Prosegue la rubrica in cui presentare le opere più apprezzate dai recensori di AnimeClick.it di un determinato periodo, filone o genere.
In questo appuntamento raccogliamo tutti gli anime compresi tra il 1990 e il 1999. A seguire, una raccolta di recensioni di alcuni dei titoli in classifica.

Siete d'accordo con la classifica? Oppure ci sono opere sopravvalutato o manca qualche titolone imperdibile?
 

  
1 Kenshin samurai vagabondo - Memorie del passato 9,114
2 Ghost in the Shell 9,109
3 Cowboy Bebop 9,107
4 Pioggia di ricordi 8,968
5 Slam Dunk 8,737
6 GTO - Great Teacher Onizuka  8,717
7 Rurouni Kenshin 8,706
8 Digimon Adventure 8,667
9 Slayers Next 8,636
10 La principessa mononoke 8,628
11 Hime-chan no Ribbon 8,625
12 Hunter x Hunter 8,605
13 Sailor Moon 8,594
14 Neon Genesis Evangelion 8,593
15 Perfect Blue 8,579
16 Fushigi yuugi (TV) 8,556
17 Curiosando nei cortili del cuore 8,538
18 Slayers Try 8,500
18 Sailor Moon S 8,500
20 Yu yu hakusho 8,486
21 Mobile Suit Gundam - 08th MS Team 8,474
21 Rossana - Il giocattolo dei bambini 8,474
23 Pokémon il film - Mewtwo contro Mew 8,467
24 Magic Knight Rayearth 8,435
25 Nadia - Il mistero della pietra azzurra 8,419
26 Guru Guru - Il girotondo della magia 8,346
27 Yuusha-Oh GaoGaiGar 8,333
28 Card Captor Sakura 8,316
29 Due come noi 8,308
30 Black Jack - Dieci indagini nel buio 8,300
30 Spicchi di cielo tra baffi di fumo / Il cielo azzurro di Romeo 8,300
30 Sailor Moon Sailor Stars 8,300
33 Chouja Raideen 8,286
34 Cantiamo insieme 8,250
35 Dragon Ball Z - Le origini del mito 8,227
36 Trigun 8,221
37 Giant Robo 8,200
38 Ninja Scroll 8,188
39 The Big O 8,182
39 Initial D 8,182
41 Porco rosso 8,175
42 Pompoko 8,174
43 Magica Doremì 8,167
44 Il pazzo mondo di Go Nagai 8,154
45 Slayers 8,150
46 Patlabor 2: The Movie 8,125
46 Papà Gambalunga 8,125
48 Dragon Ball Z: Il diabolico guerriero degli inferi 8,105
49 Lupin III: Walther P38 8,083
50 I sospiri del mio cuore 8,069
51 Serial Experiments Lain 8,057
52 Golden Boy 8,023
53 Lei e il gatto 8,000
53 Marmalade Boy - Piccoli problemi di cuore 8,000
53 Infinite Ryvius 8,000
53 Clamp in Wonderland 8,000
53 On Your Mark 8,000
53 La rivoluzione di Utena 8,000
59 The End of Evangelion 7,957
60 Memories 7,950


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Memorie di sangue

Nato sotto forma di manga nel 1996 dalla matita di Nobuhiro Watsuki, il samurai vagabondo (rurouni) Kenshin conosce una grande fortuna di pubblico sia in Giappone che in Occidente, grazie anche a una corposa serie TV, un lungometraggio per il cinema e due O.A.V., uno dei quali, diviso in quattro atti, è intitolato "Tsuioku Hen" (Memorie dal passato), 1999.

L'anime è ambientato sullo sfondo dei tumulti che decretarono la fine dello shogunato Tokugawa e l'inizio del periodo Meiji (1868), l'epoca illuminata che segnò un repentino progresso tecnologico e sociale e che emancipò il Giappone dal passato feudale proiettandolo verso la modernità. In questo scenario di violenti scontri fra clan e intrighi politici avviene l'incontro tra il protagonista Kenshin Himura e la misteriosa Tomoe Yukishiro, fra i quali nascerà una disperata e struggente passione.

I toni leggeri che caratterizzano il manga qui lasciano il posto a una pacata e severa malinconia che sottolinea con un velo di nostalgia il passato tormentato del samurai redento, dall'infanzia trascorsa con il maestro Hiko Seijiro, che lo istruisce all'arte della spada, fino all'affiliazione con il clan filo-imperiale di Kogoro Katsura.
La regia 'vecchia maniera' di Katsuhiro Furuhashi è rigorosa, senza fronzoli o invenzioni sceniche spettacolari, i movimenti di camera si limitano alle lente zoomate e agli scorrimenti in carrellata, ma si concede svariati flashback avanti e indietro nel tempo per scavare nella psicologia e nella 'memoria' dei personaggi. In compenso le splendide tavole scenografiche sono di per sé un raro spettacolo per gli occhi, autentici dipinti che calano lo spettatore nell'atmosfera fosca e lunare del paesaggio invernale piuttosto che nella magia della luce primaverile, in quei pochi momenti di bucolica felicità dei due protagonisti. Il ritmo è lento e riflessivo, con sparute accelerazioni nelle fasi di combattimento, in cui, fra 'slash' e affondi di katana, il sangue scorre copioso.
La ricostruzione filologica dell'epoca storica è ineccepibile e denota un'attenzione millimetrica ai particolari: i costumi, le architetture e persino l'inserimento di avvenimenti e personaggi realmente esistiti, fanno di questo O.A.V. una testimonianza abbastanza fedele del periodo in questione: il crepuscolo del Giappone feudale.
Le suggestive musiche di Taku Iwasaki danno un ulteriore tono drammatico agli episodi e completano l'impianto triste e malinconico su cui si impernia il titolo.

Il personaggio di Kenshin è ricalcato sull'impronta di un samurai realmente esistito: Gensai Kawakami, un 'hitokiri' (tagliatore di uomini) di massimo grado che si era particolarmente distinto per coraggio e ferocia sanguinaria. La leggenda vuole che la finezza e l'eleganza delle sue fattezze, dalla bellezza efebica e quasi effeminata, fosse in netto contrasto con la sua personalità di glaciale e spietato assassino. Questa particolarità non è sfuggita al creatore di Kenshin e tanto meno al chara-designer di questi episodi, Masahide Yanasigawa. E' interessante notare come il famoso regista Nagisa Oshima si sia ispirato allo stesso personaggio storico nel delineare il protagonista della sua pellicola "Tabù-Ghoatto", 1999, solo che in quel caso il samurai dai lineamenti dolci e gentili è un affiliato agli Shinsengumi, corpo speciale della fazione legata allo shogun, quindi opposta a quella filo-imperiale di Kenshin.

"Memorie dal passato" è un suggestivo squarcio nel passato del Giappone a cavallo fra due epoche fondamentali di grande rilevanza storica, e ci regala due ritratti intensi e tragici destinati a celebrare degnamente la leggenda di Kenshin.


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“Ghost in the Shell” è il cult. È uno di quegli eventi che cambiano i paradigmi. Il canto del cigno dell’ultimo cyberpunk anni ’90, glaciale, dalla filosofia sfuggente ed estrema spinta fino ai recessi più profondi dell’esistenza – fino alle idee fondanti dell’esistenza – e ancora oltre, esplorando gli abissi creati da un pensiero che va oltre, che sa spingersi oltre, e che lo fa dentro una struttura che è una visione rigorosissima in cui non c’è nulla di casuale, in cui tutto è assolutamente voluto e significante – in cui tutto è essenziale. Mamoru Oshii realizza non soltanto la sua opera più alta, ma qualcosa che ha segnato per sempre il corso dell’animazione e della fantascienza. Un’architettura narrativa assoluta, incantatoria, magistrale, costruita in modo onirico e contemplativo dalla sua simmetria speculare, che si riflette circolarmente in ogni attimo della visione nei suoi molteplici livelli di lettura, e in cui le superfici della realtà si mischiano in un sovrapporsi di piani narrativi tangibili e allo stesso tempo metaforici – in cui l’immagine è allo stesso tempo reale, illusoria e simbolo.

