Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

-

Hiroya Oku è un po' un autore a parte, che faccia shonen o seinen, c'è chi lo ama e chi lo odia.
Dopo il quasi-hentai "Hen", il celebre "Gantz" che l'ha consacrato in tutto il mondo, e il seinen "La Mia Maetel" che ha lasciato molti un po' confusi, Oku torna con un nuovo seinen, pieno di tutti gli elementi bizzarri che caratterizzano le opere di questo autore unico.

Il protagonista è Inuyashiki, un uomo di mezza età dall'aspetto di un vecchietto a causa dello stress, sottomesso da una famiglia disattenta a lui e che lo tratta come uno schiavo. Nonostante Inuyashiki sia un uomo sensibile e di buon cuore, la moglie e i figli lo trattano come un rifiuto.
Inuyashiki scopre di essere gravemente malato e di avere ancora poco tempo per vivere, e decide di andarsene di casa assieme al suo cane- l'unico a provare affetto per lui, per fuggire dalla sua famiglia insensibile e venale. All'improvviso però il protagonista rimane vittima di un misterioso "incidente alieno", cioè per sbaglio degli alieni finiscono con l'uccidere lui e un altro ragazzo che gli si trovava accanto, e decidono di riassemblarli con lo stesso aspetto esterno ma con all'interno dei macchinari misteriosi, che di fatto li rendono pressoché onnipotenti.
Inuyashiki realizza ben presto i suoi nuovi poteri, e inizia a usarli per scopi benefici, come salvare un barbone durante una rissa e addirittura guarire gli ammalati.
Invece Hiro, il ragazzo che ha ricevuto gli stessi poteri di Inuyashiki, sembra avere tutt'altra idea di che uso fare del suo potere, e inizia a far scorrere un fiume di sangue.

Avendo letto soltanto i primi due volumi, è difficile sapere dove Oku voglia andare a parare, visto che è suo tipico sconvolgere la storia anche all'ultimo volume, ma finora "Inuyashiki" si è confermato un ottimo seinen.
I personaggi sono interessanti, e nascondono tutti una feroce critica alla società giapponese e ad alcuni dei suoi aspetti: la figlia superficiale che pensa solo e soltanto agli oggetti, il ragazzo che non riesce più ad andare a scuola a causa del bullismo e così via. Inuyashiki è il più particolare di tutti, nonostante venga presentato apparentemente come una macchietta vittima della sua stessa famiglia, si scrolla subito questo stereotipo di dosso, dimostrando di essere un uomo dalla fortissima virtù morale.
Nonostante il taglio di vita quotidiana del manga, le vignette sempre uguali, le scene di tensione fanno rabbrividire, e quelle in cui Inuyashiki è sinceramente felice di poter aiutare gli altri, fanno commuovere perché emerge l'estrema bontà e altruismo del protagonista.
Hiro di contro è un personaggio misterioso e inquietante, il cui carattere emerge vignetta dopo vignetta.

Dal punto di vista tecnico, come al solito Oku unisce 3D a 2D, con una retinatura calda e abbondante, mai fastidiosa, che da al tutto un effetto "fotoromanzo" molto gradevole.
Oku come al solito è un genio della regia, sempre in grado di stupire e tenere il lettore sulle spine.

Ad arricchire il tutto ci sono una serie di riferimenti alle opere precedenti dell'autore e al mondo dei manga in generale molto divertenti. I suoi personaggi stessi definiscono "Gantz" come un manga da quattro soldi, stroncato dalla critica, mentre nella casa accanto di Inuyashiki abita un personaggio che fa il verso a Oda, che invece è un "vero mangaka di successo".
Tutti elementi che contribuiscono a rendere il manga più ricco.

L'edizione italiana della Planet Manga è buona, semplice, senza sovraccoperta, a un prezzo contenuto.


