Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Oggi appuntamento a tematica libera con Panzer World Galient, [K] e Denshinbashira elemi no koi.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


Per saperne di più continuate a leggere.


-

Il regno del pianeta Arst è attaccato dall'esercito del malvagio Marder che, ucciso il sovrano, ne usurpa il posto. Il principe Jordy, neonato, è però salvato da un amico del padre, Asbeth, che fugge con lui a White Valley, pronto ad addestrarlo duramente per prepararlo, da grande, a guidare una ribellione. La guerra si scatena alcuni anni dopo, quando Marder cerca di distruggere il villaggio e Jordy, per difenderlo, rinviene sottoterra, custodito da tecnologie aliene, il possente robot Galient...

Per molto tempo Galient è stato stato una delle sconosciute e, per questo, sicuramente eccezionali serie mecha dei favolosi anni '80, solleticando il fandom internazionale dei robofan per lo staff artistico dietro, e frustrandolo oltre misura nell'attesa che qualcuno decidesse di sottotitolarlo amatorialmente. Ora che tale missione è adempiuta il fantasy/robotico di Ryousuke Takahashi è finalmente disponibile alla visione, pronto a deludere, come L-Gaim, chi pensa che ogni inedito realizzato da registi di razza sia per forza di cose di alto livello.

Nessun capolavoro da riscoprire: Galient è la tipica serie lenta di Takahashi/Shioyama, dai mecha bizzarri, personaggi stravaganti (il ladro Wind, successore del Vanilla di Votoms) e mille dialoghi, ma con una storia troppo sempliciotta e generica per giustificare addirittura 25 puntate. Lo spunto di partenza, assimilabile al fantasy più stereotipato, è mantenuto per la quasi totalità dell'avventura: Galient racconta essenzialmente la lunga guerra combattuta a White Valley tra gli uomini di Jordy e l'esercito di Marder, in puntate mediamente uguali nel quale il Galient guidato da Jordy annienta sistematicamente le truppe robotiche del nemico, talvolta compiendo raid nelle sue basi e a volte affrontandole in casa, con sporadici spezzettamenti dell'azione per privilegiare originali intermezzi fantascientifici di trama. Nessun segno di quella rilettura di scorci di storia contemporanea, marchio di fabbrica del regista, che rendono grandi i suoi precedenti Dougram e Votoms.

Gli intermezzi accennati, in compenso, sono quantomeno originali per l'epoca: anticipando di dodici anni il j-rpg "Star Ocean", Galient per la prima volta incrocia il fantasy epico/cavalleresco con la fantascienza pura, con l'arretrato e roccioso pianeta in cui è ambientata la storia, Arst, meta di viaggi ed esplorazioni da parte di navigatori o dittatori spaziali provenienti da distanti pianeti dell'universo, e che con le loro tecnologie avveniristiche (il Galient ad esempio) influenzano l'andamento della guerra. Sebbene, rispetto a Votoms e Gasaraki vari, il ritmo lento non è troppo asfiassiante e, anzi, le puntate si seguono con un certo piacere, c'è pochissima innovazione in questo primo "figlio" di Dunbine che ne copia, paro paro, buona parte dei tratti: c'è il re cattivissimo che propone sempre all'eroe di passare dalla sua parte, il suo braccio destro (Hy Shaltat) che di quest'ultimo è il principale rivale, un cast pressoché identico (Wind è Neal, Hilmuka Marvel), e come nell'opera di Tomino anche stavolta lo scenario è sfruttato ben poco: non fosse che gli eserciti usano in guerra robot da combattimento a forma centaurica (i cosidetti Panzer) e cavalcano i pennuti corridori (i Rolopper, antenati cornuti dei Chocobo), unica fauna "fantastica" che ci è dato di vedere, si potrebbe confondere Arst con un generico pianeta medievale. Da dimenticare scenari da fiaba et similia, perché qui le uniche scenografie, tre puntate finali escluse, sono sempre e solo la desertica White Valley e l'oscuro, anonimo castello di Marder.