Sullo sfondo della megalopoli del terzo millennio (New Port City) – derivazione techno-industriale e informatizzata delle metropoli asiatiche di Hong Kong e Tokyo e abbaglio di fondali e ambientazioni cyberpunk pure, dalla fascinazione agghiacciante che lascia esterrefatti –, e tra le maglie del cyberspazio della rete, si snoda una trama che è un traslato sottile freddo e celebrale, fatto di corrispondenze sfaccettate in un gioco di riflessi, e di meditazioni sussurrate e intessute nella matrice narrativa di cui sono cardine e germe. Una visione in cui il confine fra la coscienza e il corpo è qualcosa di netto e in cui le due parti non sono più mutuamente dipendenti. In cui lo spirito, l’insieme dei processi mentali individuali – il Ghost –, può viaggiare liberamente nella rete e nascere autonomamente fuori da qualsiasi prigione fisica. In cui la sicurezza della percezione di sé e del mondo è labile, e le certezze basilari legate al proprio Io e al senso stesso della propria esistenza sono precipitate in un caos gelido e straniante.

La realizzazione tecnica (Production I.G) è incommensurabile, e a 15 anni di distanza la sua qualità rimane inalterata anche a confronto con le grandi produzioni odierne, con i disegni, la CG, il mecha design e il taglio delle sequenze e delle animazioni che sono diventati il punto di riferimento della nuova generazione della fantascienza. La fotografia, le tonalità cromatiche e le luci polari infondono negli ambienti un’atmosfera sconcertante e inesprimibile, che sembra immersa in un’allucinazione consapevole e dalla quale traspirano dialoghi liminali, enigmatici e filosofici. E si resta ammutoliti di fronte a personaggi (il Maggiore Kusanagi e il “Signore dei pupazzi”) dalla psicologia così problematica, dalla riflessività e dalla profondità abissali, e che sono diventati eterni e indelebili come pietre miliari per la loro caratterizzazione emblematica. Così Motoko assurge a sintesi perfetta della riflessione portata avanti dall’intero film, e le sue bellezza androgina e algidità artificiale creano il mito di un personaggio inavvicinabile, ammantato da un magnetismo subliminale.

La regia di Oshii è sconcertante: dal suo angolo distaccato di osservatore immobile, egli contempla i fili – che egli stesso ha disposto – evolversi nell’azione che fluisce come un’evoluzione indipendente, e si limita a raccogliere lo scorrere degli atti e dei pensieri con delle inquadrature ricercatamente enigmatiche e stilisticamente uniche.
La colonna sonora di Kenji Kawai lascia smarriti, facendo rimbombare dall’interno sussulti amniotici e suoni fluttuanti che si insinuano in echi surreali, accompagnati da sonagli e percussioni diaframmatiche come sottofondo insondabile che si mescola in modo imprescindibile al video, ricreando un Ghost che vive di vita propria. Un capolavoro compositivo languido e straniante, scandito dai tre canti, immortali, che segnano le tappe, che guidano il Maggiore nella scoperta dell’essenza, e che ipnotizzano come voci che giungono dal subconscio stesso dell’opera.

Così, forte di tutto questo e proprio in virtù di ciò, Oshii sublima il pensiero mutuato da Shirow, e lo amplifica con la sua sensibilità peculiarmente complessa e intellettuale, evocando in poco meno di 80 minuti il ragionamento labirintico dell’esistenzialismo cybernetico evanescente che è la stigma e il senso ultimo dell’opera, e che trapela con una lucidità tanto fredda da essere raggelante e sconcertante.
“Ghost in the Shell” è un’opera di culto al pari dell’unica altra opera (di un anno posteriore. E chi legge sa di cosa sto parlando) che nella sua “interezza” (e chi capisce – capisca) rappresenta il punto di arrivo, lo zenith e la svolta di una concezione del mondo – e forse di un mondo stesso.


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Taeko Okajima non è sposata, ha un lavoro che non ama, e vive la sua vita monotona in una società giapponese dove a 27 anni una ragazza single è considerata una zitella senza futuro. Decide di staccare la spina e concedersi una vacanza in un'azienda agricola di famiglia: durante il viaggio sarà colta da un flusso di pensieri e immagini riguardanti la sua fanciullezza e le esperienze che l'hanno portata a divenire quello che è, sopratutto le fantasie sul come, da piccola, si vedeva da grande. Finalmente, tornando nei luoghi dell'infanzia e conoscendo Toshio, innamorato di lei, saprà accettare se stessa diventando una vera adulta.

Se parlare dell'abbandono della fanciullezza e dell'ingresso nel mondo adulto, da parte di una office-lady di 27 anni, già dalle premesse odora di débâcle commerciale, colpire l'obiettivo e farlo nel miglior modo possibile significa, per forza di cose, aver creato un capolavoro. E sicuramente di capolavoro si parla con "Only Yesterday", il lungometraggio più squisitamente rappresentativo di Isao Takahata, dove sono sublimati, in una cura figurativa perfetta, il suo gusto neorealista, la sua sensibilità, la sua poesia. Per quel che mi riguarda, è di sicuro uno dei più bei film d'animazione di sempre e il mio preferito in particolare.

Dimentichiamoci, per un istante, la fantasmagorica estetica di Studio Ghibli, perché Ghibli non è solo Miyazaki, è anche Isao Takahata: non solo favole ecologiche, ma anche spaccati di vita, dove non contano effetti speciali e animazioni spacca-mascella, ma solenni introspezioni dell'individuo. Graficamente "Only Yesterday" non è appariscente, anzi, tolto il suo consueto e riconoscibile chara non v'è traccia dello spettacolare sense of wonder della factory miyazakiana: manca qualsiasi tipo di azione, l'intreccio si basa interamente su interazioni tra personaggi e le location sono giusto gli interni della casa dove viveva Taeko da piccola, la sua aula scolastica e i paesaggi rurali in cui la lei adulta passa le vacanze. Si è domandato a Takahata perché, per un soggetto simile, non abbia scelto un film con attori in carne e ossa: risponderà che solo il supporto animato permetteva di rendere al massimo le espressioni e gli stati d'animo dei protagonisti. Niente fondali stupefacenti, ma in compenso un'eloquenza incredibile nella resa fisica dei sentimenti dei personaggi, con animazioni interessate a mostrarcene il labiale e le fossette nelle guance, plasmati su quelli degli stessi doppiatori giapponesi.

Il film è tutt'uno con l'umanità del regista, memorabile nel tratteggiarci, con delicata regia, l'infanzia di una donna che vuole fare i conti con la giovinezza. Egli evoca i sentimenti della Taeko piccola con frequenti flashback rappresentati, nella loro dimensione sognante, da tenui e caldi colori ad acquerello, parlandoci così, con sensibilità e perfetta resa dei dialoghi, della paura e vergogna per il primo ciclo, della cottarella per l'asso di baseball della scuola, della difficile comprensione degli atteggiamenti severi dei genitori e del sogno sfumato di fare l'attrice a causa loro. Ricordi resi in modo intimista e affidandosi alla grande espressività del delicato chara di Yoshifumi Kondo.

"Only Yesterday" trova fonte di meraviglia nell'essere un credibile e poetico spaccato di vita, uno slice of life lineare e genuino che proprio nella rappresentazione di piccoli momenti di quotidianità, filtrati dall'innocenza di una bambina, tocca le corde dell'animo: pensiamo a Taeko che mangia insieme alla famiglia un ananas ed è l'unica, stupita, che lo gradisce; al primo schiaffo avuto dal padre in risposta all'insofferenza verso la sorella maggiore; alla madre che invece di farle i complimenti per il talento nello scrivere la rimprovera di non mangiare quello che le prepara. Anche tornando al presente non mancano momenti di grande cinema, come quando la lei adulta aiuta l'azienda agricola a raccogliere e preparare fiori di cartamo per la successiva raffinazione in zafferano. Scene che si imprimono nella memoria per merito dell'umanità dei personaggi, dei rituali sociali e dell'aria di tutti i giorni che si respira, così tangibili che l'empatia si instaura spontaneamente e in modo sincero.
Memorabile è anche l'accompagnamento musicale, dove siamo partecipi dell'ambiente rurale, sentendo in sottofondo canti contadini ungheresi e bulgari, e anche stornelli italiani.

Parliamo di un film perfetto, dove la poetica di Takahata trova la sua più felice ispirazione e dona un senso a ogni cosa: tutto, in "Only Yesterday", segue una coerenza. Ogni metafora, ogni ragionamento, ogni dettaglio, anche quello a prima vista più insignificante, fanno la loro parte nella progressiva autoconsapevolezza della ragazza: facciamo caso all'arredamento della sua casa durante i ricordi, dove drappi, tendaggi e mobili sono quasi sfumati perché lontani nella memoria; pensiamo alla riflessione di Toshio sui verdi paesaggi rurali, che non nascono in quanto tali ma sono frutto dell'ingegno e del lavoro dell'uomo (la felicità non è servita da sola, ma va costruita), e così via: un mosaico dove ogni tassello ha un peso nel delineare la personalità e l'evoluzione di Saeko e dove tutto è elegantemente lasciato a intendere, senza incivili "spiegazionismi". Un'attenzione maniacale, una grande sensibilità umana e una narrazione di grande semplicità sono da sempre marchi indelebili del regista e salveranno anche le sue opere meno riuscite (penso al noioso "Pom Poko", dove l'interesse maggiore sta nella ricostruzione perfetta dell'energia e dei modi di fare dei salarymen sessantottini incarnati dai tanuki) e che qui trovano la dimensione e il soggetto migliori dando una personalità assente nel manga d'origine di Hotaru Okamoto, da cui "Only Yesterday" è tratto, basato solo su ritagli di vita della piccola Saeko e senza una trama di sottofondo.

