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Una massima dell'Antichità era "Conosci te stesso". Può sembrare banale, ma oggi come allora è più facile a dirsi che a farsi. Anzi, forse oggi anche di più.
Non è facile vivere in una società che ci impone quotidianamente dei ruoli. Che ogni mattino ci urla nelle orecchie di qualificarci, di identificarci. O meglio, di accettare supinamente le sue identificazioni.

"Hatsukoi" è un affresco di questo peso del Mondo su di noi. Un peso che ci impedisce di rispondere sinceramente e lascia aperta la domanda. Come una ferita che non guarisce.

Hiro ha smesso di farsi domande. Non gli importa più sapere chi è. Perché la risposta lo spaventa. Fin da bambino ha avuto una qualifica precisa. Era un "eroe". Ha sempre puntato in alto. Là dove solo gli eroi hanno il diritto di stare. Il migliore negli studi, il migliore nello sport. Il leader che guida i giochi e le avventure. Uno che "salva gli altri". Perfino il suo nome sembra destinato a confermare questo ruolo, grazie all'assonanza col termine inglese.

Ma c'è un problema: Hiro non è un eroe.

Lo ha scoperto a sue spese. Amaramente.
Ha salvato qualcuno. Ma poi tutto è andato storto. Ha fallito.
Il suo eroismo ha fallito, perché non più sostenibile. Non era in grado di reggere la realtà con il suo ruolo. Ha capito che fin dall'inizio non c'era nessun eroe. Che la vita non è una favola a lieto fine.
Nella realtà le spade perdono il filo, le principesse non esistono e i draghi sono dentro di noi.

Ha abbandonato il campo ed è cresciuto. Fuggendo da quel mondo e da sé stesso. L'eroe muore e rinuncia all'Olimpo. Non ottiene più grandi successi, non ambisce più a premi e riconoscimenti. Non riesce più a tenere in piedi una menzogna. Si è spezzato come la sua maschera.

Eppure un giorno trova qualcosa sul suo cammino. Una nuova impresa, una nuova sfida. Incontra qualcuno. Qualcuno che come lui ha spezzato la maschera. Qualcuno che come lui cerca disperatamente di trovare la risposta alla domanda.
Una nuova occasione? Un modo per espiare?
Hiro può davvero tornare ad essere un eroe? O magari riuscirà finalmente a liberarsi di ruoli posticci e trovare la sua risposta?

Kazuki Rai (in arte Bubunhanten), autrice di dōjinshi, ha creato un prodotto raffinato. Con uno stile delicato e sensuale coinvolge il lettore fornendo un piccolo sguardo su temi che (pur trattati col tono del dramma adolescenziale) sono seri e tutt'altro che scontati.
Se lo sfondo e gli schemi narrativi hanno un sapore melodrammatico e dagli accenti romanzeschi, è comunque chiaro l'intento di fornire un punto di vista dettagliato ma non pesante.
Le tematiche non scadono mai nel retorico perché compensate da una buona dose di ironia e di espedienti volutamente sopra le righe.
Non c'è la pretesa di fornire una "morale della favola" o di confezionare l'ennesimo regalo gay friendly. Tutto si regge su un gioco di equilibri, fra il tragico e il leggero, che (forse un po' furbescamente) permette al racconto di stare in piedi senza chiedere mai troppo né al realismo né alla fantasia sfrenata.
Se è vero che sono sempre rispettati tutti gli schemi e i topoi narrativi codificati degli yaoi (seme/uke ecc.), è anche vero che l'autrice riesce a spingere quel tanto che basta a fare della storia un prodotto ad ampio respiro, affrontando tematiche (le pressioni sociali, gli abusi sull'infanzia, la crescita, gli ostacoli morali e psicologici) che toccano chiunque e permettono facilmente di empatizzare con i personaggi.
Il gioco funziona ancora meglio se si conoscono le dōjinshi precedenti dell'autrice. Le fujoshi più accanite non potranno non notare che i protagonisti sono un evidente omaggio al "KageHina".

Ma sarebbe un errore pensare ad "Hatsukoi" come a un prodotto riservato ai "pochi eletti" che conoscono quel linguaggio. Con la giusta dose di pathos, humor, e il preciso intento di non fornire lacrime o risate gratuite (cosa rara negli yaoi), l'autrice mantiene sempre un tono serio ma non serioso, fresco ma non caricaturale. Riuscendo quindi nell'ardua impresa di trattare tematiche LGBT senza chiamare in causa arcobaleni o impegni sociali.
I problemi e le reali criticità di questo mondo sono racchiusi a livello individuale, concentrati nel dilemma di partenza sulla scoperta di sé. Le idiosincrasie e le aberrazioni provocate dalle pressioni esterne sono sempre presenti ma rimangono un sottofondo. I problemi esogeni sono regolati sul principio della percezione delle cose, sul modello Io-l'Altro che vede il percorso di crescita come un gioco di specchi. Accettare gli altri implica accettare sé stessi e quindi conoscere sé stessi.
Tutti i processi ruotano su questa premessa.

Lo stile e il tratto dell'autrice trovano qui uno dei loro punti più alti. Gli sfondi e le ambientazioni sono trattati con dettagli netti in quadri generali meno precisi, elemento che con l'uso delle sfumature e dei campi neutri rende perfettamente i nodi narrativi.
Ma sono i personaggi il vero punto di forza del disegno di Kazuki Rai.

Forme spigolose ma esili, geometriche ma eleganti, i suoi protagonisti non sono manichini, ma attori che si muovono in un contesto anche molto fisico. Se i contrasti fra il bianco e il nero e le campiture nette danno un senso etereo e teatrale, le azioni, le espressioni, i dettagli anatomici e fisici parlano un linguaggio molto empatico che cattura l'attenzione.

Questa forza raggiunge il suo apice nella resa degli occhi, la vera firma dell'autrice. Le forme ferine, gli sguardi penetranti, quel forte accento su un'espressività tagliente, sono dettagli che si impongono d'impatto, dando alle parole suggerite da quegli occhi (al "non detto") un ruolo pari ai protagonisti.
Scatti d'ira, compassione, paura, speranza, amore, dolore, rimpianto, ...
Queste emozioni si possono leggere in quegli occhi anche senza aver mai letto le vignette. Non c'è modo di fraintendere quegli sguardi.

Kazuki Rai ha tutto ciò che le serve per essere riconosciuta come autrice di tutto rispetto. Le sue capacità le permettono di qualificarsi a livelli ben più alti del mondo (a torto) meno considerato delle dōjinshi.

Un mondo chiuso in sé stesso è un mondo fatto di persone che non sanno chi sono. Persone che creano maschere per rispettare ruoli che non possono sostenere.
E quando la maschera cade, dietro c'è il vuoto. Se si va a caccia di volti vuol dire che non ne abbiamo uno. A quel punto possiamo solo disegnarcelo da soli. Chiedendo al prossimo di farci da specchio. Ed infine essere noi lo specchio dell'altro.