Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

-

Come spiegare, a parole, l’emozione provata dopo aver visto, finalmente, al cinema “The First Slam Dunk”, il vero film conclusivo dell’anime andato in onda ormai trent’anni fa? Come trasmettere le sensazioni che si sono aggrovigliate dentro di me, nel vedere la parabola dei combinaguai dello Shohoku giungere al suo naturale compimento? Onestamente, ancora non lo so. Sono uscito dal cinema meno di tre ore fa, ma credo che questa sia una recensione da scrivere a caldo, quindi, ci provo lo stesso.

La storia, quella del manga, nonché della serie originale, è ambientata negli anni '90 ed è incentrata sulle vicende di un teppista, Hanamichi Sakuragi e della squadra di basket di cui, quasi per caso, entra a far parte, lo Shohoku. L’anime segue, molto da vicino, la crescita dei personaggi in quanto singoli, ma anche e soprattutto come collettivo. Mai come in questo caso, lo sport si tramuta in possibilità di riscatto sociale, per quelli che, almeno all’inizio, appaiono come dei teppisti di quartiere, fatta eccezione per il solo Akagi, il capitano dello Shohoku. Questi ragazzi, che fanno del basket la loro ragione di vita, si impegnano a fondo negli allenamenti e, nonostante i continui scontri interni, in particolar modo quelli tra Hanamichi e Rukawa, riescono a qualificarsi per il torneo nazionale, come rappresentati della Prefettura di Kanagawa. “The First Slam Dunk” riparte proprio da questo punto, dove anni fa si è interrotta la serie originale. Il film si concentra sul personaggio di Miyagi e racconta della partita di debutto dello Shohoku, che si trova a dover affrontare “l’imbattibile Sannoh”, la squadra campione in carica del torneo nazionale.

Il film, diretto dal creatore dell’opera originale, Takehiko Inoue, è un capolavoro assoluto. Un tripudio di emozioni difficili da spiegare a parole. Da amante del manga, che ritengo il miglior spokon mai realizzato, al pari soltanto di “Ashita no Joe”, attendevo questo film con ansia, soprattutto conoscendo quale sarebbe stato il suo contenuto. L’idea di racchiudere la parte finale del manga nella cornice rappresentata dalla storia inedita della vita di Miyagi l’ho trovata lungimirante, considerando anche che Ryochin è il mio personaggio preferito della serie. In questo modo, il film offre la possibilità di rivivere una delle partite più belle e spettacolari dello sport fumettistico giapponese, e l’opportunità di conoscere il passato di uno dei grandi protagonisti dello Shohoku, che ha incantato migliaia di lettori nel mondo con le sue giocate, Ryota Miyagi. Le scene sul parquet si alternano magistralmente ai flashback sul playmaker dello Shohoku, di cui si approfondisce la situazione familiare e il rapporto, non sempre felice, con il basket, lo sport che gli ha permesso di riscattarsi socialmente. Perché, e questo è bene ricordarlo, “Slam Dunk” non parla solamente di cinque adolescenti scontrosi che si lanciano un pallone da basket. Il capolavoro di Inoue racconta le vicende di ragazzi che all’inizio della storia sono considerati alla stregua di semplici teppisti di quartiere, come ce n’erano tantissimi nel Giappone degli anni ’90, ma che grazie al basket hanno la possibilità di far sentire la loro voce, come se dicessero: “Voi non ci prendete minimamente in considerazione, ma noi ci siamo, e prima o poi ve ne renderete conto!”. Da Miyagi a Mitsui, da Hanamichi a Rukawa, il basket sarà per loro l’unico mezzo possibile per approdare ad una forma totale di rivendicazione sociale. Da qui nascono i brividi dello spettatore nel veder cambiare il parere del pubblico sullo Shohoku, nel corso della partita contro il Sannoh, come accade nel celebre duello tra Rocky ed Ivan Drago, in Rocky IV. Le lacrime, nel rivedere, riproposte in una veste completamente nuova, quella della CGI, le scene iniziali del manga e il ciuffo ribelle di Hanamichi. Le risate provocate dalla sua spavalderia e sfrontatezza, tipiche di chi non ha paura di niente e di nessuno. La tensione, quella che nasce dal silenzio assordante dell’ultima scena, con quel pallone in procinto di entrare nella rete, ma che potrebbe anche colpire il cerchio e spezzare i sogni dello Shohoku. L’emozione inspiegabile, un misto di gioia e nostalgia, al cinque dei due grandi rivali, Hanamichi e Rukawa. Momenti spettacolari, accompagnati da un comparto musicale eccelso, che riesce a coinvolgere a pieno lo spettatore. La sensazione è quella di essere parte integrante della scena e di star assistendo alla partita non da dietro ad uno schermo, ma al fianco del coach Anzai. Sensazioni che solo un film magistralmente realizzato come “The First Slam Dunk” può far provare.

