Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su drama e live action, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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“Pachinko – La moglie coreana” è un drama del 2022 di otto episodi prodotto da AppleTV+ e proprio su questa piattaforma lo possiamo vedere sia con i sottotitoli italiani, sia doppiato.
La serie è tratta dall’omonimo romanzo del 2017 di Lee Min-jin ed è uscito da poco cominciata la seconda stagione.

La storia parla di una famiglia coreana attraverso quattro generazioni: si parte intorno al 1910, quando il Giappone colonizza la Corea inglobandola nel suo Impero, e si arriva al 1989 circa, partendo dalla Corea e arrivando in America, passando per il Giappone.
Pachinko è una serie che ha avuto un successo globale, ma sicuramente maggior clamore lo ha avuto in Corea e Giappone, anche se per motivi diversi: mentre in Corea ha suscitato orgoglio nazionale, in Giappone non sono di certo mancate le critiche, riaccendendo così discussioni tra questi due paesi.
Il drama, così come il romanzo, non sono basati su una storia vera; accurati sono, invece, il contesto storico e culturale, descritti minuziosamente, dato che l’autrice ha condotto molteplici ricerche e interviste per fare in modo che la rappresentazione fosse più fedele possibile alla realtà.
Si parla quindi di identità culturale, discriminazione, razzismo e anche di un tema spinoso come le donne di conforto.
Se non siete ferrati in storia orientale, come del resto non lo sono neanche io, non vi preoccupate: le vicende storiche sono spiegate in maniera chiara e semplice, grazie a date e piccole didascalie. Inoltre queste fanno solo da sfondo al racconto di una famiglia, con le loro problematiche e relazioni personali.

"Pachinko" è comunque uno spaccato molto importante: avevamo già molte storie riguardanti l’occupazione giapponese in Corea, ma l’innovazione è la visione di ciò che hanno vissuto gli “zainichi”, ovvero i coreani che si sono trasferiti in Giappone.

La serie è recitata in tre lingue: coreano, giapponese e inglese. Nella versione doppiata, la scelta è stata quella di tradurre solamente il parlato coreano, lasciando i sottotitoli per giapponese e inglese.
Il doppiaggio è ben curato, anche se alcune voci le ho trovate poco adatte: ascoltando le voci originali parlare in giapponese e inglese, nella versione doppiata, per alcuni personaggi, si sente molto la differenza.
Altrettanti sono i Paesi in cui è stata girata. In Corea troviamo le location di Busan (dove nasce la protagonista); in Giappone vistiamo Osaka (dove si trasferisce lei in seguito) e Tokyo (anni ‘80); New York negli Stati Uniti e Vancouver in Canada.

Il cast è fenomenale. Troviamo un sempre elegantissimo in giacca e cravatta Lee Min-ho finalmente in un ruolo degno della sua bravura.
La protagonista è, invece, interpretata da tre bravissime attrici, a seconda della età: Yuna è Sun-ja da piccola, quando stava ancora imparando il mestiere di “haenyeo” (le sommozzatrici che pescavano abalone, molluschi e alghe); Kim Min-ha che è la protagonista ormai donna; infine la bravissima e talentuosa Youn Yuh-jung (vincitrice del premio Oscar 2021 come Miglior Attrice non protagonista con il film “Minari”) che è la mamma in tantissimi drama e film coreani.
Aggiungo che le tre attrici non si sono mai incontrate per le riprese, ma qualsiasi sia l’età della protagonista, hanno saputo trasmettere le stesse sensazioni.

Bellissima è la opening di questa serie: frizzante e coinvolgente, è l’unico momento in cui possiamo vedere tutte le generazioni assieme, con i personaggi che ballano come matti e che forse per la prima volta ci mostrano come sarebbero veramente se non ci fossero obblighi sociali e culturali.

9.0/10
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Attaccati alla sedia senza scampo! Un titolo validissimo, con tanti punti di forza e pochissimi deboli.

Partiamo, per una volta, dai punti deboli. E’ vero, i costumi maschili sono piuttosto belli, e gli uomini in divisa sono un vero schianto. Ma sul serio. Però gli abiti femminili sono spesso piuttosto anonimi e cambiati abbastanza raramente, e questo è un peccato, perché si nota tantissimo. D'altronde, probabilmente dipende anche dal budget non proprio stellare, il che si riflette anche sulle ambientazioni, a volte non proprio immersive .

