Dopo un anno e mezzo che sembra un attimo, finisce (per ora?) il mio soggiorno in Giappone.
Ho conosciuto questo paese più di vent’anni fa, attraverso i suoi cartoni animati, poi i suoi videogiochi, poi i suoi fumetti.
Poi è venuta l’università e mi sono perso in un vortice di ideogrammi malvagi, di letteratura autoriale ma stramba, di storie di imperatori fantocci e guerrieri valorosi, di una lingua in continuo movimento verso lidi sempre più pericolosi. Eppure, per quanto tu possa studiarlo dall’esterno, non puoi dire di riuscire pienamente a comprendere un paese, la sua lingua, la sua cultura, se non lo vivi sulla tua pelle. E del resto, è finita che dopo tanti esami, dopo quintalate di manga letti in italiano (ma mai quelli che realmente volevo leggere), dopo aver visto quintalate di anime che stan diventando sempre più lontani dagli anime che mi hanno fatto amare questo paese, il Giappone cominciava a starmi un po’ stretto, portandomi a credere che forse avevo sbagliato strada, che forse quel paese non lo amavo più poi così tanto, complice anche il fatto che in Italia manga e anime sono in declino rispetto all’attualmente maggiore successo dei comics, dei serial e persino dei cartoon americani e che quindi i miei interessi si stavano spostando verso altre cose.
E’ con questa consapevolezza un po’ da “ultima spiaggia” che ho deciso di intraprendere questa avventura, col cuore pieno di ansie e incertezze. Riuscirò ad adattarmi? Riuscirò a sopravvivere, da solo, in un paese così lontano a diverso? Riuscirò a farmi degli amici? Sarò felice? Mi piacerà davvero, il Giappone?

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Sono partito dapprima per tre mesi, che mi sembravano pure troppi e invece sono volati, regalandomi un sogno tanto fugace quanto piacevole. Sono tornato in Giappone una seconda volta, questa volta per un anno: completa il corso che avevi iniziato alla scuola, e poi sarà quel che sarà. E’ finita che quell’anno è diventato un anno e mezzo, e adesso che è finito il mio cuore è tutto scombussolato.
Quando tornai in Italia la prima volta, passai mesi a chiedermi se non avessi davvero vissuto soltanto un bel sogno. Adesso, dopo più di due anni, quel sogno è diventato decisamente concreto: il paese che tanto amavo esiste, ci ho vissuto per tanto tempo e in qualche modo nel Sol Levante c’è qualcosa di me, anche solo perché in molti potranno raccontare “Una volta ho conosciuto un Italiano che…”.

La maggior parte delle cose che si pensano del Giappone sono vere. No, non ci sono cosplay ovunque per strada, non tutti i Giapponesi sono otaku incalliti o dei maniaci, non tutte le città sono Tokyo. Eppure tutti questi elementi sono parte di quello che è il Giappone, che incanta i suoi visitatori con metropoli futuristiche e senza dubbio la presenza di anime e manga è molto forte, così come è innegabile una certa dose di stramberia, che se presa nel verso giusto può diventare assai divertente.

L’elemento che più di tutti contraddistingue il Giappone è un’insieme di innumerevoli contraddizioni. Chi ha studiato la storia del Giappone lo sa, da un certo punto in poi questa è sempre stata caratterizzata dal dualismo tra lo slancio verso l’occidente e il mantenimento della propria identità nazionale, tra la corsa alla modernità e il rispetto di tradizioni secolari. Questa cosa continua a caratterizzare il Giappone tutt’oggi, lo vedi quando cammini per strada e ti trovi ai due lati opposti di una strada il megacentro commerciale illuminato al neon e un modesto e sacrale tempietto shinto. Ma le contraddizioni del Giappone non finiscono qui: chi segue manga e anime lo sa bene, ad esempio, che i Giapponesi hanno la fama di essere molto impacciati nei rapporti con l’altro sesso e molto pudici, e però realizzano quintalate di manga erotici, e però questi hanno “quelle parti” del corpo censurate nonostante tu possa benissimo capire cosa succede nelle scene di sesso…

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C’è, tuttavia, una contraddizione che mi ha colpito più di tante altre e che, forse, è il fulcro, l’elemento più affascinante e insieme il tallone d’Achille di tutta la società giapponese.
Si sente spesso che i Giapponesi lavorano ad un ritmo e a delle condizioni infernali. E questo è verissimo.
Tra i Giapponesi che ho conosciuto in questo anno e mezzo c’è chi è in ufficio alla mezzanotte del sabato a sbrigare pratiche, chi mette tutto se stesso nel lavoro anche a scapito della propria salute ma non vede i propri sforzi riconosciuti o non guadagna in modo soddisfacente, chi non può vedersi con persone estranee ai colleghi per paura di scatenare pettegolezzi che poi lo danneggerebbero sul lavoro, chi sceglie di frequentare ristoranti e locali lontani dal luogo di lavoro perché non vuole incappare nei colleghi, chi viene maltrattato dai propri superiori e chi sopporta, sopporta, ma ad un certo punto non ce la fa più.