Indimenticabile, infine, ma davvero, è il climax raggiunto dalla sequenza simbolica che chiude il film, la scena più bella mai realizzata da Takahata che, per dolcezza, musiche sognanti e messaggio, rappresenta il più commovente commiato alla fanciullezza mai filmato. Impossibile rimanere indifferenti a un'opera simile, ma sopratutto a un regista che, in soli tre anni, ha realizzato film come questo e "Una tomba per le lucciole".
Scontato dirlo, visione che nessun adulto dovrebbe risparmiarsi, per un viaggio meraviglioso alla (ri)scoperta della vita.
E' un crimine che tale gemma non sia mai arrivata in Italia, probabilmente per assenza di mercato come in America. Speriamo, una volta tanto, in un miracolo che renda giustizia a un simile monumento, sperando nell'esempio del ben meno meritevole "Pom Poko".


8.0/10
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'Perfect Blue' è il primo lungometraggio diretto dall’allora semisconosciuto Satoshi Kon, tratto dal romanzo originale di Yoshikazu Takeuchi e curato nelle animazioni dallo studio Madhouse. Era il 1997.
Da questo punto in avanti Kon diventò l’incarnazione di un determinato cinema d’animazione, una forma del tutto nuova che si amalgama in modo funzionale con l’analisi strutturale dei fenomeni d’attualità sociale, con la messa a nudo della psiche nei suoi momenti più estremi e con l’investigazione del fenomeno onirico in sé. La relazione tra la protagonista e la sua percezione della realtà, portata ai limiti delle sue nevrosi, si avviluppa nel gioco di immagini dove momento, ricordo e illusione si generano l’uno dall’altro e danzano a fasi alterne e senza continuità di soluzione.

La messinscena del film segue difatti passo passo la debacle psicologica della protagonista. Mia, dal mondo patinato di idol solleva la sua carriera, verso il successo e trascina specularmente la sua vita in una spirale di decostruzione del proprio io, di dissociazione dalla stessa realtà e di caos percettivo tout court. Proprio lo specchio e l’immagine sono il simbolo e l’ossessione onnipresenti che frammentano la certezza di quello che si vede. Sono il veicolo della proiezione del doppio e del suo sostituirsi all’originale. Per realizzare ciò Kon utilizza un gioco d’incastri e rimandi spiazzante, e mescola fluidamente il thriller della vita della Mia reale con il thriller della finzione del suo ruolo d’attrice. Kon ne sovrappone le parti, facendo ricalcare alle esperienze vere le scene girate, e mette in discussione i concetti stessi di verità e illusione, giungendo al caos della comprensione labile di ciò che si vive come vero. Solo alla fine Mia – dopo che ha inseguito il suo riflesso/doppio e dopo che è stata infine inseguita dallo stesso, le due sequenze forse più belle di tutto il film – ritrova la lucidità e il posto occupato nel mondo, tornato limpido almeno per una delle due donne.

Contestualmente a questo filo, Kon prende in esame alcuni fenomeni (allora agli inizi) del mondo globalizzato e commerciale, li denuda della loro superficie pop e li analizza negli aspetti più inquietanti nei quali possono degenerare. Inoltre lascia lo spazio per diverse citazioni dal mondo del cinema - “Il silenzio degli innocenti” è per esempio il richiamo più esplicito -, per l’esposizione dei suoi processi realizzativi interni e, perché no, per un accenno di riflessione tra le righe e non sul medium cinematografico stesso.
Sul piano della realizzazione tecnica, 'Perfect Blue' è piuttosto curato, ma non svetta su livelli di eccellenza. Sia le animazioni e i fondali sia i disegni e i colori sembrano più inerenti a una serie televisiva di medio/alto livello che a un lungometraggio, mentre si fa apprezzare la fotografia, che con i suoi passaggi di tono rende perfette le varie sequenze di delirio visivo del film. I risultati sono dunque notevoli soprattutto negli interni di luci al neon e nelle ambientazioni notturne. Ottime anche le musiche di Masahiro Ikumi, che ai motivi pop senza pretese delle idol contrappone atmosfere e cori suggestivi e d'estrema tensione.

Sul piano autoriale l’impronta di Kon, benché alla sua opera prima, è sbalorditiva e si può dire - con il senno di poi - già formata e consapevole oltre ogni modo. Difatti da 'Perfect Blue' in avanti Kon si rivelerà un regista dalla messa in scena così spontanea da lasciare allibiti, un regista che “gioca” con il montaggio e dà del tu al cinema. E con questo film Kon ha posto le basi della sua concezione dell’animazione e della sua più ampia riflessione, che ha poi portato sotto gli occhi di tutto il mondo e che lo ha fatto assurgere come il nome nuovo e l’innovatore del lungometraggio d’animazione prima, e in seguito come uno dei più grandi e apprezzati registi nipponici sul palcoscenico internazionale.


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È l'anno 0079, quello della cosiddetta "Guerra di un anno" che tutti i cultori della serie Gundam sicuramente conoscono. Quello che molti non sanno è il conflitto fra la Federazione Terrestre e il Principato di Zeon va oltre Amuro Ray e Char Aznable, ma è una realtà intorno a cui potenzialmente si possono inventare e narrare infinite storie parallele a quella mostrata nella storica serie del 1979.
Mobile Suit Gundam: 8th MS Team è una di queste.
Ambientata fra le giungle e i villaggi del pianeta Terra, è la storia di Shiro Amada, assegnato come sottotenente dell'ottavo plotone del reggimento Kojima. Attorno a lui, i suoi sottoposti e compagni: l'intrepida Karen, che ha coraggio da vendere e s'intende di medicina; il gigantesco e burbero Sanders, combattente dalla brutta fama; l'estroverso e farfallone Eledore, autore di canzoni d'amore strappato alla fama per essere gettato in guerra; il giovanissimo Michel, che vive il suo amore a distanza col terrore di vedervi porre disgraziatamente fine da un giorno all'altro.
Compito di Shiro e compagni è tenere sotto controllo una delle basi terrestri di Zeon, dove si sta studiando una potentissima arma segreta. Shiro, tuttavia, non riesce a togliersi dalla testa la bellissima ragazza che il destino gli ha messo sulla strada prima di arrivare sulla Terra e di cui si è follemente innamorato. Lei, Aina Sahalin, è stupenda, affascinante, intrepida, nobile... ed è la sorella di Ginias, il comandante della base zeoniana che il battaglione Kojima deve tenere d'occhio!

8th MS Team, serie OAV del 1995, è una produzione più moderna e, seppur con diversi punti e un'ambientazione temporale in comune, ben diversa da Mobile Suit Gundam. In primis perché qui, eccezion fatta per il primo (ambientato nello spazio) e gli ultimi episodi (dove i combattimenti fra Mobile Suit si fanno più presenti), i Gundam contano davvero poco. Per il resto, saremo immersi in uno scenario esotico che ben poco ha a che fare con la fantascienza e gli immensi cieli del cosmo della serie storica. La guerra di 8th MS Team si fa sì a bordo di robot, ma sono robot prodotti in serie e di poca importanza, usati alla stregua di carri armati qualsiasi, a cui possono anche saltar via interi pezzi che verranno poi sostituiti con modelli di fortuna di diversi tipi o colori provenienti da altri mezzi, creando così dei robot decisamente meno "plastici" e belli da vedere rispetto a quelli della serie storica ma in qualche modo più reali.
Un'ambientazione molto spartana, laddove se anche non ci fossero i robot la guerra rimarrebbe ugualmente cruda e realistica, poiché più che ad un film di fantascienza qui sembra di stare in Apocalypse Now, complice anche il look militaresco e dismesso dei protagonisti (contrapposto alle impostate divise alla Guerre Stellari dei soldati di Zeon) e la presenza di un gruppo di guerriglieri terrestri "vecchio stile" che si unirà a loro diventando parte integrante del cast e contribuendo a creare un'atmosfera da guerra del Vietnam più che da Gundam.

