvare Denji, perché il diavolo si fonderà con lui per evitargli la morte. Con l’acquisizione di questa nuova natura comincia così la carriera di Denji come devil hunter della Pubblica Sicurezza… ed è la storia raccontata in «Chainsaw Man», scandita da sangue (tanto), depezzatura di corpi, interiora sparse, lacrime, vomito. Non è il solo splatter di facciata, è il rovesciamento del “mito del buon selvaggio”: Denji, privato di ogni educazione, non è “naturalmente buono” perché incontaminato, è invece sia incapace di autoconservazione, perché è preda di ogni malintenzionato, perché non è in grado di comprendere quando gli altri lo manipolano, sia anche incapace di empatia. Le persone che si trova intorno gli sono indifferenti, a meno che non gli procurino un vantaggio semplice e immediato (cibo, riparo, gratificazione sessuale). «Chainsaw Man» è quindi anche un romanzo di formazione in cui Denji riesce in qualche modo a crescere, fra scontri con diavoli inquietanti che si nutrono delle paure delle persone e le interazioni con i colleghi e i superiori che a volte sono a loro volta inquietanti e/o sporchi quanto i diavoli che combattono (e li combattono alleandosi con altri demoni, per dare un’idea della dinamicità della situazione). Si soffre e si muore in «Chainsaw Man» (e nel prosieguo della storia i dolori saranno ancora maggiori di quelli di questa prima serie), i personaggi sono tutti ambigui, spesso in bilico fra l’essere alleati e l’essere avversari, ma sono personaggi scritti benissimo. Potrebbero non piacere proprio per la loro ambiguità, per il loro essere lontani da ogni perbenismo, ma, se piacciono, allora è molto probabile che piacciano tantissimo. E che diventino quei personaggi da cui è difficile staccarsi emotivamente: a me è accaduto con il quartetto formato da Denji, la sua partner nella pubblica sicurezza Power, che è una majin che manipola il sangue, Aki Hayakawa, il loro senpai, capace e determinato ("husbando dell’anno", per me), e Himeno, la senpai di Aki, che è, al contempo, una buona e una cattiva compagnia.

La trasposizione mi ha convinto: i personaggi diventano più belli esteticamente, in alcuni casi è un vero piacere (Aki, Himeno), ma sono ben fatti anche gli scontri, che sono fluidi e chiassosi come nel manga, (si vede la CGI, ma non l’ho trovata fastidiosa), ma è molto curata anche tutta la parte di slice of life, che ha una grandissima importanza, perché sono i momenti che ricordano allo spettatore che nessuna vita è così brutta da non ospitare momenti di gioia al suo interno, che in mezzo a tanto dolore c’è il modo di trovare preziosi frammenti di felicità. La serie animata sacrifica qualcosa della comicità e dell’idiozia delle situazioni, tenendo forse un tono un po’ meno irriverente rispetto al manga, ma sono inezie. Come la palette di colori che non riesce a rimanere impressa, a dare un carattere complessivo. Prezioso invece il lavoro fatto sull’opening «Kick Back» di Kenshi Yonezu, che è un tripudio di citazioni di cinema occidentale (e c’è «Le iene», quindi ha la mia totale approvazione), e poi ci sono le dodici ending, una per ogni episodio, evocative, folli, struggenti (e - se si è letto il manga - anche dense di significato): una vera “coccola” per lo spettatore.

Non una serie che può piacere a tutti, ma una serie che può piacere molto.