Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Oggi si torna negli anni '80 con il manga Le bizzarre avventure di JoJo: Phantom Blood e gli anime Mobile Suit Gundam ZZ e Tenshi no Tamago.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


Per saperne di più continuate a leggere.


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<b>Attenzione: questa recensione contiene spoiler sull'opera.</b>

Premessa: i tre volumi a cui si fa riferimento sono quelli della recente ristampa Star Comics.

In principio fu una maschera di pietra. Realizzata da un popolo azteco come supporto centrale per i suoi famigerati sacrifici umani, la maschera ha il potere, quando sulla sua superficie viene versato del sangue, di penetrare nel cranio di chi la indossa con degli aculei ossei che trasformano la persona in una sorta di zombie-vampiro, un essere a metà tra la vita e la morte dalle sovrannaturali doti fisiche che può rigenerarsi assorbendo il sangue delle vittime che mieterà durante la nuova esistenza. L'obiettivo degli aztechi era sottomettere il mondo tramite questo potere del dominatore, ma non ebbero successo. Scomparsi misteriosamente dalle pagine della Storia, la maschera seguì la sorte dei suoi creatori, finendo dimenticata tra i ruderi della loro civiltà per secoli e secoli.

Inghilterra, 1880. Il nobile George Joestar accoglie nella propria casa l'orfano dell'uomo che - Joestar crede - ha salvato la vita sua e di suo figlio in seguito all'incedente in cui morì sua moglie. Così, fatalmente, si incrociano le strade di Jonathan Joestar, figlio biologico di George Joestar, e di Dio Brando, suo fratellastro.
Jonathan Joestar (per gli amici e il lettore Jojo) è l'archetipo del perfetto gentleman, che traspone la sua indole retta e proba nella lotta: determinato, onesto e coraggioso, Jojo è l'espressione pura della propria forza di carattere. Dio Brando è, invece, tutto l'opposto: infido e corrotto di natura, Dio intende approfittare della bontà di George Joestar per migliorare la sua condizione e ottenere l'eredità del padre adottivo. A questo fine, deve screditare totalmente Jojo agli occhi del padre, cosa che fa sottraendo al fratello tutto quanto ha caro: uccide il suo cane, umilia la ragazza che ama e da cui è contraccambiato, Erina, e commette altre innumerevoli cattiverie assortite. Come coronamento decide di sfruttare la maschera di pietra, per Jojo ricordo - un po' macabro in verità - della madre defunta. Ovviamente Dio non conosce tutte le funzioni del manufatto: sa soltanto che esso estrae degli artigli che si conficcano in testa e con questi crede di poter uccidere Jojo, ma ignora la trasformazione corporea che innesca. O per lo meno ne è all'oscuro finché non la sperimenta su una cavia. Trovandosi costretto ad affrontare i temibili effetti indotti dalla maschera, si accorge che è cosa buona e giusta (e fonte di salvezza) utilizzarla a proprio vantaggio, e non su Jojo. Per cui, Dio progetta di invertire i ruoli del rito sacrificale in suo onore: al posto di fare di Jojo la sua vittima, adesso intende eliminarlo e ricorrere al suo sangue per scatenare la propria mutazione; Dio ha intenzione di superare la condizione umana uccidendo il suo odiato e al contempo rispettato fratello Jojo.
Ha così inizio una rocambolesca serie di eventi tragici (tra cui morti epiche e il progetto di Dio di formare un proprio esercito di non morti a partire da Jack lo Squartatore, che rende un divoratore di uomini) e di combattimenti, interamente concentrati sul destino di amore-odio fraterno che unisce Jonathan e Dio. Più volte i due scontrano, e ogni volta tutti pensano che il male sia stato debellato definitivamente.
Ma le vie di Dio (Brando) sono infinite.