Certo, per chi ha letto il manga, il finale non è una novità, perché, come era giusto che fosse, Inoue è rimasto fedele alla sua opera. Eppure, come diceva il mitico Giorgio Faletti in “Notte Prima degli Esami”, l’importante non è quello che trovi alla fine della corsa, l’importante è quello che provi mentre corri. E quello che ci ha fatto provare Inoue, con il manga prima e il film circa trent’anni dopo, beh, quello non potrà darcelo mai nessun’altra opera.

-

“Shin Jeeg Robot d’acciaio” (o “Koutetsushin Jeeg”) è un anime andato in onda tra il 5 marzo e il 12 luglio 2007, animato dallo Studio Actas, arrivato qua in Italia nel 2016.
Articolata in tredici episodi, questa serie funge da retelling e rivisitazione di “Jeeg Robot d’acciaio”, anime del 1975 creato da Go Nagai che, a sua volta, adatta il manga scritto dallo stesso Nagai e disegnato da Tatsuya Yasuda.

“Koutetsushin Jeeg” è ambientato cinquant’anni dopo la serie originale e, fondamentalmente, basa e organizza la propria trama sulla stessa “matrice” della serie originale: il Professor Senjiro Shiba, in seguito a degli scavi archeologici nella regione del Kyushu, rinviene una campana di bronzo su cui vi sono delle iscrizioni, che gli rivelano l’esistenza di un antico popolo tecnologicamente avanzato, il Grande Impero Yamatai (o Jamatai), guidato dalla Regina Himika e dai suoi tre ministri Ikima, Mimashi e Amaso.
Per impedire che questo popolo si risvegli dal suo lungo sonno e decimi la razza umana per impadronirsi del Giappone e del mondo intero (venendo in possesso del potere della campana di bronzo), il professor Shiba rende suo figlio Hiroshi un cyborg e costruisce Jeeg, un robot che si assembla tramite l’energia magnetica in seguito all’agganciamento di tutti i componenti (lanciati dal Big Shooter, pilotato dall’assistente del Prof. Shiba Miwa Uzuki) e di cui Hiroshi ne è la testa: sarà proprio Jeeg ad ergersi a difesa del genere umano.

Sebbene, come già detto, “Shin Jeeg” si articoli sulla trama della serie originale, e da questa è ambientato cinquant’anni nel futuro, non può propriamente essere definito come sequel, perché presenta alcuni cambiamenti: ad esempio, il professor Shiba, nella serie originale, muore, e nel corso della storia continuerà a vivere sotto forma di computer, dentro cui lui stesso (prima di morire) aveva immagazzinato tutti i suoi ricordi e le sue conoscenze, mentre in questa serie è vivo e vegeto nonostante l’avanzata età; altro esempio potrebbe essere l’assenza dell’Imperatore Ryuma, il quale nella serie originale sostituisce la Regina Himika e costituisce un nuovo nemico per Jeeg.

Protagonista in questa serie è Kenji Kusanagi, un diciassettenne liceale, campione di hyper motorbike (HMB), che si ritroverà a dover diventare il nuovo pilota di Jeeg per affrontare il Grande Impero Yamatai e la Regina Himika, risvegliatasi insieme ai tre ministri dopo un lungo sonno. Ad accompagnare Kenji, ci saranno nuovi personaggi, come Tsubaki Tamashiro (nipote di Miwa), pilota del nuovo Big Shooter, e Kyo Misumi, anch’egli campione della HMB e rivale di Kenji, ma anche personaggi già visti, come il già citato Professor Shiba, Miwa, Hiroshi, Kikue Shiba, Mayumi eccetera.

Personalmente, ho apprezzato molto questa serie.
La storia in sé è ben costruita e (da amante sia del genere mecha che del Jeeg originale) mi è parsa particolarmente interessante e scorrevole.