Ci sono, specialmente verso la fine, alcune situazioni piuttosto discutibili, in quanto a logica. E, soprattutto, c’è una pesante propaganda politica, della quale però non dovremmo lamentarci più di tanto, visto che nei film americani ce n’è altrettanta, se non di più (in effetti, mi dà molto fastidio anche quella).

Siamo a Shangai, nella tormentata Cina del 1926. Mu Wan Qing torna in patria, ufficialmente per riportarvi le ceneri della madre defunta, ma con lo scopo di avvicinarsi al padre, che non vede da molti anni, per scoprire i retroscena della separazione dei suoi genitori e della morte dei fratelli. La sua strada incrocia ben presto quella di Tan Xuan Lin, fresco di nomina a capo delle truppe insurrezionali, e di Xu Guang Yao, un altro militare, figlio di un ben più potente comandante. I due soldati sono su fronti opposti, ma questo non impedirà loro di fare amicizia e cercare di aiutare la ragazza a svelare il mistero. Nel fare ciò, scopriranno segreti e intrighi e la loro amicizia, in quel periodo burrascoso, sarà messa ben presto a dura prova.

Detto questo, si tratta di una serie che, per una volta, si svolge nella giusta lunghezza, spiegando quello che deve essere spiegato, ma senza dilungarsi in sotto-sotto trame e filler noiosissimi e inutili. E che storia! L’intrigo, i giochi di intelligenza e astuzia e, soprattutto, la tensione, mi hanno tenuta inesorabilmente incollata alla sedia. Ci sono stati un paio di episodi da infarto, ma tutta la serie si mantiene con costanza su un livello molto alto di interesse. Soprattutto, gli attori sono stati magnifici.

La protagonista Zhang Jing Yi (Wan Qing) è stata veramente brava, considerato poi che è giovanissima e all’epoca non aveva tanta esperienza sulle spalle. Successivamente, però, l’abbiamo vista protagonista in produzioni del calibro di "Lighter & Princess" e del recentissimo "Blossoms in Adversity".

Anche il bellissimo Evan Lin, cantante e attore taiwanese, ha dato vita ad un personaggio molto credibile, specie tenendo conto che, anche lui, è molto giovane e ha partecipato soltanto a due drama (l’altro è "Crush", un altro buon titolo).

I vari personaggi di contorno sono stati efficacemente presentati, compresi i cattivi della situazione. Un piccolo appunto: certe risate falsissime hanno disturbato un po’, ma i fruitori di drama, ambientati in qualsiasi periodo storico, sanno già trattarsi di un vezzo del luogo.

La vera anima della serie, però, non può che essere Chen Xing Xu, che già era stato protagonista in "Good Bye, My Princess" e "The Legend of the Condor Heroes", e che poi girerà anche "The Starry Love". Bello, sì, ma questo è decisamente il meno. La parola più adatta a descriverlo è “mattatore”. Complice un personaggio a tutto tondo, tutto sommato facile da amare, pur con una partenza piuttosto dubbia, ha saputo interpretare con eccezionali sfumature tutte le sfaccettature del suo carattere complesso, spaziando dal deciso comandante al giovanotto scanzonato, passando per il disperatamente innamorato, all’amico fedele e molto altro. Soprattutto, il suo personaggio rimane umano pur possedendo un'intelligenza e un'astuzia quasi leggendari. Perché perfino lui, qualche volta, può essere colto di sorpresa e commettere sbagli.

Una colonna sonora decisamente godibile completa questo magnifica serie che, probabilmente, in futuro riguarderò.

10.0/10
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"I Sette Samurai" (1954) di Akira Kurosawa è un capolavoro assoluto del cinema, un film che ha definito i contorni del genere samurai e che ha avuto un impatto duraturo su molti altri film, tanto occidentali quanto orientali.

Ambientato nel Giappone feudale, racconta la storia di un gruppo di samurai che vengono assoldati da un villaggio di contadini per difendersi da una banda di banditi che minaccia di saccheggiarli. Il film è un'epica storia di coraggio, sacrificio, lealtà e speranza, ma allo stesso tempo una riflessione sul significato della giustizia e della solidarietà.

La grandezza de "I Sette Samurai" risiede in molti aspetti, ma soprattutto nella capacità di Kurosawa di mescolare una trama emozionante, e ricca di tensione, con una profonda introspezione psicologica. I personaggi non sono solo eroi romantici: sono esseri umani, con difetti, fragilità e debolezze. Ogni samurai, da Kambei (interpretato da Takashi Shimura) a Kikuchiyo (un Toshirō Mifune strepitoso), ha un arco narrativo che lo rende interessante e complesso, lontano dalla semplice figura del guerriero senza paura.

