Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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Ultimamente mi capita spesso di approcciarmi a un’opera attirato dalla copertina, immaginandomi una certa serie di contenuti, e di scoprire poi, durante la visione, di sbagliarmi completamente; non so se sia dovuto a una mia assuefazione all’animazione giapponese coi suoi stereotipi o alla mia mancanza di fantasia, ma fatto sta che mi sono approcciato alla visione di “Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana o Kazaro” (lett. ‘Adorniamo il mattino dell’addio coi fiori promessi’) immaginandomi una certa avventura prevedibile in un universo fantasy, e invece mi sono trovato una storia che, delle mie aspettative, aveva solo l’universo fantasy... e “Meno male!” posso dire ora, perché, con mia gradita sorpresa, ho potuto seguire una storia molto forte, intensa, commovente e dolce, con l’amore, la solitudine e la maternità come temi portanti, classica per certi versi, molto originale per altri, ma che merita senza dubbio la visione.

‘Una volta che avrai amato qualcuno, allora sarai davvero sola.’

Questa è la lapidaria lezione che apprende la giovane Maquia da Racine, l’anziana che comanda il suo clan. A prima vista può sembrare un controsenso, ma nel contesto in cui viene espressa assume ben altro significato: Maquia, infatti, è una ragazza quindicenne membro del “Clan delle Separazioni (o dei Separati)”, un gruppo di esseri speciali che vive nella terra di Iorph, identici agli umani nelle fattezze ma che hanno la capacità di non invecchiare mai una volta raggiunta una certa età, e che, in virtù di questa prodigiosa particolarità, vivono isolati dal resto del mondo e rifuggono contatti e legami con i comuni mortali, consapevoli che questi sarebbero destinati inevitabilmente a durare poco, lasciando dietro di sé sentimenti di tristezza e sconforto. Ma Maquia purtroppo questi problemi li ha già, in quanto ha perso i genitori per motivi non precisati, e lamenta quindi di soffrire già adesso la solitudine, nonostante viva in una comunità ristretta che la accetta e la tratta con rispetto e dolcezza, in cui spiccano Leilia, ragazza quasi identica a lei, e Krim, ragazzo per il quale prova una piccola attrazione, entrambi suoi grandi amici. Compito secolare degli abitanti di Iorph è tessere l’Hibiol, un tessuto pregiato prodotto solo da loro nel quale riversano il passato e i ricordi del mondo che li circonda, e inesorabilmente cambia a dispetto della loro condizione immutabile. Questa pacifica routine viene interrotta dall’attacco dell’esercito del Regno di Mezarte, desideroso di entrare in possesso delle straordinarie capacità degli abitanti di Iorph; nel trambusto che segue quest’invasione, Maquia finisce per separarsi dal resto del suo clan, ma riesce fortunosamente a sopravvivere, ritrovandosi sola e sperduta in una foresta. Il caso la mette però sulla strada dell’incontro che le cambierà la vita: in questa foresta infatti Maquia trova un bambino appena nato, difeso strenuamente dalla madre morta in seguito all’attacco di un gruppo di briganti che ha decimato il gruppo con cui viaggiava; colpita dal discorso sulla solitudine che ha appena ricevuto, prova pena per quella creatura, e decide di adottarla per salvarla da morte certa o, nella migliore delle ipotesi, da un destino di solitudine che lei ben conosce. E’ qui che comincia davvero la storia del film, incentrato sulla crescita del figlio adottivo di Maquia, Ariel, e sul loro rapporto in continua evoluzione tra alti e bassi tipici della crescita di un figlio, e amplificati, in questo caso, dal contesto in cui questa avviene.