La caratteristica che personalmente ho più apprezzato de "Le Bizzarre Avventure di Jojo: Phantom Blood" è l'incastrarsi di numerose storie parallele e complementari. Tra queste ultime mi hanno colpito maggiormente la vicenda del Barone Zeppeli e dei personaggi femminili del manga.
Cominciamo dalla prima. Zeppeli è l'uomo che in gioventù rinviene la maschera di pietra, da quel momento la scia di morte seminata dall'oggetto ricomincia. Per rimediare alla sua colpa (il ritrovamento della maschera è stato fortuito, di certo Zeppeli non ne conosceva le potenzialità e meno che mai voleva seminare morte e distruzione) l'allora ragazzo abbandona la sua famiglia e parte per un lungo viaggio al fine di trovare un modo di contrastare gli effetti nefasti della maschera. Giunto in Tibet, apprende dal Lama Tompetty la Via dell'Eremita, un metodo positivo di utilizzare il sangue e la respirazione che si contrappone a quello negativo rappresentato dalla maschera. Avendo in comune l'obiettivo di fermare Dio, Zeppeli diventa il mentore di Jonathan. Ciò che mi ha colpito della sua figura, a parte il suo valore in sé, è come si sovrappone al ruolo di George Joestar: se quest'ultimo è per Jojo una fonte di ispirazione ideologica, Zeppeli si inserisce nella storia proprio quando Joestar padre è uscito di scena, e ne riprende la funzione diventando non soltanto modello ma mentore e compagno di battaglia al fianco di Jojo. È Zeppeli a fare di Jojo il guerriero che sconfiggerà Dio Brando. Ammiro tantissimo la maniera in cui l'autore, Hirohiko Araki, reitera certe tematiche sviluppandole a un certo punto per poi riprenderle da capo con variazioni e portandole a picchi di epicità sempre più alti.
Questa qualità si ritrova anche nelle donne che appaiono nel fumetto. Anche se sulle tavole compaiono poco in prima persona rispetto alle controparti maschili e le loro azioni rimangono un po' in ombra, sono comunque importanti. Si tratta di tre donne: la madre di Dio; Erina, la fidanzata di Jonathan; e Peggy, la sorella di Poko. La prima è in compagnia di Dario Brando, il padre di Dio, quando questi scopre la carrozza dei Joestar che ha appena avuto un incidente, ed è lei che salva Jojo; la seconda è innamorata di Jojo fin dall'adolescenza, ma un'insolenza di Dio li separa per un po' di tempo, tuttavia non provoca una spaccatura profonda: al momento del bisogno Erina c'è sempre per Jojo. La terza è un po' il calco di Erina nei confronti della parodia normale di Jojo, come il protagonista sarebbe stato se non avesse ricevuto un'educazione aristocratica, Poko: mentre Jojo ed Erina si incontrano per la prima volta quando il ragazzo la difende da dei bulli per puro spirito cavalleresco - dice lui -, tra Peggy e Poko è Peggy a insegnare il senso dell'onore a Poko, e come Dio molesta Erina e ne resta umiliato, così fa Peggy nelle battute finali della saga. In generale, le donne in "Le Bizzarre Avventure di Jojo: Phantom Blood" sono fonti di ispirazione per i protagonisti uomini: un compito un po' vetusto (l'amore angelico che si prova per una donna è un tema superato), però qui lo trovo usato con intelligenza e coerenza rispetto al messaggio di fondo, l'importanza della lealtà e della dedizione a una causa. Questo vale anche per Dio, i cui rari attimi di umanità (anche se sempre caricaturali e trasposti in chiave negativa) sono infatti innescati dai sentimenti che prova per la madre, morta a causa del comportamento ignobile del marito, e per Jojo, un legame che effettivamente unisce i due - come George Joestar accoglie Dio presso la sua dimora, la madre di Dio salva la vita di Jojo. Non a caso, alla fine Erina salverà un bambino orfano che prenderà con sé come erede di Jojo proprio come la madre di Dio fece in apertura.
Appunto queste storie complementari sono ricche di sfaccettature, e riconoscerle è stata una delle esperienze più soddisfacenti di questa lettura.