Il problema di Galient è la sua difficoltà a coinvolgere in una storia banale dai personaggi incolore, troppo generici e già visti per comunicare qualcosa anche nel momento di una loro eventuale morte. Lode assoluta all'idea dei viaggiatori spaziali e delle attrezzature fantascientifiche, agli shorts di Hilmuka (decisamente tra le protagoniste più sexy mai viste), alle tante piccole chicche fanservice con cui Takahashi manda in brodo in giuggiole i robofan (le micidiali armi del possente robot protagonista - capace anche di trasformarsi in aeroveivolo all'occorrenza -, tra fruste che si trasformano in spadoni e un fucile laser a canne mozze che si equipaggia con una sequenza di "agganciamento" di rara sboroneria) e a qualche riuscito spunto narrativo, ma sono idee che non bastano a dare la spinta a un'ordinaria storia robotica che brilla poco e si ritrova un finale privo di climax. Senza contare un comparto tecnico, una volta tanto, non degno della fama che Sunrise si costruiva in quegli anni: il mecha design generale, a opera di Izubuchi e Okawara, è piatto e svogliato, per nulla carismatico, a volte addirittura pacchiano - quanto sono oscene le unità di Lambert e Slarzen? Le animazioni vanno dal buono al sufficiente e soprattutto, rispetto a Votoms, manca quella fluidità assoluta dei movimenti che rendeva realistiche come non mai le movenze degli AT.

Pur con alcuni spunti interessanti, i 25 episodi che compongono Galient sono troppi per quel poco che ha da offrire la trama. Una visione disimpegnata che, tirando le somme, non ha nessun difetto eclatante, ma fa riflettere il fatto che pochi anni dopo la stessa accoppiata di autori, Takahashi/Shioyama, con l'oscura miniserie OVA Mozaika di appena 4 puntate, sempre fantasy e oltretutto dal finale incompleto, dice decisamente di più sullo stesso argomento. Come intuibile, questa è una visione riservata unicamente ai fan del regista.

Come da prassi Sunrise di quegli anni, l'anno dopo, visto il successo della serie, escono tre OVA: i primi due, "Il capitolo della terra" e "Il capitolo del cielo", a rappresentare un inutile e mal fatto recap; il terzo, "Emblema di ferro", invece, una totale rilettura di fatti e personaggi della storia.



-

Prima ancora della messa in onda, "[K]" aveva già fatto parlare di sé grazie ai vari trailer in cui venivano mostrati combattimenti (apparentemente) epici, personaggi (apparentemente) fighi e carismatici, trama (apparentemente) intrigante, chara accattivante, bellissime animazioni e colonna sonora da brividi. Nella mia carriera di fruitrice di anime, ho imparato un paio di cose, tra queste spicca un principio in particolare: "Mai farsi abbindolare dai trailer, specie se molto, troppo criptici". Nel caso specifico di "[K]", questa lezione mi è tornata utile, difatti mi è servita per tenere a freno l'entusiasmo per l'avvento di questa serie.

Per descrivere la trama in due parole, basta dire che "[K]" si svolge in un futuro ultramoderno dominato dalla presenza di sette Re, ognuno dei quali corrispondente ad un colore. Il protagonista (?), Yashiro Isana, si ritrova senza nemmeno sapere perché, in mezzo a questa guerra tra fazioni legate ai rispettivi sovrani, combattuta a colpi di poteri psichici; lui che non sa nemmeno dove ha la testa, sembra essere il fulcro di tutto questo putiferio. Accusato di un omicidio di cui è totalmente inconsapevole, tutti lo vogliono e tutti lo cercano, ma Yashiro Isana è un assassino o solo un cretino qualunque? Yatogami Kuro, inizialmente ha il compito di uccidere Shiro, ma molto velocemente cambia idea e preferisce credere alla seconda ipotesi (sì, quella del cretino qualunque) e inizia con lui un viaggio alla ricerca della sua vera identità e del suo passato nascosto.