Le performance degli attori sono straordinarie e sono sicuramente state un elemento fondamentale del successo dell'opera. Il film riesce a dare a ciascun personaggio una dimensione unica, permettendo al pubblico di empatizzare con le loro lotte interiori e la loro determinazione nel dare tutto per la causa comune, pur consapevoli della propria mortalità.

Toshirō Mifune, con la sua energia brutale e il suo carisma naturale, porta Kikuchiyo a una dimensione di straordinaria complessità. Il suo personaggio, che inizialmente si lascia percepire come un "guerriero impetuoso e fumantino", evolve con il procedere della storia, rivelando un uomo che cerca disperatamente di appartenere a un mondo che non lo accetta, ma che lotta con tutto se stesso per un ideale più grande. La performance di Mifune è tanto fisica quanto emotiva, e il suo sguardo trasmette una forza interiore che si contrappone alla sua apparente irruenza. La sua interpretazione, carica di sfumature, non solo arricchisce il film, ma lo rende anche incredibilmente umano e toccante, regalandoci un personaggio che non si dimentica facilmente.

Dall'altro lato, Takashi Shimura offre una performance più sobria, ma non meno potente, nei panni di Kambei, il leader del gruppo. Un samurai esperto che possiede una profonda saggezza e una straordinaria capacità di comprendere le persone. La recitazione di Shimura è un perfetto contrasto con quella di Mifune: calma, misurata, con una forza che risiede nella serenità e nella capacità di prendere decisioni difficili. La sua interpretazione riesce a trasmettere una grande dignità e una consapevolezza del proprio destino, in un ruolo che è tanto di guida quanto di sacrificio. Kambei è il cuore morale del gruppo e Shimura riesce a far emergere tutte le sfaccettature del suo personaggio, dal dolore personale alla determinazione nel proteggere i più deboli.

Fantastiche anche le dinamiche e il percorso di Katsushiro Okamoto, interpretato da Isao Kimura. Rappresenta il giovane samurai che, sebbene intriso di idealismo e passione, è ancora lontano dalla piena comprensione della durezza della vita e della guerra. Katsushiro è un personaggio che incarna il passaggio dall’innocenza alla maturità, e Kimura riesce a renderlo con grande sensibilità e naturalezza. La sua interpretazione trasmette perfettamente la tensione interiore del giovane che, pur desiderando ardentemente dimostrare il suo valore, è consapevole della sua inesperienza. La sua crescita nel corso del film è tangibile, sia nelle azioni che nelle interazioni con gli altri samurai. La relazione con la contadina Shino, inoltre, aggiunge una dimensione romantica ma tragica al suo arco narrativo, accentuando il contrasto tra i sogni di gioventù e la spietatezza della guerra.

Dal punto di vista tecnico, Kurosawa e il suo team hanno realizzato una serie di scelte visive che sono diventate iconiche. Le inquadrature, il montaggio, l'uso della luce e dell'ombra, e il dinamismo delle sequenze di battaglia sono tutti elementi che hanno influenzato il cinema di tutto il mondo in modo decisivo.

Un altro aspetto fondamentale de "I Sette Samurai" è il modo in cui esplora temi di classe sociale e comunità. Il contrasto tra i contadini, poveri e umili, e i samurai, guerrieri che vivono secondo un codice d’onore, solleva interrogativi sulle differenze di potere e sulle dinamiche di società. Ma una delle grandezze dell'opera sta nell’idea che viene veicolata: al di là di tutte le differenze, la speranza e la lotta comune possono unire anche gli individui più disparati.

La struttura del film, che si sviluppa in tre atti ben distinti (preparazione, battaglia e dopo-battaglia) è magistralmente costruita, con un ritmo che mantiene sempre alta la tensione e offre spazio per momenti di riflessione. Nonostante la lunghezza (oltre tre ore), la narrazione non annoia mai, ma coinvolge il pubblico fino all’ultimo fotogramma.

"I Sette Samurai" non è solo un film di azione o un dramma storico: è un'opera che esplora il cuore umano, le sue paure, speranze, e la capacità di resistere nelle circostanze più difficili. È un panegirico del sacrificio, ma anche della comunità e della solidarietà, temi universali che continuano a risuonare con il pubblico di oggi come facevano al momento della sua uscita.

Inoltre si tratta di una pellicola che non solo ha cambiato il corso del cinema, ma che continua a restare una delle pietre miliari della settima arte. Un’opera Maestra che trascende i suoi tempi e continua a essere fonte di ispirazione per registi, attori e appassionati di cinema.