Una componente del titolo che, al contrario della precedente, reputo usata a volte con profitto, altre in maniera dannosa, è l'enfasi esagerata della narrazione. Il tipo di narrazione adottata in "Jojo: Phantom Blood" - e in generale dal mangaka, mi pare di capire - è molto trash: ora, personalmente non amo il trash, tuttavia qua è integrato coerentemente con la struttura base del manga, lo si ritrova in ogni suo aspetto e dunque riesce a convincere e ad appassionare; basta considerare il personaggio di Speed Wagon, il commentatore ufficiale della serie. Però, alcuni elementi come il vino che trasmette il Vento dei Vichinghi e certi punti di volgarità e assurdità non richiesti - Poko che mostra il sedere per farsi beffe di altri personaggi, per esempio - sono talmente ridondanti che l'epicità voluta mi sembra più ironia inconsapevole. Quindi il narrare, per quanto efficace nel complesso, ha delle oscillazioni qualitative.

Il discorso cambia ancora per quanto concerne l'ambientazione: l'Inghilterra cupa e gotica del XIX secolo è uno sfondo ideale per le avventure di Jojo - d'altronde è l'habitat ideale per le creature nemiche che i nostri devono affrontare.
Questa scelta si armonizza con lo stile di disegno di Araki, che predilige personaggi dai corpi giganteschi e muscolosi, essi hanno un certo non so che di michelangiolesco e un tratto globale che, come di moda all'epoca della pubblicazione, fa un forte uso del contrasto tra il bianco degli sfondi e un nero molto carico.
Questa grafica trovo sia ben resa dalla riedizione Star Comics, proposta in tre corposi volumi dalla carta un po' grigia che è una buona base per le tavole di Araki.

"Le Bizzarre Avventure di Jojo: Phantom Blood" è un titolo che ha fatto storia, e non sorprende: anche se determinati elementi sono un po' stereotipati e schematici, la serie è un ottimo riassunto delle qualità del manga shounen degli anni '80 che rielabora e presenta in maniera personalissima e che a sua volta saranno tratte da altre produzioni, a riconferma del valore dell'opera.



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Era Spaziale, anno 0088. Dopo aver annientato i Titans l'AEUG volge ora la sua lotta verso Haman Karn che, assieme alla piccola Mineva Zabi, guida sull'asteroide Axis la rinascita dell'esercito di Zeon per dichiarare nuovamente guerra alla Federazione Terrestre, ormai militarmente stremata. Al posto di Kamille, ormai impossibilitato a combattere ancora, c'è ora Judau Ashta, giovane scavezzacollo proveniente della colonia di Shangri-la (Side 1), che insieme ai suoi amici e alla sorellina si unisce alla flotta dell'Argama...

Terza serie televisiva del franchise e seguito diretto del mitologico Z Gundam, Gundam ZZ è anch'esso entrato nella storia come il predecessore. In termini però nettamente opposti, nei termini di prima, grande pecora nera dell'intera saga, scontentando tutti i fan all'epoca al punto tale che, in tempi recenti, Tomino stesso cercherà inutilmente di mandarlo fuori continuity con i tre film riassuntivi di Z. Fortunatamente quello che è orribile ieri non lo è per forza oggi, e "grazie" a ben altro tipo di pattume animato uscito sotto lo sguardo rassegnato del mobile suit bianco (Wing, X e il recentissimo, atroce AGE), ZZ ha modo di trovare una tardiva, seppur non eclatante riabilitazione.

Quello che certamente colpisce a primo acchito di ZZ, rispetto al passato, è il netto cambio di atmosfere: se Z Gundam dall'inizio alla fine è oscuro e drammatico, in questo sequel i toni cupi si smorzano paurosamente per fare spazio, sopratutto inizialmente, ad atmosfere infantili e umoristiche, stranianti per chi si è abituato ai temi opprimenti del predecessore. Basta solo ascoltare la prima opening dell'anime, "Anime ja nai" (letteralmente "non è solo un anime"), per capire quale stravolgimento sia stato operato per assurde imposizioni marketing di Sunrise atte a renderlo usufruibile a un pubblico infantile.