I piloti e i militari di questa serie non hanno capacità o attitudini particolari, non sono superuomini che godono di ottima reputazione nel loro esercito, ma semplici soldati, chiamati a combattere una guerra che - giustamente - non comprendono perché decisa dalle alte sfere e non da loro. Soldati, uomini, che hanno paura, ripensamenti, provano sentimenti decisamente umani. Ognuno dei membri del plotone di Shiro ha una sua storia passata e delle sue motivazioni, una vita passata dalla quale è stato strappato trovandosi catapultato in una guerra che non è sua, costretto ad odiare quelli di Zeon che sono uomini con dei sentimenti esattamente come lui.
Di quest'ultima cosa Shiro si renderà conto, portando 8th MS Team ad un livello più alto, dal simil-film di guerra del Vietnam che sembra essere nei primi episodi.
Sarà l'amore, il sentimento purissimo e innocente che sboccerà fra Shiro e Aina, a diventare il motore della storia, dandole vigore e innalzandola nelle tematiche. È giusto uccidere degli altri uomini in nome di una guerra che ci è stata imposta e di cui non conosciamo l'origine? Si può amare qualcuno che invece ti impongono di odiare? Può l'amore superare l'odio, la vendetta, i conflitti, e trionfare sopra ogni altra cosa?
Per scoprirlo, allo spettatore non resta che partire per questo bel viaggio in un mondo che poi tanto fantascientifico non è ma che anzi è credibile e realistico quasi fosse il nostro (poiché in fondo, anche se in una realtà alternativa, lo è).

8th MS Team è un'opera anni '90, e si vede. Sprizza anni '90 da tutti i pori: dallo stile di disegno garbatissimo, che strizza l'occhio e magari anche anticipa produzioni di quegli anni come Oh, mia dea o Cowboy Bebop, al cast di personaggi che presenta qui degli archetipi ben precisi che possiamo ritrovare in moltissime altre opere coeve, da Jura Tripper a Digimon; passando per l'atmosfera tropicale mista a tecnologie futuristiche, che non può non ricordarci un certo Cadillacs & Dinosaurs o un certo Metal Slug.
Il livello tecnico dell'anime è elevatissimo. La grafica è curatissima e fa un certo effetto vedere quegli stessi robot conosciuti nello stile anni '70 della prima serie che ora si affrontano in battaglie coloratissime, fluide e spettacolari. I combattimenti sono davvero una gioia per gli occhi, fluidi e ben orchestrati come sono, e riescono a interessare e a stupire.
Molto ben curato anche il doppiaggio, che schiera alcuni dei migliori seiyuu dell'epoca, come Nobuyuki Hiyama (doppiatore che solitamente non apprezzo ma che come Shiro è stato davvero convincente), Kikuyo Inoue, Ichiro Nagai, Tessho Genda e Mami Koyama.
Menzione d'onore per la splendida colonna sonora interpretata dalla brava Chihiro Yonekura: canzoni orecchiabili, ora frizzanti, ora piacevolmente romantiche, ora capaci di sciogliere il cuore di chi le ascolta.

A onor del vero, 8th MS Team non è privo di difetti. Bisogna dire che il finale dell'opera fa un po' storcere il naso, in quanto l'undicesimo e ultimo episodio (che in realtà, complessivamente, è il dodicesimo perché dopo l'ottavo c'è un episodio "8bis", "Miller's Report", a metà fra il riassunto dei punti salienti della storia e un raccordo che spiega fatti della storia non raccontati nell'episodio 8 ma necessari a capire ciò che accade nel 9) si chiude con un finale ad effetto e molto toccante, ma un po' troppo aperto.
Per rimediare a ciò, gli autori hanno realizzato un ulteriore episodio finale, "Last resort", ambientato diverso tempo dopo la narrazione dei precedenti, che però offre risposta soltanto alla più scontata delle domande che lo spettatore si poneva, mentre per il resto non spiega cosa è accaduto agli altri personaggi e perde tempo nel raccontare una storia "filler" relativa a nuovi personaggi - piuttosto irritanti peraltro - di cui allo spettatore poco importa.

Finale a parte, 8th MS Team merita indubbiamente una visione. È una serie apparentemente più "easygoing" rispetto al suo fratellone del 1979, pur raccontando una storia ambientata nello stesso momento, ma col proseguire degli episodi si fa più interessante e avvincente, riuscendo a trattare temi molto importanti e mettendo in scena una delle storie d'amore più toccanti mai raccontate.
Il comparto tecnico di ottimo livello e l'atmosfera anni '90 che emana, oltre alla simpatia dei personaggi cui viene spontaneo affezionarsi nonostante siano in qualche modo "già visti", rendono questa serie davvero godibile. Un piacevolissimo divertissement che approfondisce sotto una nuova luce quanto visto nella serie Mobile Suit Gundam, a cui gli appassionati potranno qui divertirsi a trovare camei e citazioni, sia di personaggi (memorabile il cameo di Gihren Zabi, sempre magistralmente doppiato da Banjou Ginga, nel primo episodio) o eventi che di robot o mezzi da combattimento.
Una serie di ottimo livello, che senza dubbio merita un'occhiata, ma che, purtroppo, rimane meno nel cuore dello spettatore per via di un finale non all'altezza. Tuttavia, i suoi personaggi, le sue atmosfere e le sue musiche non si dimenticheranno così facilmente, così come il grande messaggio di speranza e di amore che vuole lanciare a chi la guarda.
Un grande inno all'amore e alla vita, anche all'interno del più insensato dei conflitti, purtroppo non perfetto ma certamente valido. Da vedere se si è apprezzata la prima serie Gundam del 1979, di cui costituisce un'interessantissima variazione sul tema.


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Dall'omonimo manga del maestro Osamu Tezuka, arriva in versione animata il suo personaggio più riuscito: Black Jack, il medico senza licenza. Il primo impatto è molto da film horror. Un telefono che squilla nel buio. Una vecchia casa su un dirupo durante un violento temporale. Un uomo su una sedia a dondolo osserva il mare in tempesta, quando i fulmini illuminano la casa, mostrando il suo viso segnato da profonde cicatrici. Così inizia un nuovo caso clinico per il dottor Black Jack. Questa è una serie piuttosto atipica. Si potrebbe definire come una specie di thriller a sfondo medico, dove il dottore deve affrontare ogni volta delle malattie sconosciute e dagli effetti a dir poco sconcertanti.

Ogni episodio si concentra su un caso differente, che vede il dottore impegnato a risolvere i casi più strani: patologie inspiegabili, malattie mortali e misteri su cui far luce. Ad ogni caso clinico è intrecciata in maniera indissolubile la storia personale del paziente e delle persone che gli stanno vicino. In quest'ottica le storie non si limitano solo alla scoperta delle cause della malattia e della cura, ma si addentrano nella vita dei personaggi, narrando il loro passato e rivelando come questo sia spesso legato alle cause delle malattie che li affliggono. Ci troviamo davanti a delle storie con una trama matura, ben strutturata che fa leva sui misteri legati alle insolite malattie dei pazienti e sulle loro storie personali.

Ma spostiamo l'attenzione sul protagonista. Black Jack, alias Hazama Kuroo, è un medico senza licenza che lavora clandestinamente in cambio di grosse somme di denaro. Sotto questo suo atteggiamento cinico però, il dottore in nero nasconde un grande animo e ogni volta tenta l'impossibile per salvare i suoi pazienti, non solo lottando contro le malattie che li divorano, ma anche contro individui senza scrupoli che fanno fortuna a scapito della salute delle persone. A fargli da assistente troviamo la piccola Pinoko, che ad un primo sguardo potrebbe sembrare una bambina di cinque anni, ma in realtà è una ragazza costretta in un corpo artificiale. Questo esoscheletro, costruito anni prima dal dottore per salvarle la vita, racchiude i suoi organi interni permettendole di sopravvivere, ma impedendole di crescere. Purtroppo l'anime non svela il loro background, che può essere approfondito solo dalla lettura dei primi volumi del manga.

Dal lato artistico si tratta di una produzione con un livello tecnico non indifferente, con bellissimi disegni e ottime animazioni. Come per enfatizzare la crudezza di alcune scene, le animazioni riproducono fedelmente le operazioni del dottore senza risparmiarsi nei dettagli. Assistiamo interventi chirurgici fuori dal comune, con pazienti in preda a terribili convulsioni, dolori atroci che vengono smorzati solo dall'anestesia, il bisturi di Black Jack che incide la pelle con una maestria senza paragoni, scoprendo muscoli, tessuti e organi interni, raffigurati con un livello di dettaglio impressionante. Una delle peculiarità di questa serie sono i numerosi fermo immagine color pastello, che riescono ad immortalare sullo schermo le scene più significative e drammatiche dell'anime, come in piccoli e splendidi capolavori.