E’ una società rigidissima, incapsulata in norme, divieti, formalità spesso decisamente inutili (perché dovete cambiare radicalmente la vostra lingua complicando del 200% le vostre stesse parole solo perché così sono più formali?), e non è che ai Giapponesi questo piaccia, dato che c’è anche chi lo ammette chiaramente, che la loro società di fatto uccide l’individualità delle persone, e c’è anche chi ovviamente non è contento di dover fare straordinari al lavoro, di venire sfruttato e maltrattato, ma purtroppo non è che anche loro possano farci molto, perché questa è una cultura radicata da troppo tempo, anche se dal nostro punto di vista è piena di cose disumane e incomprensibili.

I Giapponesi sono così: l’altro, il cliente, l’azienda, la collettività viene sempre prima del singolo, e questo li porta a spersonalizzarsi, ad ammazzarsi di lavoro a scapito della propria salute o dei propri rapporti familiari.
Si impegnano sempre, in proprio tutto quello che fanno, in maniera folle e spesso sovrumana, ma questo impegno raramente è per se stessi, quanto più per gli altri (per il cliente, il turista, l’azienda, il pubblico dei fans…).
E’ un altruismo che senza dubbio gli fa onore e da cui anche noi avremmo da imparare, ma sarebbe anche il caso di non esagerare e di pensare, ogni tanto, anche a se stessi, e quindi dormire un po’ di più, non saltare i pasti, concedersi qualche svago di tanto in tanto.

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Chi è stato in Giappone lo sa bene, i Giapponesi sono capaci di una gentilezza e di una cortesia difficilmente spiegabile a parole: aiutano i turisti spaesati in ogni modo possibile, ti inseguono per tutto un centro commerciale per riportarti una moneta che ti era caduta o una cosa che avevi inavvertitamente lasciato in un negozio, ti fanno riavere i tuoi bagagli che avevi inavvertitamente lasciato sul treno durante un viaggio, ti restituiscono i soldi di un acquisto sbagliato, ti salutano per strada anche se tu sei un emerito sconosciuto e altre mille cose che ai nostri occhi sembrano fuori dal mondo.

Chi glielo fa fare, ti chiedi. Certe cose tu non le faresti mai, eppure tutto questo rientra sempre in quella grandissima attenzione agli altri piuttosto che a se stessi che citavo prima, per cui può benissimo capitarti che un signore, magari indaffarato per i fatti suoi, lasci perdere tutti i suoi eventuali impegni solo per accompagnare te, povero turista spaesato, nel labirinto della metropolitana di Tokyo.

Ma quali sono i loro sentimenti? Stanno facendo tutto questo perché vogliono farlo o perché la loro forma mentis gli impone di aiutare gli altri sempre e comunque? Certo, agli occhi di noi che veniamo aiutati questa gentilezza estrema non dispiace, ma cosa penserà veramente chi ci aiuta?
La risposta non è facile, proprio perché non è facile vedere il vero io dei Giapponesi, sempre nascosti dietro le mille maschere che la società gli impone.

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Si sente dire spesso che i Giapponesi siano freddi e depressi, che non esprimano facilmente i loro sentimenti. Il che è vero in buona parte, proprio per questa società così spersonalizzante in cui vivono, che fa sì che in ufficio o a scuola ci si debba tutti vestire, pettinare, comportare allo stesso modo. Sono tristemente prigionieri di questa società piena di regole, i Giapponesi, e hanno pochissimo tempo libero tra uno straordinario in ufficio e l’altro, ma è in questo pochissimo tempo libero che riesci incredibilmente a vedere il loro vero io, ed ecco che tutto il loro altruismo, il loro impegnarsi al massimo e tante caratteristiche del loro essere derivate dalla loro cultura diventano stavolta il loro punto di forza piuttosto che una costrizione.