Anche se ho detto che ho, sin da subito, volontariamente smorzato l'entusiasmo per questa serie, non significa che non riponessi un minimo di speranza che dietro a tanta bellezza esteriore potesse esserci pure della sostanza, anche per smentire la facile equazione "anime colmo di bishounen=inutile e pessima roba per fangirls". "[K]" non conferma e non smentisce del tutto questa prospettiva, difatti ritengo che con delle migliorie (molte in effetti), questa serie avrebbe potuto dimostrare come la presenza di "figaccioni" non sia sempre ed esclusivamente fine a se stessa. L'anime presenta una trama interessante, una storia ricchissima di personaggi e potenzialità, ma il tutto si lascia andare alla lentezza, alla confusione e ai salti temporali indiscriminati. E' solo dal settimo episodio in poi che comincia a capirsi qualcosa, ma in una serie di tredici episodi tutto ciò è abbastanza frustrante; per arrivare fin qui abbiamo dovuto tener duro di fronte alla confusione, alle frasi non dette e a personaggi di cui non capisci l'utilità, e scusatemi ma non è poco! Così, a poco a poco inizia a svelarsi qualche mistero, ma la trama continua a rimanere fumosa, lenta, con dei flashback inseriti molto male, che si risolleva solo negli episodi finali. La conclusione dell'anime non dissipa tutti i dubbi e i misteri, la storia si risolve con un finale inaspettato ma comunque aperto, difatti, è già in programmazione una seconda stagione.
La serie presenta alcuni personaggi molto interessanti (ironicamente non si tratta nemmeno dei veri e propri protagonisti se con questo appellativo intendiamo designare Yatogami, Shiro e Neko), con un background accattivante ma decisamente poco sviluppato. Le relazioni tra i personaggi sono esplicate poco e male, prendiamo ad esempio il rapporto tra Yata e Fushimi: girovagando per il web, ho letto un'intervista agli sceneggiatori che svelava interessanti retroscena sui due, tutte cose che però nell'anime vengono appena accennate. Così, una caratterizzazione potenzialmente intrigante finisce per diventare vittima della superficialità con cui viene esplicata, lasciandoci dei personaggi sui quali è possibile solo fare supposizioni, sempre che se ne abbia la voglia.
Il fanservice è un po'invasivo, sia per quanto riguarda le ragazze con seno e sedere fin troppo in mostra, sia per quello che concerne i ragazzi continuamente in pose e atteggiamenti da fighi, basti pensare alle lotte tra il Re rosso e il Re blu, che più che usare poteri psichici e simili, si colpiscono a colpi di sguardo che seduce e dice: "Io sono più figo di te!".

Tecnicamente parlando, con "[K]" è stato fatto un lavoro egregio; la grafica è bellissima se non vi dispiace quel filtro bluastro, la regia è ottima, il chara decisamente affascinante, le musiche sono adatte all'atmosfera (anche se il tema portante è un po' martellante), le animazioni fluidissime e la computer graphic non è fastidiosamente invasiva. Ciliegina sulla torta, un cast stellare di doppiatori che riesce ad imprimere ai personaggi la personalità che la storia da sola non riesce ad esprimere e a questo proposito, è impossibile non notare le splendide perfomances di Mamoru Miyano e Jun Fukuyama, rispettivamente doppiatori di Fushimi e Yata, casualmente (o forse no), due dei personaggi che ritengo meglio riusciti.

"[K]" è un anime dalle grandi potenzialità, che sfortunatamente si è perso nel fumo, nella confusione, nella voglia di strafare con un mix di psicologia, mistero e combattimenti: da tutto ciò è uscito fuori un miscuglio dal sapore indefinito, che non rende la serie consigliabile ad occhi chiusi, memorabile o piacevole da seguire per tutto il tempo della sua durata.
Il mio voto è un sei stiracchiatissimo, il comparto tecnico è meritevole e le idee di fondo buone, qualche personaggio è molto interessante, quindi mi sento di promuoverlo almeno con la sufficienza (quantomeno non ho avuto l'istinto di prendere a sberle i protagonisti), allo stesso tempo però, proprio perché tutto questo potenziale è stato buttato alle ortiche, il mio sei può anche essere idealmente considerato un quattro, per punizione.