Ironicamente bisogna dare atto che sotto questa luce umoristica ZZ, a suo modo, si fa vedere, quasi da poterlo definire simpatico: diverse gag sono carine, così come alcuni dei nuovi personaggi, considerati ovviamente nella loro sola accezione buffonesca, tra cui un demente generale di Neo Zeon e una comandante zeoniana dall'improponibile acconciatura glam. I vecchi in compenso, stravolti per adeguarsi alla nuova concezione ridanciana (come il malvagio Yazan e l'onnipresente capitano Bright), diventano inguardabili. Unica eccezione il villain della serie, l'affascinante Haman Karn già vista in Z Gundam, la sola a mantenere la sua storica caratterizzazione, e per questo tanto carismatica da primeggiare sulla totalità del cast, anche per effetto della mancanza di un corrispettivo altrettanto eroico nell'insignificante protagonista Judau. Pur riuscendo, si diceva, ad apprezzare ZZ nella sua inedita forma infantile, in più momenti ci si domanda però che ne è della storia epica lasciata in sospeso, ora incentrata su bambini petulanti e dispettosi, ridicoli ufficiali di Neo Zeon e un avanzamento di trama lentissimo, ripetitivo e in alcuni casi addirittura trash (l'avventura in due parti sulla colonia Moon Moon).

La risposta ce la dà Tomino dopo i primi 17 infantili episodi, quando decide curiosamente di abbandonare il timbro umoristico. Appaiono personaggi cupi, la gente inizia a morire (sopratutto eroi storici della prima serie) e ZZ si tinge, timidamente, di dramma. Oltretutto le precedenti personalità demenziali subiscono un'abissale evoluzione, passando nettamente da cretini a seriosi, esempio più incredibile il prima ridicolo e ora figo Mashimer Cello. Da serie goffa Gundam ZZ decolla avvicinandosi più volte alle atmosfere di Z Gundam: si fanno strada intrighi politici, rapimenti, morti, e anche la trashosissima sigla d'apertura iniziale viene finalmente abbandonata a favore di una più consona. Sembra che tutto incominci a ingranare, ma ecco che, di punto in bianco, verso gli ultimi episodi si torna alle atmosfere iniziali di scherno puro, per poi giungere a una fase conclusiva dove serio e faceto si rincorrono continuamente anche nel (teoricamente) drammatico finale. Come se Tomino continui a non avere idee chiare sulle atmosfere che intende adottare, o sia costretto da Sunrise a tornare subito sui suoi passi. Basti pensare a come viene gestito male un personaggio tragico sulla carta come la piccola Elpeo Ple, newtype artificiale creata per andare in guerra, potenzialmente inquietante per la sua purezza innocente da bambina nel compiere crudeltà, ma poi cambia schieramento, allora è rimpiazzata da un clone, allora si sacrifica e via così di azioni che una piccola come lei non dovrebbe in teoria riuscire a pensare.

Gundam ZZ è una serie atipica, sicuramente altalenante, che inizialmente schifa, ma che a lungo andare dimostra delle qualità. Non si può minimamente definirla riuscita visti i continui cambi di atmosfere e un numero davvero eccessivo di filler, ma racconta alcuni rari intermezzi davvero riusciti, toccanti o apocalittici (tra cui uno dei migliori colony drop di sempre), e reca in sé diversi degli embrioni che hanno fatto grandi Gundam e Z Gundam. Embrioni che vanno ricercati nell'intrigante soggetto principale, nel comparto tecnico all'avanguardia, nei chara (il neo-entrato Hiroyuki Kitazume, che aggiorna Yoshikazu Yasuhiko senza stravolgerlo e con altrettanta classe) e mecha accattivanti e dettagliati. Senza dimenticarsi le musiche, anonime nelle nuove sonorità, ma basate anche su pezzi vecchi riciclati dall'indimenticabile OST di Z Gundam.

