
Riepiloghiamo la storia: Sandfall Interactive è uno studio di circa 30 persone, nato da ex dipendenti Ubisoft insoddisfatti e insofferenti alle politiche aziendali, ree di impedire qualsivoglia forma di creatività ed estro artistico, sacrificati sull'altare della comfort zone a tutti i costi: decine e decine di titoli tutti uguali in una sorta di girone dantesco da contrappasso per chissà quale cattiva condotta, che costringe ad un costante ed obbligato riciclo continuo di meccaniche, trame, open world e – soprattutto – maledettissimi live service. Il problema però è che i videogiocatori non hanno alcuna condanna da scontare nel girone, essi sono invece la "scheggia impazzita" della nostra personalissima Divina Commedia, spettatori giudicanti del lavoro degli sviluppatori. E il giudizio, ultimamente, non è dei più clementi. Ubisoft è in una spirale discendente da cui sembra fare ormai fatica ad uscire, Sony ha dovuto –speriamo – completamente riprogettare il suo modello di business dopo aver buttato via anni e milioni di dollari nello sviluppo di live service che non vedranno mai la luce, Square Enix si aggrappa con le unghie e con i denti ai remake, Electronic Arts si sta ristrutturando in maniera importante dopo i vari flop (sì BioWare, purtroppo sto parlando anche di te). Tutti questi studi condividono una visione comune: l’ostinazione nel restare aggrappati a vecchi successi e meccaniche di gioco, anche quando il loro fascino è palesemente svanito e nel rincorrere aleatorie mode di mercato e presunte tendenze sociali, che alla fine si rivelano essere tanto intangibili, quanto insignificanti per la stragrande maggioranza dell'utenza di riferimento.
La domanda non è perché... o si?
Cosa dovrebbe insegnare il successo di Expedition 33 ad Ubisoft, che dopo aver lanciato il solito – trito – Assassin's Creed di cui si è parlato molto più prima che dopo l'uscita, si ritrova l'ennesimo tripla A che è già caduto nel dimenticatoio? Probabilmente nulla, perché questo non è affatto il primo caso nella storia. Due anni fa è stata Larian a fare la parte del leone, vincendo tutto quello che era possibile vincere ed entrando nei cuori dei videogiocatori con un'anacronistico single player, con combat system a turni e senza alcun DLC; praticamente con Baldur's Gate III siamo stati riportati indietro di vent'anni e, soprattutto, abbiamo volentieri ricoperto di gloria e milioni degli sviluppatori che ci hanno creduto. Possiamo, se volete, parlare di Supergiant Games, uno studio indipendente di due ex sviluppatori di EA, che ha tirato fuori un altro capolavoro come Hades dall'enorme impatto culturale sul medium. O ancora di Ninja Theory: una piccola realtà britannica che con un team ridotto ed un budget contenuto ha sviluppato l'interessantissimo Hellblade, un gioco sperimentale dalla qualità tecnica altissima (motion capture e audio binaurale pionieristici) e con un concetto chiave, quello di una psiche fragile, presentato in maniera superba. Ancora, c'è Warhorse Studios, fondata da ex 2K per creare un gioco realistico, storico e profondo, libero da logiche di mercato come microtransazioni, open world banali e fetch quest; finanziato inizialmente con Kickstarter, Kingdom Come: Deliverance ha recentemente festeggiato le 10 milioni totali di copie vendute e l'uscita del secondo capitolo è stata un successo su tutti i fronti, dimostrando ancora una volta l'esistenza di un pubblico enorme che apprezza prodotti disallineati alle mode dominanti. Possiamo includere in questa speciale lista anche Remedy e Kojima Productions, due studi dalla genesi diversa ma comunque indipendente, che hanno saputo sperimentare con successo, mantenendo controllo editoriale ed una coerenza narrativa lontana dai soliti canovacci.