-

Nel gergo delle fanfiction (racconti amatoriali basati su un universo narrativo precostituito) si parla di crack pairing nel caso di una relazione sentimentale impraticabile nella storia originale. Tra le varie combinazioni possibili vi è anche quella tra un essere umano e un oggetto inanimato, argomento invero più adatto a essere sviluppato all'interno del "Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders", testo sacro di ogni psichiatra, ma che in un contesto così informale viene solitamente trattato in chiave ironica. "Denshinbashira Elemi no Koi" non è una fanfiction, ma se lo fosse sarebbe una delle poche ad affrontare questa materia non solo dal punto di vista dell'oggetto, ma anche in modo serio e, paradossalmente, molto più umano di quanto si possa credere.

La protagonista del mediometraggio è Elemi, un palo del telefono che, a seguito di un temporale, riceve le "cure" di un tecnico di cui finisce per innamorarsi. Lui, ovviamente, non ha la più pallida idea che le telefonate che inizia a ricevere di lì a poco da una donna misteriosa provengano da lei, e rimastone in breve tempo conquistato si strugge perché non riesce a convincerla a fissare un incontro. Nel tentativo di tenerlo legato a sé Elemi infrangerà più volte, e sempre più scelleratamente, la regola di tutti gli oggetti: servire l'uomo senza aspirare a instaurare vero e proprio rapporto con lui. Le sue intemperanze non sfuggono al Gran Consiglio dei pali del telefono, che si vede costretto a metterla a processo.

Pali del telefono senzienti e addirittura provvisti di un rigido codice comportamentale? Abbassate le sopracciglia, vi prego - tutt'e due, per citare "I Simpson". Si tratta senza dubbio di un'immagine bizzarra, ma "Deshinbashira Elemi no Koi" si basa proprio su un'umanizzazione degli oggetti tale da renderli, quantunque non fisicamente, incredibilmente simili a coloro che li hanno creati da un punto di vista sociale ed emozionale. Non è chiaro chi abbia finito per rispecchiare chi, ma personalmente non la riterrei una questione di vitale importanza per l'economia della storia. L'anime, infatti, parla prima di tutto d'amore, e la pazzia, si sa, è un tratto che spesso si associa agli innamorati. Cosa importa, ordunque, se Elemi non è una donna? È sufficiente che ami come una donna affinché ci si ritrovi a fare il tifo per lei, nella speranza che anche i vecchi saggi si dimostrino capaci, per così dire, di ragionare con il cuore.

Ma "Denshinbashira Elemi no Koi" non è soltanto stimolante dal punto di vista dello scavo introspettivo: è anche carinissimo da vedere, in quanto interamente realizzato con la tecnica dello stop motion. Riuscite a immaginare quanto tempo ci sia voluto per mettere insieme un prodotto di quaranta minuti circa, con tutte le difficoltà che l'utilizzo di questa particolare tecnica comporta? Ve lo dico io: anni. Tanto di cappello, quindi, alla costanza dell'autore, che denota un'encomiabile dedizione al proprio lavoro e all'universo da lui stesso creato.

Rispetto ai miei standard ho impiegato molto tempo prima di decidermi a recensire quest'anime, che ho visto soltanto una volta ma che mi è rimasto incredibilmente impresso. Questo perché è uno dei rarissimi prodotti che ti danno l'impressione di dire tutto quello che conta in merito all'argomento da loro affrontato, anche se naturalmente nessuno potrà mai catturare tutte le sfumature di un sentimento così meravigliosamente multiforme come l'amore: una lingua che tutti capiamo, ma che ciascuno di noi - uomo, donna o palo del telefono - declina a modo suo.