Tema portante della pellicola è infatti quello della maternità, affrontata sotto vari punti di vista, non solo quello di Maquia; emblematica in questo senso è una delle scene che ci viene presentata abbastanza presto nel film e che vede protagonista la sconosciuta madre di Ariel che, nel tentativo estremo di difendere il figlio, ha stretto talmente forte la sua mano attorno al capo dell’infante, che Maquia fatica ad aprirla per prenderlo. Ed è una scena questa che ci catapulta subito nelle atmosfere aspre del film, allontanando presto quel tono fiabesco che l’incipit ci aveva fatto immaginare, complice anche una componente grafica deliziosa ma della quale parlerò in seguito.
Altri sono i personaggi che vivranno la condizione di madre in modi e tempi diversi, che spazieranno dalla normale convivenza alla crudele separazione alla quale è condannata, per esempio, Leilia, rapita e costretta a mettere al mondo la figlia dell’erede al trono di Mezarte, senza avere la possibilità di crescerla e conoscerla, in quanto ritenuta una specie di mostro per le sue capacità. Ma sono ovviamente Maquia e Ariel ad occupare la scena per la maggior parte del tempo col loro rapporto tanto tenero quanto complicato da gestire, vista la dote di Maquia, eternamente bloccata nel corpo di una ragazza ma impegnata a fare da madre a un bambino che invece cresce, raggiunge e supera anche l’età apparente che dimostra la madre. E a questo problema specifico si aggiungono anche quelli immaginabili in una situazione simile, visto che Maquia è una ragazza volenterosa sì, ma cresciuta da sola e senza la minima esperienza su cosa significhi davvero l’essere genitore. Ed è su questi contrasti, discussioni, frizioni di un rapporto genitoriale classico e atipico allo stesso tempo che il film dà il meglio di sé, raccontando la crescita di un legame messo costantemente a dura prova, eppure tanto forte e indissolubile da superare gli ostacoli del tempo e del mondo ostile che li circonda, una storia d’amore puro che sa rapirti e riempire il cuore di quei sentimenti e ricordi che tanti hanno avuto la fortuna di vivere e che il trascorrere degli anni rischia spesso di far dimenticare. Non altrettanto coinvolgenti ho trovato invece gli aspetti che fanno da contorno a questa vicenda, come lo scenario politico bellicoso che fa da sfondo alle vicissitudini di Maquia e Ariel, tanto da arrivare a coinvolgerli in prima persona, ma che resta appena accennato e molto poco approfondito, o l’evoluzione che subiscono alcuni personaggi come Krim e Leilia che, da una parte, può essere anche giustificata, vista la durezza delle difficoltà che affrontano nel loro percorso, ma dall’altra stona col messaggio di fondo che vuole lanciare “Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana o Kazaro”, che è di stampo positivistico, improntato all’apologia dell’amore, della famiglia e della tolleranza come attributi fondamentali nell’esistenza di ogni individuo. Piccoli difetti, insomma, che non sminuiscono assolutamente il valore della pellicola, che ha la fortuna di fregiarsi di un comparto tecnico davvero di alto livello.

“Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana o Kazaro” è un film prodotto dalla Progressive Animation Works, per gli amici P.A. Works, studio relativamente giovane con all’attivo già diversi titoli di pregevole fattura abbastanza noti dagli appassionati di animazione giapponese, che qui si cimenta nella produzione del suo primo lungometraggio completamente indipendente, affidandosi a uno staff composto da veterani del settore, non tutti impegnati però nei ruoli in cui li si aspetterebbe, e mi riferisco in particolare a Mari Okada, prolifica e conosciutissima sceneggiatrice celebre per serie come “Anohana” e “Nagi no Asukara” , chiamata qui ad occuparsi non solo del suo incarico classico ma anche, e soprattutto, della regia del film, che segna il suo esordio in tal senso, un esordio, mi permetto di dire, decisamente riuscito: “Sayoasa” (l’abbreviazione ufficiale del titolo) è un film scorrevole, armonioso, che raggiunge in pieno il suo obiettivo e trasporta lo spettatore in un mondo dall’apparenza fiabesca estremamente affascinante. Questo grazie al contributo degli splendidi disegni, ovviamente, che emergono nella loro bellezza soprattutto nei fondali delle varie ambientazioni, vero marchio di fabbrica dello studio, rappresentazioni stupende di scenari che fondono natura e fantasia impreziositi da colori forti, brillanti e sempre adatti ad ogni occasione, talmente belli da farmi nascere l’unico vero rimpianto, di non aver potuto godere di tanta eleganza sul grande schermo cinematografico. Al confronto, quasi sfigura, ma anche il character design di Yuriko Ishii, adattamento a sua volta del design originale di Akihiko Yoshida (famoso soprattutto per i suoi lavori in ambito videoludico e, in particolare, su diversi capitoli della saga di “Final Fantasy”), collabora alla riuscita finale della pellicola in modo efficace, un disegno allo stesso tempo semplice e originale che regala dei personaggi non banali eppure di facile presa sul pubblico, che restano rapidamente impressi nella mente di chi guarda. A fare da collante a tutti questi lavori grafici ci sono poi le splendide animazioni, dirette sempre dalla stessa Ishii, impeccabili in ogni sequenza del film, sia in quelle più tranquille sia nelle poche, ma molto coinvolgenti, scene d’azione che “Sayoasa” regala.
Ad accompagnare tanta armonia grafica, c’è poi una colonna sonora di tutto rispetto, affidata a un altro mostro sacro qual è Keniji Kawai, la cui carriera si snoda in oltre tre decenni di partecipazione a serie e film celeberrimi tra appassionati e non, che ci offre musiche evocative e potenti in grado di seguire doviziosamente ogni segmento del film e di guidare lo spettatore, aiutandolo a immergersi completamente nelle atmosfere suggestive della pellicola; anche la theme song, affidata alla cantante Rionos, e intitolata “Viator”, cioè viaggiatore in latino, tocca le giuste corde dell’animo di chi guarda, chiudendo il lungometraggio con una canzone dolce e sensibile che si adatta perfettamente alla storia che racconta e che facilmente chiamerà lacrime di commozione a fare da contorno, cosa provata sulla mia pelle del resto. Impossibile infine non elogiare il doppiaggio giapponese di “Sayoasa”, potendo giudicare solo quello, visto che al momento in cui scrivo il film è inedito in Italia, un lavoro che ha esaltato sia degli esperti del campo come Yuki Kaji (voce di Krim), Miyu Irino (voce di Ariel da adulto), Ai Kayano (Leilia) e Miyuki Sawashiro (Racine), sia doppiatori poco più che esordienti come è, per esempio, Manaka Iwami, doppiatrice della protagonista Maquia alla sua prima prova in un film animato, che ha dato vita in modo più che convincente a un personaggio difficile da interpretare, vista la sua natura tormentata e la sua evoluzione, che la porta a passare dall’essere una ragazzina triste e un po’ piagnucolona a una donna responsabile e sensibile.

Alla luce di quanto scritto finora non è difficile quindi per me racchiudere in poche parole un giudizio su questo lungometraggio: “Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana o Kazaro” è un’opera bellissima, un film emozionante capace di trascinare lo spettatore come pochi e di far vivere tante emozioni diverse nella sua durata, quasi due ore che non ho mai accusato, devo dire, disegnato divinamente, e che merita assolutamente la visione, che consiglio caldamente a tutti senza distinzioni, ma in special modo a chi vive o ha vissuto problemi familiari coi propri genitori, le madri in particolare; la storia di Maquia e Ariel non è sovrapponibile ovviamente alle esperienze che ognuno può vivere nella propria vita, ma ci ricorda ancora di più quanto importante sia provare a instaurare un rapporto sereno e amorevole coi propri genitori e con le persone in generale, in modo da non avere mai il rimpianto di ritrovarci a un certo punto della nostra esistenza come la protagonista Maquia senza la possibilità di poter dire in maniera lucida e convinta: “Sono contento di avere amato!”.