Devi cercarli, i veri Giapponesi, durante il weekend, in giro per la città insieme alla famiglia, negli izakaya, alle feste, agli spettacoli di wrestling e ai concerti delle idol emergenti nei parchi pubblici, magari lontano dalle grandi e affollatissime città, ma cercando luoghi meno turistici, più piccoli e intimi dove la tua faccia da straniero provoca curiosità e interesse e chiunque, dai vecchietti che aspettano il verde del semaforo ai bambini che ti importunano per strada chiamandoti “ojisan” (perché tu somigli al loro papà che ha quarant’anni, e a nulla serve spiegargli che tu invece ne hai trenta e non sei ancora così grande) e chiedendoti perché sei calvo, ti danno a parlare.

Non è assolutamente vero che i Giapponesi non sappiano ridere e divertirsi. E’ solo che non ne hanno il tempo, presi da mille impegni e costrizioni come sono. Naturalmente può capitare, come mi è stato detto, che il signor X era talmente oberato di lavoro da aver perso la voglia di sorridere da parecchio tempo, ma ciò non significa assolutamente che non sappiano farlo.

Ho visto padri di famiglia vestiti in pantaloncini, sandali e maglietta, con le figliolette sulle spalle ridere felici nei parchi giochi; ho visto uomini palesemente dai quarant’anni in su agitarsi come forsennati ai concerti di ragazzine idol che probabilmente non avevano nemmeno vent’anni; ho visto uomini di mezza età tifare i lottatori di wrestling con tutto il fiato che avevano nei polmoni e universitari ventenni darmi a parlare dal nulla e diventare miei amici (con tanto di scambio di foto e contatti Facebook) dopo cinque minuti solo perché sorpresi del fatto che indossavamo la stessa maglietta; ho visto impiegati serissimi, tranquillissimi e dalla voce calma e pacata trasformarsi radicalmente stile Yu-gi-oh e diventare la reincarnazione di Frank Sinatra quando gli dai in mano un microfono per cantare al karaoke.

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Infinite volte, negli anime e nei manga, abbiamo visto come in Giappone diano una grande importanza anche alle piccole cose, come la ragazza di turno che prepara un dolce per il senpai di cui è innamorata impegnandosi con tutte le sue forze per renderlo il più carino e buono possibile; il valutare come un tesoro inestimabile un regalo anche piccolo ricevuto da un amico o dalla persona amata; il cibo che è tanto più buono quanto più grande è il numero degli amici seduti a tavola con te o quanto più grande è stata la fatica dell’allenamento sportivo che hai fatto prima di mangiare.

Anime e manga non hanno inventato niente, perché i Giapponesi sono davvero così. Proprio perché sanno che il loro tempo libero è pochissimo, riescono a godere al 100% dei loro pochi momenti di libertà, ridendo di tutto cuore e facendo tesoro delle esperienze, degli amici con cui le hanno condivise, di tutte quelle piccole cose apparentemente insignificanti che però per loro diventano importantissime. Ed ecco, quindi, che anche una cosa apparentemente stupida o che noi stranieri possiamo dare per scontata, come farsi una foto insieme o andare a cenare insieme, diventa per loro qualcosa di cui ridere per ore o un ricordo preziosissimo per cui ti ringrazieranno con così tanta profondità, come se con questo tu gli avessi salvato la vita.

E’ capitato più di una volta che io sia stato ringraziato con bellissime parole soltanto per aver invitato a cena un amico o aver partecipato a un viaggio da lui organizzato, tutte cose che per me non erano nulla di speciale ma che evidentemente, per i sempre indaffaratissimi Giapponesi, hanno un peso diverso.

E’ sicuramente molto difficile e un po’ fredda, la vita dei Giapponesi, scandita meccanicamente dall’avvicendarsi delle quattro stagioni che ogni volta, inevitabilmente, si portano dietro particolari riti, particolari cibi che puoi mangiare solo in quell’occasione, particolari festività che si iniziano a celebrare anche con mesi di anticipo (smettetela di piazzare le decorazioni di Halloween già a metà agosto!), particolari viaggi che puoi fare solo in determinate stagioni, al punto che c’è anche chi l’avvicendarsi delle stagioni non lo sente quasi più, e non si interessa al grande show di fuochi d’artificio per il matsuri estivo che invece tutta la città aspetta con trepidazione. Ma sotto un’anima un po’ fredda si nasconde un grande cuore, di cui puoi avere un assaggio in rarissimi, e perciò preziosissimi, momenti.

La vita dei Giapponesi è un po’ una medaglia con due facce, una buona e una cattiva: lavorano tanto, sono stressati, sono prigionieri di troppe regole e troppe maschere, ma è proprio per questo che, quando riescono ad essere se stessi, sono delle persone così straordinarie. Sarebbe bello poter eliminare la faccia cattiva, ma senza di questa anche la faccia buona dei Giapponesi senza dubbio sarebbe ben diversa.