Tutti i personaggi sono ben caratterizzati: Kenji, cocciuto, sventato e in parecchi casi anche idiota, ma il quale costituisce una bontà genuina, non capisce perché si sia dovuto ritrovare da un giorno all’altro a pilotare un robot e a combattere in una guerra e, inoltre, all’inizio, non è nemmeno particolarmente abile a pilotare Jeeg (motivo per cui lo vedremo compiere mosse totalmente insolite o prive di senso); o Tsubaki, determinata e razionale, pura e talvolta anche emotiva, costantemente preoccupata per Kenji. Oppure ancora Kyo, diametralmente opposto al protagonista, serio e sagace e dall’interessante passato; o il Professor Shiba, che nonostante l’età è particolarmente dinamico e arguto.
Anche i nemici (i quali hanno tutti ricevuto un bellissimo restyling grafico) sono molto convincenti, prima tra tutti la principale Regina Himika (la quale ha un aspetto demoniaco, molto più simile a quella del manga originale). Persino i semplici soldati hanno ricevuto un nuovo design, assumendo le fattezze (in chiave più inquietante) dei soldati medievali giapponesi.
Intrigante è anche il “nuovo passato” del Grande Impero Yamatai.

Il mecha design mi è piaciuto molto, a partire dallo stesso Shin Jeeg (dall’aspetto magro e appuntito) e dai suoi componenti, rinnovati e modernizzati, come i “Missili perforanti” o il “Jeeg Bazooka”. Stupendi anche i “Componenti d’aria”, i “Componenti di terra” e i “Componenti di mare”, totalmente ri-disegnati.
Anche il Jeeg originale è stato leggermente modificato e, a mio parere, i piccoli caratteri aggiunti, come le pupille (che assumono senso, considerando che Hiroshi stesso forma la testa di Jeeg, e quindi è un componente in parte biologico e non solamente meccanico), o modificati, come i dettagli sulle gambe (qua affusolati e non dritti come nell’anime originale), non guastano per niente, anzi, potremmo dire che a tratti lo migliorano e lo rendono più adatto per i toni di questa serie.

L’idea che la seconda campana di bronzo, che permette la trasformazione dello Shin Jeeg, sia stata inserita nel motore del “Fulmine d’acciaio” è innovativa nel suo piccolo, la reputo perfino più credibile rispetto alla campana custodita dentro al corpo di Hiroshi Shiba.

Carino è anche il design del nuovo Big Shooter e dei tre caccia degli Angeli Guardiani (o Build Angels).

I mostri Haniwa sono particolari, dalle fattezze più “organiche” rispetto a quelli già visti nell’anime del ‘75 e qui ricalcano particolarmente la loro nomea di “Haniwa Genjin” (appunto “Spiriti Haniwa”).

Le animazioni di Studio Actas (studio di animazione che si è occupato anche di “Mazinkaiser SKL”, reboot di “Mazinkaiser”, altra serie nagaiana) sono composte da un tratto consistente e ricco di dettagli, quasi sporco. Ben sceneggiate sono le scene di combattimento, e le OST, seppur poche, completano il tutto.

Si può notare anche l’utilizzo della Computer Grafica nelle animazioni del nuovo Big Shooter, nei tre caccia o nel Fulmine d’acciaio, la quale è abbastanza grezza (se confrontata con la CGI dei giorni nostri) ma non invadente, e che, per volere stesso di Go Nagai, non è stata impiegata eccessivamente, lasciando prevalere il disegno a mano (e aggiungerei anche per fortuna).

Pensiero finale: penso, quindi, che “Shin Jeeg Robot d’acciaio” sia un’ottima serie mecha, una “godibilissima ventata d’aria fresca” per Jeeg, che viene proiettato in un’epoca di storie mecha moderne, riuscendoci pienamente. Un gran bel remake di una delle serie mecha di Go Nagai più famose (soprattutto qua in Italia), in cui si può ben notare la passione dei creatori per la serie originale. Ne consiglio la visione a tutti coloro i quali desiderano conoscere il personaggio di Jeeg, senza necessariamente aver visto la serie anime degli anni ‘70.

Voto finale: 8,5

-

Diciamo subito le cose come stanno. Di per sé "Lupin III: The First" non è affatto un prodotto malvagio, ma tuttavia verrà ricordato come l'ennesimo, innocuo filmetto per bambini (nonostante l'antefatto piuttosto drammatico).