Sarebbe facile confrontare questi successi con dei flop costati centinaia di milioni di dollari come Forspoken, Redfall, Dragon Age: The Veilguard, o il meme Concord, ma lo scopo di questo articolo non è lo sterile consenso e soprattutto non ho – forse – intenzione di sparare sulla Croce Rossa. Il punto è, una volta assodato il concetto che i costi di produzione non potranno mai sostituirsi ad una vera scintilla creativa, capire le ragioni della miopia endemica presente nelle grosse aziende di sviluppo. Sono assolutamente certo che non deve essere facile selezionare tra le migliaia di progetti presentati come "innovativi" e "di sicuro successo" e altrettanto non dobbiamo fare l'errore di cascare nel banalissimo bias del sopravvissuto: per uno studio come Sandfall che ce la fa, ce ne sono tantissimi altri che falliscono o che non hanno neanche le possibilità di accedere alle, comunque notevoli, risorse necessarie a creare un titolo AA. Eppure non può essere così assurdo interpretare la volontà popolare e rendersi conto che, ad esempio, i titoli live service non sono più la risposta a qualsiasi domanda; non sembrano volerci menti geniali e costosissime ricerche di mercato, per capire che il pubblico non apprezza più centinaia di sterili missioni secondarie, una trama iper diluita e meccaniche da action game della prima decade di questo secolo. Sandfall non ha inventato nulla; ha preso – e certamente modernizzato – quello che ha reso grande Square Enix (all'epoca Squaresoft), ma che oggi non ha più il coraggio di fare, perché si è in qualche modo convinta che non funziona più. E non è più soltanto il combattimento a turni ad essere stato eliminato, ma addirittura, con Final Fantasy XVI (che comunque reputo un buon gioco), qualsiasi parvenza di GDR, ritrovandosi di fatto a proporci un action dal combat system simil hack'n'slash. Perché? Anche Obsidian e Bethesda, con i recenti Avowed e Starfield, hanno dimostrato di temere il rischio, preferendo la sicurezza di formule vincenti del passato senza distaccarsi minimamente dai sentieri già battuti, con il risultato di raccogliere successi tiepidi e di non riuscire più a distinguersi in un mercato decisamente più agguerrito.
Il boss finale dei giochi AAA
La causa più probabile di quanto detto, risiede nei vertici che governano le software house. In molti casi, si è ormai creato uno scollamento evidente tra chi dirige le grandi aziende videoludiche e il pubblico a cui quei prodotti dovrebbero essere destinati; vi saranno certamente note le parole di Andrew Wilson, CEO di EA, quando ha affermato che il fallimento di Dragon Age: The Veilguard è derivato dal suo non essere un live-service. Questi vertici, spesso provenienti da settori lontani dall’arte e dalla creatività, rispondono e rilasciano commenti destinati quasi esclusivamente agli investitori, nel disperato tentativo di impedire che questi rivolgano il proprio interesse altrove. E questi investitori, certamente ancora più lontani da un benché minimo interesse nei confronti del medium, pretendono risultati certi, margini in crescita e modelli ripetibili. In questa catena di comando, il giocatore è diventato un numero su una slide: non più una figura centrale con cui dialogare, ma un target da “monetizzare”. Questo atteggiamento si riflette in modo cristallino nelle scelte creative: si preferisce investire in prodotti prevedibili, massimizzando il ROI attraverso battle pass, skin stagionali, engagement time e metriche più adatte a una piattaforma social che a un’opera d'arte. Il rischio viene bandito a prescindere, e se qualcosa non funziona non ci si interroga sulla qualità dell’idea, ma sulla sua capacità di monetizzazione. In questo contesto, studi come Sandfall e tutti gli altri esempi, sono l’eccezione che conferma la regola: realtà dove gli sviluppatori hanno ancora voce in capitolo, dove la visione creativa non è oggetto di compromessi continui e dove il successo si misura sicuramente in dollari, ma anche nei centimetri di breccia scavata nel cuore dei giocatori.

Un altro nodo cruciale è quello dei costi di sviluppo, ormai del tutto fuori controllo. I tripla A moderni richiedono budget da centinaia di milioni di dollari, cifre che rendono ogni singola produzione un all-in finanziario che non lascia spazio all’errore, al rischio o alla sperimentazione. È un modello insostenibile nel medio periodo: costringe gli studi a rincorrere il guadagno a tutti i costi con qualsiasi strategia possibile, non potendo, in un mercato così ricco, aspettarsi milioni di vendite per chiunque. Forse la vera rivoluzione sarà il ritorno a produzioni più contenute, magari nella fascia AA, in modo da poter anche osare senza mettere a repentaglio l'intera sopravvivenza dello studio. In questo contesto è possibile pareggiare i conti anche senza vendite record e con un successo di nicchia, magari arrivato qualche tempo dopo il lancio. È lì, tra passione e sostenibilità, che potrebbe trovarsi il futuro della decima arte.
Lezione imparata. Forse.