Una nota di merito va fatta alla Yamato Video che, oltre all'ottimo doppiaggio, ci propone la traduzione degli ultimi tre episodi, realizzati alcuni anni dopo il settimo (motivo per cui sono in 16:9 rispetto ai 4:3 degli episodi precedenti) e fin'ora inediti in Italia. Osamu Dezaki, con la collaborazione artistica di Akio Sugino, è riuscito a dar vita ad un'intensa e drammatica reinterpretazione della figura di Black Jack, realizzando un anime che si contraddistingue particolarmente per la sua atmosfera cupa. Non si tratta quindi di una visione leggera, ma di un prodotto molto impegnativo, che tratta tematiche decisamente inconsuete per un anime. Ma è proprio questa sua particolarità, assieme all'ottimo comparto tecnico, a fare di questo anime un prodotto unico nel suo genere.


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Nel 1997 arriva in nel nostro paese, col titolo “Spicchi di cielo tra baffi di fumo”, l’ultimo grande Meisaku classico, come non ce ne saranno più : “Romeo no ai sora”. È trasmesso in sordina da Mediaset, quasi scusandosi di aver importato un simile titolo; che lo stupra, lo censura, ma il messaggio, la grinta, la vitalità che questo anime ispira trapelano nonostante tutto, sciogliendo il cuore di molti telespettatori.
Tratto dal romanzo “i fratelli neri” di Kurt Held e pubblicato nel 1941, “Romeo no ai sora” ci mostra uno spaccato vivo e crudo della compravendita di minori effettuata nel nostro paese alla fine dell’ottocento. Romeo, un ragazzino che vive sulle Alpi della Svizzera italiana, firma, per pagare il medico al padre malato, un contratto con un losco individuo, che lo condurrà attraverso i monti fino in Italia, a Milano, dove sarà venduto come aiutante di uno spazzacamino. Il viaggio di Romeo, tra soprusi e violenze inizia così, e ripercorre, nelle sue 33 puntate le avventure, e le disavventure di un piccolo grande eroe e dei suoi compagni di sventura.
Se ne sono dette tante su questo anime, ma ancor più se ne sono dette sul libro di Held da cui è tratto. È giusto quindi partire proprio da questo, per riqualificarlo un attimo. Il libro esce nel 1941, in piena seconda guerra mondiale, con la Svizzera che ammicca sia ai nazisti che agli americani, ma che comunque detesta gli Italiani. Per anni la politica del regime di Mussolini è stata quella di fomentare nella sezione italiana dello stato cantonese un sentimento di appartenenza al nostro paese. Alcuni svizzeri reagiscono fondando un parallelo partito fascista e chiedendo a gran voce l’annessione all’Italia. È chiaro che questo fatto a molti loro connazionali resti indigesto. Spesso infatti “Fratelli neri” è stato accusato di essere un romanzo dai chiari connotati anti-italiani. Niente di più falso. E’ pur vero che tutti gli antagonisti di Romeo (Giorgio Verzasca nel romanzo, impronunciabile per un giapponese) sono Italiani, ma è anche ugualmente vero che i suoi più grandi amici e sostenitori sono anch’essi italiani, partendo da Alfredo, l’inseparabile amico, fino al dottor Casela, poco accentuato nell’anime ma unico grande eroe adulto nel romanzo. Quindi queste accuse sono da sfatare una volta per tutte.
Romeo no ai sora nasce nel 1995 come titolo per il World Masterpiece Teather che ormai si sta incamminando sul triste viale del crepuscolo. Il protagonista appare subito come un ragazzino sincero, spigliato, garbato, intelligente. Insomma un esempio di rettitudine e onestà. Se è pur vero che agli occhi di un adulto tanto buonismo e giudizio concentrati in un bambino paiono un po’ ridicoli, è importante ricordare che i Meisaku sono prodotti destinati all’infanzia, con il preciso ruolo di educare. Romeo è un personaggio positivo, che, come molti suoi predecessori nel WMT riesce a vedere la speranza anche nei momenti più cupi e disperati delle sue avventure. Si, perché questo anime di crudezza e realismo ne è permeato. Sia chiaro, un realismo destinato ai bambini. Niente sangue, niente parolacce (nell’originale), ma pur sempre piuttosto ruvido, che scorre come la carta vetro e può far male alle pelli più delicate. Romeo è infatti il centro di un vasto universo di personaggi che si intrecciano tra loro nello svolgimento della trama. Partendo dalle ragazzine che conquisteranno il suo cuore : Angeletta prima, Bianca poi, fino all’inseparabile Alfredo, un ragazzino maturo, che porta sulle spalle un pesante fardello dovuto a un tragico passato. Anche gli antagonisti sono ben caratterizzati. Primo fra tutti Anselmo, figlio del padrone di Romeo e geloso del ragazzino.
L’anime resta abbastanza fedele al romanzo originale, salvo alcune discrepanze piuttosto evidenti, create per fini differenti. Prima di tutto il ruolo dei due adulti principali della storia è cambiato. Marcello Rossi, il padrone di Romeo è con lui sempre spietato crudele nel romanzo, mentre nell’anime finisce per considerarlo quasi un figlio. Il dottor Casela si prodiga per aiutare Romeo e i suoi compagni in tutto e per tutto, fino a favorirne la fuga. Questa parte nell’anime non esiste. Ma la scelta scenografica che più colpisce e si discosta dall’anime è la creazione ex novo del personaggio di Nikita. Nikita infatti (Andrea in Italia) è stato creato per uno fine molto sentito dagli sceneggiatori nipponici : quello di coinvolgere il pubblico femminile. In una realtà prettamente maschile come quella del romanzo, dove le donne (Angeletta e Bianca) sono destinate solo ad essere “salvate”, serviva una figura forte, un po’ tsundere, con la quale far immedesimare anche le bambine più vivaci. Nikita si spaccerà infatti per un maschio per buona parte della storia, lasciando però trasparire spesso i suoi sentimenti per Alfredo. Questa ambiguità ha causato in Italia una cascata di tagli e censure. L’episodio 17 (Imboscata a San Babila) è stato completamente censurato, non per la violenza dei contenuti, come Mediaset ha sostenuto, ma per il fatto che proprio in quella puntata Alfredo, davanti a tutti, smaschera Andrea, rendendo di pubblico dominio la sua identità sessuale. In un paese puro e immacolato come il nostro questo oltraggio all’eterosessualità doveva essere punito! In seguito tutti i discorsi italiani vengono storpiati per non dar da capire che Andrea è in effetti una femmina. Come se lo saranno spiegate allora i nostri piccoli telespettatori, gesti come il dono di un fiore da Alfredo ad Andrea che lei mette tra i capelli? Questa parte non è censurata e se Andrea fosse un maschio, come il censore si è sforzato di darci a bere, apparirebbe ancora più ambiguo. Grande merito va attribuito al Margaria per aver reintrodotto la puntata nel palinsesto, anche se in fascia non protetta (all’alba, quando anche i polli dormono) e parzialmente censurata (2 scene di scazzottate).
Il disegno è di quelli puliti, limpidi, che ancora ricordano lo stile dei Meisaku d’altri tempi. Il colore è distribuito in modo uniforme, senza sfumature ma la grafica è notevolmente migliore rispetto alle produzioni passate.
Un prodotto quindi destinato a rimanere nel cuore, con una storia semplice ed efficace, in grado di commuovere e far riflettere. “Romeo no ai sora” è destinato a restare l’ultima grande luce dell’universo WMT prima del grande crollo del'97. Dieci, meritato.


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Prendere un'opera mainstream e ricavarne fuori qualcosa di completamente diverso e inaspettato: Mamoru Oshii non è nuovo a questo giochetto. Ci aveva già provato con Lamù - Beautiful Dreamer, un film che prende una delle serie più demenziali di sempre e la trasforma in un cervellotico viaggio onirico, con buona pace della sua autrice Rumiko Takahashi e dei suoi fan, i quali non hanno mai amato quella fin troppo libera interpretazione del manga.
Lo stesso è accaduto con questo film di Patlabor. Con Patlabor 2 infatti Oshii prende uno dei brand più famosi degli anime e lo rivolta come un calzino, consegnandoci però questa volta non un'opera controversa, ma il suo primo autentico capolavoro.