Questa specie di claymotion digitale si confà al simpatico e dinoccolato ladruncolo, anche se a lungo tende a stufare un attimino. La giacca sembra fatta di cartapesta, non di velluto. Lo spirito della serie classica "Shin Lupin Sansei" è rimasto più o meno inalterato, quantunque il titolo poteva tranquillamente essere 'Indiana Jones Meets the Young Lara Croft', e nessuno avrebbe avuto nulla da ridire. La mente criminale della banda si è un po' affievolita negli anni.

Come vogliono le regole ferree del giorno d'oggi, le allusioni alla carnalità e le situazioni piccanti sono state cassate. La TMS alla fine ha ceduto, abbracciando le ottuse e rigide policy dei conglomerati dell'intrattenimento mondiale: il lessico è accuratamente indorato; i cattivi sono sempre e solo i nazisti; i protagonisti non possono ammiccare alle esponenti del gentil sesso; la donna deve essere single e felice, l'uomo un fesso (la metafora dominante dopo l'ondata del #metoo). Manca solo la componente multietnica - che prima o poi diverrà obbligatoria - e abbiamo il risultato perfetto come exemplum per quelli che verranno. È ammessa solo qualche scazzottata, ma senza spargimenti di sangue o tumefazioni. Oramai la computer graphic è diventata la fida alleata di coloro che vogliono indottrinare il laido civismo omologato. Tra non molto la prorompente Fujiko non potrà nemmeno più indossare vestiti attillati, perché le task force di oscurantisti non lo approverebbero. Che sia l'inizio di quello che si sta avverando da noi? Ovverosia la «decostruzione» e l'«igienizzazione della storia»? Di certo saranno contenti i capoccia dei portali streaming e la canea di invasati del Pensiero Unico. Scommetto che lo vedremo presto su Netflix o Disney+.

Nella sceneggiatura ho riscontrato la presenza delle solite, inevitabili forzature presenti nella maggior parte dei movie e degli special televisivi dedicati all'eroe di Monkey Punch. Ma pure questo era stato messo in preventivo. Lo storyboard invece è accurato, strutturato con intelligenza e, conclusione prevedibile a parte, non vi sono buchi nella trama o fastidiose scontatezze. Il team della Marza Animation Planet ha svolto un ottimo lavoro, sebbene l'ispirazione a "Il Castello di Cagliostro" sia stata fin troppo evidente e sfacciata in certi punti. Cambiano giustappunto le ambientazioni e gli oggetti (due amuleti) da recuperare per risolvere il mistero che ruota attorno alle scoperte del nonno di Leticia. Proseguendo nella visione si disvelano altri elementi in comune con il celebrato film del 1979. I nomi dello staff che scorrono e la canzone nei titoli di coda ci ricordano che la lavorazione è stata effettuata interamente in Giappone, dico questo dal momento che con l'avvento delle nuove tecnologie e della globalizzazione si fatica a distinguere il Paese di provenienza di un'opera. Di conseguenza, la fisionomia tipica dei manga appare quasi irriconoscibile in questa nuova veste grafica. Tutto ciò non farà piacere allo zoccolo duro di appassionati legati al metodo tradizionale.

Alcune sequenze, in modo particolare quella in cui appare la mitica 500 gialla guidata da Jigen, sono molto ben realizzate (non per niente c'è lo zampino di Kazuhide Tomonaga e Nobuo Tomizawa). Altre invece mi hanno lasciato alquanto perplesso: certe espressioni facciali non sembrano rispecchiare appieno lo stato d'animo dei personaggi. Inoltre, nelle zuffe si ha come l'impressione di vedere una moltitudine di goffi pupazzetti di gomma che fanno finta di picchiarsi. Hanno provato persino a replicare le scene di volo di Miyazaki, e forse era meglio che lasciavano perdere già in partenza. Troppa staticità. Codeste cadute di stile mi hanno fatto abbassare la valutazione finale (sulle prime, puntavo a dare un 7). Per il resto, nulla da segnalare. Sufficienza raggiunta per via della succitata, esaltante scena con il "cinquino Abarth" di casa FIAT (ed è l'unica motivazione che mi spingerebbe a riguardarlo). Una cosa è certa. Con i nuovi potentissimi programmi in commercio si possono ricreare inseguimenti in auto alla pari, se non superiori a quelli del grande Yasuo Otsuka. Magra consolazione...

Da par mio spero che rimanga un esperimento isolato, benché, finalmente, dopo una lunga sfilza di obbrobri, i nipponici sono riusciti a confezionare un lungometraggio in 3DCG perlomeno decente.