Chi non vuole saperne di "rovinarsi" il ricordo di Z con il suo contraddittorio sequel può tranquillamente saltarlo e godersi Il contrattacco di Char (con il senno di poi, dalla prima opening sembra che già in ZZ era prevista l'apparizione della Cometa Rossa, ma alla fine salta perché Tomino convince i produttori a finanziare il lungometraggio), ma sia cosciente però che tale visione è indispensabile per capire il recentissimo Gundam Unicorn, nel quale si torna a parlare di newtype artificiali e di cloni di Elpeo Ple. Questa categoria sappia comunque che si perde chicche di un certo interesse, come il destino di Haman Karn, Kamille Bidan e Hayato Kobayashi, e il ritorno di Sayla Mass.



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Un film per tutti e per nessuno.

"Tenshi no Tamago", che tradotto significa "L'uovo dell'angelo", è un lungometraggio partorito dalla feconda unione dei due geni di Mamoru Oshii e Yoshitaka Amano. Tale perla è da ritenersi "sine dubio" uno dei film d'animazione maggiormente sperimentali e atipici mai creati, sia considerando la foggia estetica sia andando a guardare la sfera narrativa e concettuale: un vero e proprio "unicum" nell'ambito della cinematografia nipponica. Purtroppo la sua uscita nelle sale è stata accolta con freddezza dal pubblico e presto il suo nome è svanito dalle scene, obliato nei meandri del tempo, per rimanere noto e apprezzato solo da pochissimi appassionati.
Si tratta di un film molto particolare, caratterizzato da continui intrecci di allegorie, simboli e metafore, tanto che il compito di districarne il senso appare significativamente difficoltoso. In realtà si tratta di un lungometraggio a cui non si può dare un'unica interpretazione, è la sensibilità dello spettatore a fare da padrona e a plasmarne il senso.

"Tenshi no Tamago" è, in primo luogo, un'affascinante esperienza estetica di grande caratura e raffinatezza, una poesia di immagini, di suoni, ma soprattutto di silenzi, capace di grande suggestione. Sin dagli esordi ci immerge in scenari cupi e opprimenti, i fondali appaiono quasi dipinti e vividi, tanta è la loro accuratezza. Le animazioni si rivelano eleganti e aggraziate, studiate nel dettaglio: si noti ad esempio il fluire dei capelli della bambina, questi vengono disegnati uno per uno e l'effetto si palesa tremendamente realistico. Le musiche, composte da cori eterei, quasi sacri, concretizzano un'atmosfera onirica, ai limiti tra sogno e realtà.
In tale contesto, alienante e stordente, si muoveranno le uniche due figure presenti: una bambina, custode dell'uovo titolare del film, e un uomo in viaggio, armato di un fucile a forma di croce e le cui mani sono segnate dalle stimmate.
La scena si divide precipuamente tra gli ambienti all'interno dell'arca e la fatiscente e inquietante città morta sulle rive del mare.

Un'esegesi completa di ogni sequenza richiederebbe troppo spazio e apparirebbe quantomeno fuori luogo in questa sede. Sembra quindi doveroso, all'estensore di questa recensione, trattare solo alcuni simbolismi cardine, per offrire un piccolo assaggio dei possibili significati del film, che si giostrano in un sottofondo concettuale variamente assortito, tra esistenzialismo, nichilismo e religiosità.
In primis si può scovare agevolmente un sostanzioso numero di riferimenti alle religioni cristiana ed ebraica: i pesci e i pescatori, il fucile a forma di croce, l'angelo, l'albero della vita, la cattedrale gotica, l'arca. Non ritengo che in questa sede siano stati posti in essere per mero gusto esotico e trastullo estetico, sia andando a considerare l'importanza di alcuni passi biblici recitati in alcune sequenze, sia alla luce del fatto che poco tempo prima di realizzare il film Oshii si era interessato al cristianesimo, per poi abbandonarlo. Una premessa importante, viste le tematiche in questione.