-

Mi sembra opportuno scrivere un paio di considerazioni su un anime di indubbia qualità, il quale purtroppo, a giudicare anche dalle visualizzazioni su Vvvvid, è sconosciuto ai più, forse noto per nome, ma in ogni caso ignorato. Si tratta di “Showa Genroku Rakugo Shinju”, venticinque episodi in totale distribuiti in due stagioni, la prima del 2016, la seconda di quest’anno. L’argomento centrale dell’anime è il rakugo, per l’appunto, una forma di teatro giapponese che, a dir la verità, prima ignoravo completamente. E’ intorno a questa peculiare forma d’arte che si dislocano le vicende dei protagonisti. Nella prima stagione, in realtà, dopo l’unico episodio introduttivo di circa cinquanta minuti - quelli successivi hanno la canonica durata di ventiquattro -, la narrazione si baserà su un lungo flashback, incentrato sulle vicende di due giovani apprendisti cantastorie (questo significa praticare rakugo). L’intensa analessi permette di osservare la loro crescita, lo sviluppo di un sodalizio autentico, all’interno del quale non mancherà la rivalità, talvolta il conflitto, perfino lo scontro. Si assiste così alla trasformazione dei due ragazzi in uomini e, mentre anche l’amore si affaccia nelle loro vite, il filo invisibile del rakugo si rafforza di episodio in episodio; diviene la linfa vitale della narrazione, ma anche l’elemento trainante per lo sviluppo introspettivo dei personaggi. La prima stagione sa dispensare anche alcuni eclatanti colpi di scena, concentrati soprattutto nella parte finale. La seconda ci riporterà al presente, o comunque in un’epoca molto più vicina alla nostra, giacché il primo arco narrativo si colloca prima e in contemporanea alla Seconda Guerra Mondiale.

Dopo la vaga introduzione sulle coordinate generali dell’anime, è doveroso focalizzarsi sui temi e sui pregi principali di questo egregio lavoro. Innanzitutto, cosa è esattamente questo rakugo? Si tratta di una forma d’arte storica giapponese, credo originaria del ‘600 circa, la quale consiste in un monologo di un cantastorie di fronte a un pubblico. La recitazione avviene sostanzialmente in teatri, è introdotta dalla musica e si basa sulle capacità dell’attore di intrattenere gli ascoltatori, simulando contemporaneamente più ruoli, assumendo più registri linguistici e fingendo di fare le più disparate azioni con pochi oggetti a disposizione. Tra questi, è immancabile un ventaglio. Certamente si tratta di un genere estremamente esotico per noi Occidentali e si deve pure ammettere che il punto forte dell’anime non stia nel rakugo in sé. Le storie, soprattutto all’inizio, potranno risultare poco divertenti e coinvolgenti ai nostri occhi, ma si sa, l’umorismo varia di popolo in popolo e molto probabilmente molti giochi di parole e vari effetti linguistici vanno perduti nella traduzione. In realtà però, andando avanti nella visione, almeno personalmente, ho cominciato a trovare le esibizioni sempre più digeribili, fino quasi ad amarle. Come anticipato, tuttavia, il rakugo non è un fine, ma un mezzo: più precisamente, è sì l’obiettivo dei protagonisti quello di raggiungere grandi livelli artistici nella pratica del genere, ma per noi spettatori esso è fondamentalmente lo strumento che permette di assistere alla loro vita, di comprenderla e compenetrarla. La vera forza di “Showa Genroku Rakugo Shinju” sta nei personaggi, nell’autenticità e nella verosimiglianza delle loro emozioni e dei loro comportamenti. Pare davvero di poter sbirciare nella vita di persone reali, diventa quasi normale immedesimarsi nei loro sogni e nei loro tormenti, nei loro successi e nei loro fallimenti.

Il tutto viene scandito da un ritmo narrativo pacato, quasi blando, ma mai noioso o stagnante: insomma davvero ponderato e intelligente. Trai temi più rilevanti spiccano il contrasto tra amore e piena autorealizzazione, le contraddizioni delle amicizie sincere, la riflessione sul concetto di arte e di stile, ma anche la solitudine, il rimorso e il rimpianto. Il rakugo, come ribadito più volte, è il motore dell’azione e delle interazioni, e viene sviscerato sia da un punto di vista sincronico che diacronico. Uno spunto di riflessione molto interessante, infatti, è anche la trasformazione delle forme artistiche nel corso del tempo, nonché lo sforzo, talora titanico, necessario da parte di alcuni per salvarlo dalla decadenza e quindi l’oblio. Il rakugo è un’arte antica, minacciata da nuove forme di intrattenimento e di comunicazione, come il cinema e la televisione; il cantastorie dunque dovrà preservarlo attraverso il rinnovamento o attraverso la sublimazione della tradizione. Queste considerazioni di estetica e gli spunti vari sui concetti di creatività, di ricerca di sé stessi attraverso il proprio stile più naturale, danno all’anime anche una coloritura molto intellettuale, ne esaltano la raffinatezza e l’eleganza. Questo è “Rakugo”, un’opera di grande delicatezza capace di suscitare tante emozioni di vario tipo, con una storia appassionante e personaggi di notevole spessore.

Il comparto tecnico è buono, le animazioni non sono trascendentali, ma il sonoro, il doppiaggio, la scelta dei colori... ho trovato tutto eccellente. Il character design credo sia poi particolarmente adatto al tipo di storia e allo stile complessivo dell’anime e i personaggi femminili sono di grande bellezza e sensualità.
Insomma, a mio avviso, una vera e propria perla animata, una piccola opera d’arte. Vi invito caldamente a guardarlo.