La storia del film parte dalla vicenda di Yukihito Tsuge, ex poliziotto pilota di labor (i robot che nell'ipotetico futuro di Patlabor affiancano gli uomini in ogni tipo di attività, lecite e illecite), impegnato nelle forze di pace per conto dell'ONU in un non specificato teatro di guerra nel Sud Est asiatico. Abbandonato al suo destino durante un'imboscata della guerriglia, si dà alla macchia e decide di vendicarsi. Ordisce un gigantesco complotto che porterà esercito e polizia giapponesi sull'orlo dello scontro armato, deciso a mettere la società giapponese di fronte alla realtà della guerra civile. A sbrogliare la matassa ci penseranno gli uomini della squadra Patlabor.
Perché dico che in questo film l'intera serie di Patlabor è stata rivoltata come un calzino? Perché per sostenere una trama di questo spessore non si poteva certo mantenere l'atmosfera scanzonata e giocosa che avevano la serie tv o gli OAV. Con questo film infatti Mamoru Oshii esprime per la prima volta tutti i canoni estetici e narrativi che da qui in poi saranno presenti in tutte le sue opere: lunghi silenzi, dialoghi complessi, tempi dilatati, trame difficili e cariche di denuncia politica che fanno da sfondo a una dettagliatissima introspezione dei personaggi.

Quindi niente siparietti comici, niente faccette caricaturali, niente scene di azione forsennata: addirittura il cast si trova stravolto in questo film. I tanti membri della celebre sezione robotizzata praticamente non si vedono e i protagonisti storici, come Noa Izumi o Asuma Shinoara, vengono relegati a piccole apparizioni. Tutta l'attenzione è concentrata sui due capitani, Goto e Shinobu. Quest'ultima, che è sempre stato un personaggio quasi secondario, in Patlabor 2 è praticamente la protagonista assoluta. Oshii infatti la rende l'archetipo di tutti i successivi protagonisti dei suoi film: seria, taciturna e tormentata. Tutto questo perché la poliziotta è legata non solo professionalmente, ma anche personalmente a questo caso, e nella sua lotta contro il tempo per evitare la catastrofe dovrà mettere a dura prova ciò che amava e ciò in cui credeva. Il film infatti è una dichiarata denuncia contro la finta pace di paesi sviluppati come il Giappone, che basano il loro benessere sullo sfruttamento bieco di tante altre nazioni le cui contraddizioni diventano così forti da sfociare in guerre fratricide. Guerre che impazzano nell'indifferenza e nell'incapacità degli organi internazionali. Essendo un film del 1993 è chiaro il riferimento agli eventi del periodo: chi non ricorda i caschi blu dell'ONU inermi a Sarajevo? Anzi, certi eventi arriva addirittura a prevederli: la vicenda di Yukihito Tsuge non ricorda quella dei caschi blu in Rwanda nel 1994?

Dal punto di vista tecnico Patlabor 2 è strabiliante: anche se ormai ha quasi venti anni sul groppone, è ancora un immenso piacere per gli occhi vedere la qualità immensa delle animazioni, la cura maniacale dei dettagli di sfondo e il character design iperrealistico. Senza contare poi la bellezza delle musiche. Mamoru Oshii ha sempre detto che metà del successo dei suoi film è dovuto alle colonne sonore del suo compositore di fiducia, Kenji Kawaii. D'altronde in film così introspettivi e serrati l'atmosfera è tutto. La musica di sottofondo fa quasi le veci dei dialoghi, e in questo Patlabor 2 è quasi il caso di scuola.
Insomma, Patlabor 2 è un film praticamente perfetto che ha dato finalmente la giusta ribalta a Oshii prima della consacrazione definitiva avvenuta con Ghost in the Shell, personalmente l'unico anime che trovo migliore di questo nella filmografia del regista giapponese.
Da vedere, da consigliare, da amare: bellissimo.


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TRAMA
Tokyo, quartiere di Shybuya. Una ragazzina si getta da un grattacielo, schiantandosi al suolo. Pochi giorni dopo, alle sue dodicenni compagne di scuola iniziano ad arrivare strane e-mails, nelle quali la suicida dice "mi sono voluta liberare del mio corpo, perchè qui c'è Dio". Questo messaggio sconvolge Lain, ragazzina timida ed introversa, che rispolvera il suo vecchio computer per connettersi al "Wired" (una sorta di sintesi tra Internet e la realtà virtuale). Sarà l'inizio di un viaggio onirico ed allucinato, sino alle sconvolgenti rivelazioni finali.

TECNICA NARRATIVA
La tecnica narrativa di Lain è evidentemente consapevole della lezione di Takeshi Kitano: primi piani ravvicinatissimi, controluce evidenti, ellissi e sovrapposizioni narrative. Il design dei caratteri è un singolare misto tra figure superdeformate (quelle, per intenderci, dei classici cartoni giapponesi con occhi enormi) e realismo. Lain, in particolare, è disegnata con grandi occhi nocciola, che vengono spessissimo inquadrati in primo piano, sino a far notare i restringimenti della pupilla.
Discorso a parte merita il design sonoro, stratificato ed ispirato a Lynch: suggestivo ed agghiacciante il continuo rumore di fondo delle linee elettriche, martellante la musica techno nelle scene ambientate in discoteca, sublime nella sua bellezza la sigla iniziale (per chi la volesse sentire in MP3 via Internet, basta fare una ricerca: si intitola "Duvet" ed è eseguito dal gruppo dei BoA).

INTERPRETAZIONE
Interpretare un'opera complessa come Lain è compito certamente arduo. Come spesso accade nel cinema d'animazione giapponese, non si tratta certo di un'opera destinata ad un pubblico di bambini, ricca com'è di continue citazioni letterarie e richiami filosofici.
A me è sembrato che la chiave di lettura sia quella di individuare nell'opera una struttura misteriosofica, a strati sovrapposti di conoscenza via via approfondita; il che sembrerebbe legittimato dal richiamo, nella trama, ai Cavalieri Templari, ed al fatto che i 13 capitoli in cui è divisa l'opera si chiamino "layers" (strati).
1° strato: tecnologico
Nei primi capitoli dell'opera, vi è un evidente richiamo alla tecnologia, intesa come evoluzione di quella attuale. Il Wired, che fa da sottofondo al viaggio di Lain, è un evidente perfezionamento di Internet; i vocaboli tecnici, in gran parte presi dalla terminologia Apple, sono continuamente citati. Questo è il livello più basso di conoscenza, quello per i non iniziati. Sotto questo profilo, il fatto che certa critica abbia detto che Lain è un cartone cyberpunk è certamente corretto, ma altrettanto limitativo.
2° strato: sociologico
Via via che la trama si approfondisce, diviene evidente il significato sociologico dell'opera: il Wired è un modo per rafforzare e nel contempo sfruttare i legami tra gli individui, tanto più significativo in quanto inserito in una società, come quella giapponese, nella quale le convenzioni sociali giocano un ruolo fondamentale. Anche vedere in Lain un'opera meramente politica, di critica allo stile di vita nipponico, è tuttavia riduttivo.
3° strato: psicologico
Nella seconda metà di Lain, diviene chiaro ed evidente il superamento di una chiave di lettura meramente collettivistico-sociologica, mentre si approfondisce quella psicologica: il Wired sfrutta e sublima l'inconscio collettivo, creando cosi una sorta di risonanza tra le coscienze, volta a fare della terra una sorta di unica entità vivente (evidente il richiamo alle teorie di Bergson e prima ancora di Giordano Bruno). La tecnologia diviene a questo punto inutile: scopo del Wired è proprio quello di superare la necessità di un'interfaccia hardware, facendo in modo che il singolo individuo possa accedervi con un semplice atto di volizione del pensiero. Gli umani dovrebbero dunque essere permanentemente connessi alla rete, e tramite essa a tutti gli altri individui.
La chiave psicologica è resa in maniera mirabile dalle sequenze in cui si sottolinea la progressiva moltiplicazione delle personalità di Lain, e dai frequenti richiami ai racconti di Lewis Carroll (Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio).
4° strato: cristologico
Lo strato di lettura meno evidente, ma in definitiva più significativo, si coglie negli ultimi tre capitoli.
Sin dall'inizio, sono frequenti i richiami a Dio; ma solo alla fine viene svelato chi sia questo Dio, e quale ruolo giochi Lain nella creazione divina. A questo punto, gli autori non danno risposte chiare, ma lasciano il tutto all'immaginazione dello spettatore, che raggiunge così, singolarmente, l'ultimo livello di iniziazione misteriosofica. Senza voler rivelare troppo, mi sembrano evidenti i richiami alla tradizione religiosa occidentale, con citazioni, neppure troppo velate, delle prove ontologiche di Sant'Anselmo e San Tommaso sull'esistenza di Dio.
Il finale è bellissimo e struggente, degna conclusione di un'opera che, purtroppo, la gran parte degli spettatori di casa nostra non conoscerà mai.