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Riuscire a instaurare un rapporto di amicizia, e non solo di cortesia, con un Giapponese è molto difficile, proprio perché il confine tra quello che loro davvero provano e la cortesia e l’altruismo che sempre li caratterizzano è molto labile.
Ho avuto la fortuna di riuscirci, trovando persone che mi hanno dimostrato atti di gentilezza estrema anche quando non erano assolutamente tenuti a far nulla nei miei confronti; che mi hanno aperto il loro cuore confidandomi i loro problemi e aiutandomi, nel modo più umano e gentile possibile, a risolvere i miei; che hanno cantato in duetto con me al karaoke (e se fai un duetto con me al karaoke sarai mio amico per sempre) ringraziandomi perché gli ho dato un attimo di sollievo dai travagli del lavoro; che si sono dispiaciuti sino alle lacrime perché io lasciavo il Giappone e vorrebbero che io tornassi subito lì; che ancora oggi, più di un mese dopo il mio rientro in Italia, si fanno sentire tutti i giorni mantenendo un legame che sono contento non si sia spezzato.
Del resto, gliel’avevo detto, prima di andar via: “Se, dopo tutto quello che abbiamo passato insieme, da domani mi farete diventare Ah, sì, quell’Italiano… non vi perdonerò!”.

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La mia esperienza in Giappone, per il momento, finisce qui. Avrei ancora milioni di cose da raccontare, così tante da poterci riempire un libro (e non è detto che, un giorno, non lo faccia davvero), ma per il momento ci fermiamo qui. Tornerò in Giappone in futuro? Chissà.

Mi sarebbe piaciuto tantissimo restare lì più a lungo, trovare un lavoro, ma non è facile e non so se personalmente sarei capace di diventare anch’io un salaryman in giacca e cravatta, costretto a fare ore e ore di straordinari in ufficio e a reprimere i suoi sentimenti e le sue emozioni dietro mille regole per me incomprensibili e mille formule in keigo sempre uguali e prive di emozioni. Ma, pur con tutti questi suoi gravissimi difetti, pur con tutte le volte che i kanji o le strutture grammaticali più complesse o più diverse dal mio modo di pensare mi hanno fatto impazzire, il mio amore per il Giappone non si è mai spento, perché per curare lo stress bastava prendere un microfono in mano.

Ho conosciuto tantissime persone, che mi hanno mostrato i lati brutti e i lati belli di questo paese, e sono stato anch’io un po’ contagiato dalla loro calma, dalla loro gentilezza, dal loro profondo rispetto e amore per la natura, per le piccole cose, per il prossimo, per la vita. Non diventerò mai giapponese, ma il Giappone adesso è diventato una parte di me ancora più grande.

Mi manca il Giappone? Sì. Cosa mi manca del Giappone? Vi sorprenderà, ma non mi manca il cibo (quello italiano è migliore e nulla mi convincerà del contrario), non mi mancano i templi, le sale giochi, le librerie stracolme di manga, i negozi di gadgettistica anime. Mentirei se dicessi che non mi manca il karaoke, ma, in realtà, ciò che mi manca più di ogni altra cosa sono le persone.
Mi manca la gente che mi salutava per strada, mi manca la professoressa che usava solo me come esempio per le frasi, mi mancano i bambini del karate con cui lavoravo (anche se io non manco a loro) e il maestro, mi manca la risata di un caro amico che riusciva sempre a mettermi di buonumore, mi manca il padrone dell'izakaya che mi accompagnava sempre a casa in macchina dopo le serate, mi manca il portiere dell'albergo con cui facevo lunghe chiacchierate quando mi fermavo lì a dormire.
Cose piccole, magari anche insignificanti, ma sono questi piccoli dettagli a fare il Giappone e a costituire buona parte del suo fascino. E’ un popolo tanto problematico quanto amabile, che fa delle piccole cose, del rispetto per ogni cosa (anche gli oggetti inanimati, del resto si dice che abitino dei kami anche lì…) la sua caratteristica più affascinante.

Sono fortemente convinto, del resto, che se ogni Giapponese avesse il suo personale amico italiano che cucina per lui e lo invita a mangiare insieme, e se ogni Italiano avesse il suo personale amico quarantenne giapponese con cui parlare di vecchi anime dell’era Showa e con cui cantarne le sigle in duetto al karaoke, i problemi di entrambi i paesi sarebbero già belli che risolti.