Ma andiamo al punto fondamentale, il fulcro dell'opera è costituito dal rapporto tra le due allegorie della bambina e dell'uomo, e nella loro relazione con l'uovo. I dialoghi sono ridotti all'osso, e spesso sembra che le due figure siano incapaci di comunicare tra loro. Il loro rapporto e atteggiamento con l'uovo è antitetico e configgente. La bambina infatti confida ciecamente che in esso vi sia custodito un tesoro prezioso e di inestimabile valore, che esso nasconda una verità rassicurante, tanto che crede di sentire dei rumori provenire dall'interno. Si tratta di un atteggiamento quasi "religioso", che si fonda sulla fede, su un'intima e innocente convinzione personale. Al contrario l'uomo, il guerriero, è in preda al dubbio, anela la conoscenza non bastandogli la parola della bambina, incarna uno spirito quasi filosofico, scientifico (ancora, la bambina potrebbe simboleggiare la purezza e ingenuità dell'infanzia, mentre l'uomo l'età adulta che ne tradisce le ingenue speranze). Egli non sa resistere alla tentazione della conoscenza e viene meno al suo patto, tradendo l'innocente fiducia della ragazzina, rompe il fragile scrigno per denudare la verità e vederla con i suoi occhi, finendo tuttavia per rivelare che esso è vuoto. Al suo risveglio (forse una metafora del disincanto, del destarsi da un sogno) la piccola si troverà innanzi all'empia scena, comprendendo che tutto ciò in cui fino a quel momento aveva creduto e confidato era solamente un prodotto della sua mente, un'illusione. L'intero mondo in cui credeva si basava su false convinzioni che aveva costruito lei stessa in base alle sue speranze, l'uovo infatti è vuoto. Incapace di accettare una simile verità si lancia in una disperata e futile corsa verso il nulla, verso un baratro (simbolo della mancanza di ogni certezza, di ogni appiglio), per poi cadere da un precipizio e affogare in un corso d'acqua. Stupenda e intrisa di lirismo è l'immagine che vede l'avvicinarsi della bambina al riflesso della "lei" adulta generatosi sulla superficie dell'acqua: le due si fondono e danno vita a un'innumerevole quantità di nuove uova, di altri dubbi di cui il mondo adulto e disilluso è triste annunciatore.

Altre due sequenze, tra le innumerevoli allegorie di quest'opera, sono a mio avviso da ricordare, sempre per ricondursi al tema nichilistico: quella dei pescatori, cui abbiamo già fatto riferimento, e quella finale.
I pescatori sono raffigurati come degli uomini grigi e inespressivi, tutti identici tra loro tanto da non poterli distinguere. Sono una massa uniforme che si produce in una continua, insensata e quanto mai distruttiva caccia a delle ineffabili ombre a forma di pesce, che tuttavia non possono sperare di catturare con i loro arpioni. Gli uomini infine sono uguali, cadono nel medesimo errore di credere in mendaci ideali, di dedicare la loro vita alla rincorsa di ombre, di sogni e chimere che non esistono, come ad esempio il senso dell'esistenza oppure di Dio, e altri falsi idoli comuni alla stirpe di Adamo. La verità è che non esiste alcuna divinità (simboleggiata dal pesce anche nel rosone della cattedrale), essa è solo un'ombra cui l'uomo non può fare a meno di dare la caccia, ma che non può afferrare.
La scena conclusiva, infine, fa trasparire un forte senso di insignificanza delle vicende e dei dolori umani, che scorrono inutilmente, meno rilevanti di un pezzetto di muffa e muschio sulla chiglia di una nave. L'imbracazione, rovesciata, sembra un'arca che è naufragata, portando l'umanità alla deriva di un oceano nero e denso come la pece. Una conclusione cupa e sconfortante, di rara suggestione.