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Immaginate di essere sperduti nello spazio, soltanto con qualche centinaio dei vostri simili. Dovete costruire una società partendo da zero, dacché, senza alcun controllo, immancabilmente il caos prende piede, sia nella vostra mente che nelle vostre interazioni con chi vi sta intorno. Individui differenti l'uno dall'altro, ognuno con i suoi lati oscuri nascosti da una maschera la quale, nei momenti più stressanti e densi di difficoltà, mostra alcuni segni di cedimento: e mentre sta per staccarsi, tra un sorriso falso e uno sguardo truce appena abbozzati, iniziano a subentrare gli istinti, le pulsioni aggressive, la ferocia, l'invidia, il fanatismo, l'incomprensione, il tormento interiore. Perché è inutile negarlo, la vera natura umana, quando si viene messi alle strette, si contorce all'interno delle proprie viscere con fare inquietante; e se ci si sforza di sopprimerla, essa diventa ancora più inarrestabile; non c'è alcuna via di scampo, quando non esiste alcun freno inibitore in grado di controllarla. E dopodiché, in modo molto simile ad un acuto e folle grido di terrore, essa fuoriesce; il male penetra nei rapporti interpersonali, nella società, nelle dinamiche che prima erano tenute sotto controllo da quell'indispensabile patto stipulato dall'uomo con le sue istituzioni, quegli organi sovrumani - ma allo stesso tempo fallaci, in quanto composti comunque da uomini - a cui un essere debole e inetto ha affidato il compito di proteggerlo da sé stesso.

Non era raro nella seconda metà degli anni novanta imbattersi in anime complessi, dal grande valore artistico e dai risvolti alquanto profondi. Non è di certo un'eccezione il qui presente "Infinite Ryvius", tra l'altro uscito lo stesso anno di un altro caposaldo - altrettanto cupo e impegnato - degli anni novanta, lo scoinvolgente "Now and Then, Here and There" di Akitaro Daichi. In entrambe le opere - estremamente differenti tra loro - si percepiscono suggestioni tetre, opprimenti, ma allo stesso tempo armoniose nelle loro forme e contenuti. Contenuti che, in prima approssimazione, strizzano l'occhio al pensiero umanistico di Thomas Hobbes; per farla breve: Homo homini lupus.

Ma la mano di un emergente Goro Taniguchi ben si riguarda dal somministrare immediatamente allo spettatore un delirio di genuina follia coadiuvato da un viscido ed irrefrenabile teenage angst novantino. In principio, le vicende dei ragazzi sperduti in mezzo allo spazio a bordo di una misteriosa astronave trovata per caso saranno abbastanza banali e ordinarie: esattamente come accade nella principale fonte d'ispirazione dell'opera, "Il Signore delle Mosche" di Golding, la vita "nell'isola deserta" costituita dalla monolitica Ryvius scorre fluida e senza troppi intoppi; la degenerazione avviene lentamente, a piccole dosi. Seguendo concettualmente il suddetto capolavoro letterario, con grande maestria, il regista presenta una moltitudine di personaggi alquanto eterogenea, apparentemente solare e ordinaria; e poi, lentamente, con un accurato dosaggio dei tempi, man mano che il naufragar nello spazio senza la protezione di una società civile diventa sempre più snervante e angoscioso, s'incominciano a intravedere i primi barlumi di follia: delle tessere nel coloratissimo mosaico non s'incastrano più a dovere; e il caos, l'inettitudine e la paura prendono lentamente piede, sino ad esplodere nelle ultime sei puntate della serie.

Indubbiamente, questo "Infinite Ryvius", nonostante si faccia carico di raccapriccianti sviluppi psicologici, è anche un ottimo anime di fantascienza; ed è dotato una vera e propria trama che fa da filo conduttore alle vicende, perfettamente attinente ai vari topoi del genere. La storia avviene in un futuro in cui l'umanità sta addestrando in una stazione spaziale, il "Liebe Delta", i futuri colonizzatori dello spazio; colonizzatori i quali, ovviamente, saranno l'ultima speranza del genere umano minacciato dall'apocalisse (in questo caso un mare di plasma eruttato dal sole chiamato "Geduld"). Il giovane equipaggio del Ryvius - astronave rimasta nascosta nel "Liebe Delta" per motivi sconosciuti - in seguito ad un incidente nella stazione spaziale, si ritroverà quindi invischiato in una duplice morsa: dall'esterno sarà attaccato da ignote astronavi simili alla propria e inviate da misteriosi individui che tramano nell'ombra; e dall'interno dovrà fronteggiare la difficoltà di costruire dal nulla un sistema sociale in grado di tenere sotto controllo il lato oscuro dei membri dell'equipaggio. Si passerà da un'iniziale monarchia "illuminata" ad un'ambigua democrazia dilaniata dagli squilibri sociali, sino allo scoppio di una vera e propria dittatura di stampo pseudofascista, con tanto di squadre punitive, violenza, discriminazione, terrore psicologico. L'analisi di Taniguchi non è affatto semplicistica e si sofferma su determinati temi alquanto spinosi con innata naturalezza, dando adito a sottili, imparziali riflessioni prive di pregiudizi e stridenti moralismi (almeno sino al venticinquesimo episodio, ma di questo parlerò più avanti). Volendo fare un esempio calzante, la suddetta deriva violenta e assolutistica presa dall'autogoverno dei ragazzi del Ryvius non è indotta da un odioso superindividuo ambizioso e in grado di piegare autonomamente le masse al suo volere, ma è una misura disperata, "necessaria" a contenere le feroci pulsioni dei membri della microsocietà creatasi, nella quale non mancano fanatici religiosi che uccidono in nome di Dio, maniaci, psicolabili, picchiatori, inetti che scaricano le loro responsabilità sugli altri. Tutte tipologie di persone coinvolte in dinamiche sociali che tutt'oggi, nel mondo reale, confermano l'attualità e l'acume del capolavoro di Goro Taniguchi.

Una grande opera spesso lancia i suoi moniti attraverso molteplici linee differenti che si amalgamano tra loro a regola d'arte; in questo caso, a due linee - una prettamente fantascientifica e l'altra legata alla filosofia politica e alla natura umana - se ne sovrappone un'altra, quella caratterizzata dal microcosmo composto dalle curate psicologie dei personaggi principali della serie, dalle loro interazioni e dai loro trascorsi personali. La storia di "Infinite Ryvius" è anche quella di Kouji - il classico ragazzo giapponese chiuso in sé stesso, apatico e incapace di imporsi sugli altri a causa della sua debolezza e vigliaccheria - e di Yuki, il suo talentuoso fratello di minore, il quale lo odia a causa della sua inettitudine e che intende sottrarlo dalle attenzioni dell'amica d'infanzia Aoi, la classica "ragazza della porta accanto" che fa da ammortizzatore ad un violento rapporto fraterno. Attorno a questo instabile triangolo ruotano molte altre personalità ben delineate: la conturbante e impenetrabile Faina, classica "brava ragazza" di bell'aspetto amichevole e intelligente (almeno nell'apparenza); il carismatico teppista delle strade Ais Blue, capo di un gruppo di violenti punk disadattati e asociali; Juli Hana, il leader della squadra composta dagli studenti più brillanti del Liebe Delta, la quale tuttavia non possiede il carisma "primordiale" di cui necessita un vero leader. All'appello non mancano inoltre individui con vari tipi di complessi psicologici - si parla di incesto e di complesso di Edipo, ovviamente, come Freud insegna; freddi razionalisti i quali nel momento in cui avvengono fenomeni inspiegabili dalla logica si agitano e tremano dal terrore, perdendo istantaneamente il loro tanto millantato rigore; macchiette il cui scopo è alleggerire l'atmosfera tesa e cupa della serie, nonché misteriose entità sovrumane che si aggirano nei meandri più oscuri dell'astronave, facendo da "catalizzatore" delle umane emozioni con fare allucinato - la bizzarra Neya, la quale, col suo look stravagante e la sua espressione innocente, donerà allo spettatore splendidi monologhi inerenti la bellezza della vita in sé stessa, rivelandosi molto più assennata degli esseri umani. La particolarissima crescita interiore di Neya è alquanto commovente, e fornisce alla serie un'ulteriore, raffinato risvolto che apre la strada a nuove riflessioni.