Abbiamo analizzato diversi aspetti del mondo videoludico attuale ed abbiamo capito che ogni tanto succede qualcosa che ci ricorda perché ci siamo innamorati dei videogiochi e non è solo nostalgia: è quella sensazione rara, potente, di trovarsi davanti a un'opera che osa. Abbiamo capito che serve un ritorno a un approccio più autentico, dove la creatività era spinta dai limiti tecnici e non soffocata da vincoli economici, come accadde per la nebbia in Silent Hill, diventata simbolo estetico e narrativo. Servono realtà capaci di costruire un rapporto autentico con le community, come CD Projekt RED, Larian o – adesso – Sandfall, con vertici ed investitori che comprendano e amino il videogioco, non solo il mercato. Noi, dall'altra parte, abbiamo una responsabilità altrettanto importante: continuare a premiare chi osa, sostenere chi mette l’anima nei propri progetti, dare fiducia al coraggio. Perché sì, Clair Obscur: Expedition 33 ci ha ricordato che c’è ancora spazio – e voglia – per la bellezza, la visione, l’arte. E voi, care big corp del settore, davvero non avete più niente da dire?
Molti studi hanno purtroppo dimenticato che la permanenza dell'utente su un gioco (che sia per 30 ore o 5+ anni) non deve essere data per scontata, perché il tempo ha un valore e i giocatori sanno benissimo dove sia necessario spenderlo o meno; recenemente l'ex presidente di Sony ha dichiarato che si è ormai entrati in un'era di doppia A, e onestamente come si fa a dargli torto?
Clair Obscur è andato bene perché ha offerto al mercato ciò che veniva chiesto, ma è stato comunque un azzardo (e la storia dei 30 sviluppatori mi pare non sia esattamente cosi...), come è ovvio che sia, che ha pagato - idem con Larian con BGIII.
IN quest'ultimo caso occorre però far notare che Larian aveva già avuto una esperienza che gli ha consentito di arrivare, vale a dire i giochi che ha fatto prima - non è stato un salto nel buio, ma un processo graduale.
Francamente trovo che questa chiave di lettura sia idealistica e quantomeno semplicistica. Le software house non sono opere di beneficienza e operano per lucro (che, come diceva Einaudi, può anche non essere solo lucro economico). Alcune di queste si sono trovate un mercato, ma è utopistico pensare che un titolo faccia capire che "le cose devono andare in questo modo" (oltre ad essere un bias mica da ridere....)
Se non sono sostenibili chiuderanno baracca e burattini (il problema principale, per gli sviluppatori che ci lavorano dentro, non è perdere il lavoro ma riuscire a trovarne un altro), nel mercato niente è eterno e anche i monopoli, quando non sono sovvenzionati dallo Stato, sopravvivono.
Se il CdA di EA è miope e pensa solo al breve periodo (io non lo so, e non mi bastano quattro report di Blooomberg - peraltro parziali - per farmi un'idea chiara) ne pagherà le conseguenze, si chiama rischio d'impresa.
Questi dati sull'utenza vanno presi per le pinze, perché vanno a ondate a ogni rilascio di una patch note. Anche gli esempi riportati non sono veri, nonostante tutto overwatch e genshin impact mantengono la loro media dei giocatori, basta vedere le chart che si trovano su internet. Purtroppo i dati veri non rispecchiano l'opinione pubblica altrimenti overwatch e world of warcraft sarebbero falliti già da un pezzo.
Ultimamente i videogiochi di qualità sono usciti da realtà più piccole capitanate da sviluppatori e videogiocatori, vedi From Software con Miyazaki, Larian studio con Swen Vincke e ora Sandfall.
Secondo me queste grandi compagnie non devono solo pensare al business. Tra tante ciofeche, che magari se gli va di culo possono anche guadagnare barche di soldi, devono dare luce verde anche a titoli con più qualità. Un investimento che dà a loro tanto prestigio da parte della critica, che a mio avviso non guasta mai.
Investimenti meno rischiosi, affidati a studi che conoscono i giocatori/spettatori e possono osare di più come creatività, senza sprofondare nella nicchia chiusa.
Titoli finiti e meno dispendiosi per gli utenti, che non li usano come cash-cow.
prima la passione di Larian Games e il capolavoro covato per anni
poi questo
sono cose che fanno riflettere cit
L'unico parametro che si deve considerare é la creativitá e libertá di espressione , eliminando del tutto i tempi morti di un qualsiasi tipo di produzione : cioé , a detta dell'autore principale di Expedition 33 , era un gioco a cui ci pensava da una vita , il concept giá era presente ma mancava la forza lavoro per realizzarla , infatti creata la software house e sviluppo del gioco in 4 anni pieni, non hanno perso tempo .
Ecco a cui devono far riferimento , non per avere meno persone nel team principale che coordina tutto il progetto ( potrebbe essere una soluzione ma non una panacea dello sviluppo su larga scala ) , ma bensí eliminare quelle inutili dilatazioni temporali che fanno uscire certi giochi fuori dal loro tempo massimo , oltre a realizzare videogames / opere d'arte con passione e non per il mero guadagno .
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