-

Mamoru Oshii rientra certamente nella categoria dei registi giapponesi più rinomati all’estero assieme ad Hayao Miyazaki e Katsuhiro Otomo. Personalità risoluta, vive l’adolescenza in un periodo di grande mutamento per il Paese, partecipando in prima persona alle contestazioni studentesche organizzate a causa dei rapporti con gli Stati Uniti, eventi che lo forgiano avvicinandolo agli scenari politici.
In ambito lavorativo è conosciuto per essere uno dei maestri della fantascienza impegnata, abile nell’imbastire le sue produzioni con grandi riferimenti alla cultura orientale. Non esiste una scrittura impersonale, per lui il cinema non è fonte d’evasione quanto un’opportunità per approfondire le proprie (come ama definirle) ossessioni.
L’arrivo allo Studio Pierrot in pieno “Anime Boom” (sollecitato anche dai nuovi modelli di fruizione), gli permette di partecipare a una serie come “Lamù”, che raggiunge settimanalmente il 20% di share, e che diventa fondamentale nell’interpretare un’epoca: esprime il benessere sociale derivante dall’economia. Siamo infatti ancora lontani dallo scoppio della bolla speculativa.
Perfettamente consapevole che il modo di narrare cambia a seconda del medium, la sua poetica è influenzata dall’invasione cyberpunk che avviene nella seconda metà degli anni ‘80, tuttavia questo lungometraggio getta le basi del suo stile.
Inutile dire che nei prodotti destinati alle sale cinematografiche è difficile sperimentare tecniche alternative, poiché si punta al guadagno facile per far rientrare i costi, e i registi generalmente cercano di non snaturare il franchise, ma Oshii non è il tipo che asseconda le esigenze dello spettatore medio solo per denaro, difatti la pellicola riscuote poco successo ai botteghini, anche se col tempo finisce per essere rivalutata.

Non è un caso che Rumiko Takahashi, autrice la quale ha saputo unire come poche altre un collettivo ampio e variegato, abbia detestato il lavoro di Oshii, giacché assistiamo a uno stravolgimento completo del concept della storia.
La visione dei primi minuti può ingannare, ma poi i toni divengono più seri, l’immedesimazione sale, l’analisi introspettiva si fa largo, l’immagine assume finalità metaforica e la scena nuova si oppone alla convenzione precedente, enfatizzando l’aspetto fantastico nella forma più concettuale e astratta.
Se l’efficace binomio fra sequenze dialogate e riflessive funziona, il merito è di una sceneggiatura eccellente che offre possibilità di espressione sterminate anche attraverso linguaggi diversi, fino ad arrivare al punto nel quale ogni cosa si genera e distrugge, in cui i personaggi sono impotenti dinnanzi al divenire, dove gli scenari post-apocalittici iniziano ad occupare in maniera consistente la vicenda.
Oshii espone gli elementi a lui più cari: si passa dall’esistenzialismo all’indagine metafisica, senza dimenticare l’atmosfera onirica che poi riprenderà appena dodici mesi dopo in “Tenshi no Tamago”.
Nessuna negazione della realtà oggettiva ed effettiva, ma viene a mancare uno dei principi fondamentali del cinema, quello per cui il pubblico deve sempre capire tutto, verso l’esaltazione di un fruitore diverso. La struttura, piuttosto circolare, lascia l’analessi per l’epilogo, mantenendo dunque un ritmo narrativo continuo per intero.
Nonostante la cifra non elevatissima stanziata, la regia si dimostra veramente accurata, in virtù di quell’idea secondo cui la forma prevale su tutto; al di là degli ottimi disegni, è Oshii stesso a sbizzarrirsi con le inquadrature. Talvolta, la narrazione cede il passo alla sembianza visiva, con gli sfondi che giocano un ruolo importante poiché occupano gran parte della fotografia finale.
Merita una menzione anche il comparto sonoro, che non manca di far sentire il proprio apporto nei momenti decisivi, accentuando lo stato di inquietudine dei protagonisti.

“Beautiful Dreamer” è una celebrazione dell’adolescenza, il primo manifesto artistico di un regista capace di prendere un’opera senza pretese e renderla pregna di significati. È un grandissimo prodotto proprio perché non condivide nulla con l’originale.
A distanza di oltre trent’anni, questo film dal taglio surrealista così saturo di citazioni dallo stampo storico rimane uno dei più grandi di sempre, quantomeno fra quelli tratti da serie televisive.