Come molti dei suoi illustri colleghi novantini, "Infinite Ryvius" è altresì una storia di perdita dell'innocenza e di passaggio dall'adolescenza all'età adulta; questo cambiamento lo si percepisce sopratutto nella graduale maturazione di Kouji, percorso curato nei minimi dettagli e infarcito di riflessioni inerenti il peso del passato nella formazione della propria identità personale. La psicologia di Faina rappresenta il completo rigetto del proprio vissuto; interagendo con la suddetta, Kouji inizierà a meditare sull'accettazione dei propri dolorosi trascorsi, giungendo ad una conclusione che determinerà la sua simbolica maturazione. In un certo senso, la fuga dal passato di Faina è una sorta di escapismo, un continuo fuggire da sé stessi e dai propri simili; una cosa alquanto distruttiva e destabilizzante, che ovviamente verrà coadiuvata da turbe psicologiche e impulsi distruttivi.

Per quanto concerne il design e le animazioni, l'opera rientra perfettamente nei canoni della sua epoca; si osserva inoltre un certo virtuosismo registico - sfoggiato da Taniguchi sin dall'ottima sigla iniziale - che gestisce con molta disinvoltura una vasta moltitudine di personaggi e contenuti. Musicalmente, un concentrato di rap, hip-hop, rock, brani corali - la splendida "Yume Wo Sugitemo", fascinosa ed elegante canzone utilizzata nell'epica sigla di chiusura - fornisce un ottimo contrappunto all'espressività del regista. Il difetto principale della serie - tolta qualche imperfezione che non danneggia eccessivamente la resa del prodotto finale - è il suo ventiseiesimo episodio, un epilogo buonista, inutile, che di fatto rinnega completamente il finale del capolavoro di Golding, con il quale il vero finale della serie - mi riferisco a quello della venticinquesima puntata - ha molto in comune, dalle modalità di svolgimento al truce messaggio filosofico finale. Ergo, per chi scrive, "Infinite Ryvius" è una serie di venticinque episodi. Anzi, una grande serie di venticinque episodi.


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Verso il finire degli anni '90, in particolare tra il '95 e il '97, si è assistito a un fiorire di opere dalla grandissima caratura e dal valore artistico che ancora ad oggi non penso siano stati eguagliati in splendore. Immagino che ricordiate anche voi il ben noto "Neon Genesis Evangelion", considerato tra gli anime più innovativi e sperimentali della sua epoca, o anche "Ghost in the Shell" di Mamoru Oshii, che ha portato l'animazione a vette di incredibile lirismo visivo con il suo complesso e metafisico simbolismo. Ebbene, tra le varie opere magne di questo periodo va collocata, a pieno e meritato titolo, anche "La rivoluzione di Utena".

Difficile esprimere un giudizio su un'opera tanto complessa: si tratta di una serie che non ho certo la presunzione di aver compreso nella sua totalità, merita anzi di essere attentamente meditata e rivista con attenzione più di una volta. Fare altrimenti significherebbe ignorare deliberatamente l'incredibile portata allegorico-simbolica che costituisce "l'esprit", la "raison d'etre" della serie stessa, essendo Utena portatrice di temi che si connotano per una complessità e profondità notevoli. Questi devono per forza di cose essere desunti attraverso l'indagine ermeneutica dello spettatore; ovverosia non vi è altro possibile approccio a Utena se non l'interpretazione e la rielaborazione soggettiva. Non saranno certo la trama o l'evolversi delle vicende a reggere il lume chiarificatore nel mezzo dell'oscurità, anzi, più si procede più si farà forte la connotazione meramente simbolica del tutto fino alla completa astrazione da qualsivoglia punto di riferimento.
Qui sta la difficoltà nell'apprezzare tale titolo, il cui target si restringe inevitabilmente solo ai pochi che avranno l'ardire di mettere da parte lo scetticismo che il regime profondamente ermetico e bizzarro della serie potrebbe suscitare, e di avere il coraggio di vedere oltre il loro naso.

Ciò premesso, veniamo al dunque: cos'è Utena? Non penso sia possibile rispondere in modo univoco a questa domanda, ma ritengo che non si commetta peccato nel classificarla come una bellissima fiaba. Una fiaba dotata di una sensibilità decisamente post-moderna, in cui gli archetipi propri del genere vengono rivisitati e stravolti, capovolti e ribaltati, estraniati dal loro significato primigenio e riadattati per essere usati come potenti medium comunicativi. Il principe, la principessa, la strega, la rosa, la spada, il castello: sono tutti simboli, più o meno chiari, più o meno legati fra di loro, ad essi si aggiungono altri simboli archetipici, quali la macchina, la torre, l'ascensore, andando a comporre un intricato insieme di allegorie estremamente raffinato e complesso.

Le tematiche toccate nel corso dei trentanove episodi sono innumerevoli e si incentrano soprattutto attorno alla sfera sessuale e sentimentale, oltre che a quella gnoseologica. Pacifici gli elementi che accennano altresì alla virilità dell'uomo, come ad esempio la torre o la macchina, o anche al cuore e i sentimenti, spesso simboleggiati con la rosa. Si noti infatti che le scene e le frasi con le rose stanno sempre a indicare i momenti di forte tensione emotiva o batticuore dei personaggi, e non a caso i duellisti indossano le rose appuntate al petto in corrispondenza del loro cuore, la cui distruzione porta alla sconfitta. La spada invece assume più il significato di volontà, di spirito, essa è lo strumento con cui si combattono i duelli e si difendono il proprio orgoglio e desideri. Il tutto è condito con diversi siparietti o scene del tutto assurdi o molto simbolici, come ad esempio il teatrino delle ombre, le scene del consiglio studentesco o le puntate riguardo Nanami. Difficile ma non impossibile riconoscerne il valore allegorico e artistico, sebbene spesso risultino del tutto incomprensibili o autoreferenziali. In effetti, alle volte, il simbolismo di Utena sfocia nel nonsense più puro fino a prendersi apparentemente in giro da solo. Non fatico ad ammettere che molto probabilmente l'eccesso di questi elementi sia in molti casi fine a se stesso, anche se, avendo a che fare con il genio di Ikuhara, non si avrà mai la certezza di cosa abbia un senso e cosa invece no, come del resto vi sarà sempre il dubbio se l'intera serie sia un guscio vuoto o uno dei migliori anime mai creati. Io propendo per la seconda ipotesi. D'altronde l'autore stesso non ha mai lasciato dichiarazioni volte allo spiegare la sua opera, e alle domande ha sempre risposto con provocazioni venate di intelligente follia. Il fascino di Utena risiede proprio in questo suo ermetismo, funziona come uno specchio in cui ognuno si riflette in modo differente.

La cosa più interessante da considerare, tuttavia, è l'insieme di personaggi che danno vita alla serie. Essi sono definiti con sconvolgente profondità e ciascuno corrisponde, in ultima analisi, a un archetipo: ognuno si muove mirando a un proprio ideale, che alla fine è il medesimo per tutti, ma che ognuno percepisce in modo diverso, il "potere dei miracoli", il "potere di rivoluzionare il mondo", "L'eternità". Ognuno guarda alla propria esistenza e, trovandola miserabile, necessita di aspirare a qualcosa di elevato, l'ideale degli ideali, il principe, il castello, la felicità eterna. Ma la realtà è che non è mai esistito alcun principe, alcun castello, alcun ideale, essi sono pure illusioni che esistono soltanto all'interno della nostra mente e di cui ci autoconvinciamo. La realtà è un luogo desolato e privo di scopo, il sepolcro di ogni sogno e di ogni ideale, così come il mondo che ci costruiamo attorno è il sepolcro di noi stessi. L'amore, l'amicizia, ogni valore in cui crediamo sono solo valori in cui in realtà abbiamo bisogno di credere, poiché non possiamo accettare impotenti un'esistenza priva di scopo e colma di dolore.

Concetto che d'altronde traspare dalle parole stesse di Akio: "A marvelous planitarium, don't you think? With it, I can project fairytale illusions onto the walls and show the innocent their dreams. A shadow play for those who desperately wish for something eternal, for the power of miracles... but no place exists above this room."

La visione lascia così l'amaro in bocca: rivoluzionare il proprio mondo significa diventare consapevoli dello scarto che si presenta tra ideale e reale, accorgersi della caducità di ogni attribuzione di valore. Una consapevolezza che ci potrebbe distruggere e alla quale possiamo resistere solo con la nostra volontà, poiché non potremo più rinchiuderci in quel mondo dove siamo al sicuro, in cui noi siamo principi o principesse, "il mondo delle fiabe", che nello scontrarsi con la realtà si è costretti ad abbandonare per sempre.