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Sono tante le opere che dalle premesse non lasciavano trasparire nulla di nuovo rispetto a quanto già era stato detto innumerevoli volte, salvo poi superare ampiamente le previsioni. Come sono tante le opere che infine hanno ugualmente deluso le aspettative, rivelandosi nulla di più che un tentativo di autonomia mal riuscito. Hai to Gensou no Grimgar ("Grimgar di fantasia e cenere"), serie televisiva prodotta dall'ormai sempre più acciaccato studio A-1 Pictures per la stagione invernale 2016, appartiene proprio a questa categoria di prodotti: ostentando una poesia spicciola e millantando una profondità contenutistica che non gli appartiene neanche nei suoi momenti più alti, l'anime non fa che esibire il solito canovaccio ormai tristemente abusato fino alla nausea.

Tratto da una light novel di discreto successo, nel rappresentare le vicende di uno sgangherato gruppetto di adolescenti calato in un universo pseudo-fantasy a loro ostile Hai to Gensou no Grimgar, alle battute iniziali, pare tenere fede agli schematismi introdotti qualche anno or sono dal ben più celebre Sword Art Online: la dimensione nella quale i protagonisti sono inseriti sembra fin da subito ricalcare il modello stereotipato del videogame dai tratti RPG, con tanto di classi da scegliere, party da formare, armi da equipaggiare e abilità da imparare e utilizzare in battaglia. Ma l'opera altrettanto celermente cambia direzione, finendo per trattare l'elemento "gioco di ruolo" come un semplice contesto peraltro piuttosto indefinito, per concentrarsi quasi esclusivamente sugli aspetti slice of life (di impatto piuttosto scarsino) del gruppetto di sei adolescenti alle prese con i propri ormoni in subbuglio. Grande spazio viene dunque lasciato al fanservice, che di fatto diviene l'unico mezzo attraverso il quale delineare la caratterizzazione dei nostri personaggi: Haruhiro, il protagonista, resta una macchietta dall'inizio alla fine, in costante balìa della corrente che lo sballotta di qua e di là; il cavaliere nero Ranta incarna il solito personaggio pervertito e scontroso dalla lingua sagace, la cui utilità principale è quella di battibeccare con le due ragazze del gruppo, il cui unico spessore è dato dalle loro voluttuose curve; il chierico Manato è il tipico personaggio-chioccia bello, abile, dolce, premuroso e pressoché privo di difetti che fa da "fratello maggiore" a tutti gli altri, e via di questo passo. Nulla di nuovo sotto il sole dunque, e seppur numerosi indizi suggeriscano che i ragazzi proverrebbero da una dimensione quantomeno simile alla nostra, la cosa non sembra affatto importargli. Non si fanno domande riguardo al mondo in cui vivono, né si pongono questioni circa la loro origine: si limitano ad accettare tutto quanto gli capita in modo del tutto passivo e ignorante.

Nonostante l'introspezione sia dunque assolutamente inesistente, l'opera prova a nascondere cotanta pochezza dietro a una coltre di fasulla "poeticità", intessendo una fitta (quanto stucchevole) rete di relazioni, problemi e imbarazzi adolescenziali, grazie anche alla pachidermica regia di Ryōsuke Nakamura. Il regista, celebre per aver diretto il lungometraggio dalle simili atmosfere Nerawareta Gakuen, pone gran parte dell'attenzione sugli appariscenti fondali e sulla vibrante colorazione ricca di lens flare, sfumature e gradienti, nel forzatissimo tentativo di annebbiare i sensi dello spettatore attraverso una pesantissima quanto superflua confezione grafica; i ritmi sono estremamente lenti - avremo infatti interi episodi di penuria totale -, resi ancor più dilatati da una colonna sonora calma e rilassante che fa dell'(ab)uso di anonime insert song la propria personale cifra stilistica.
In mezzo a tutto questo nulla confezionato ad hoc per "mungere" emozioni dallo spettatore, le piatte e melodrammatiche interazioni tra i personaggi sono quanto di più lontano da un character development degno di questo nome: la loro unica finalità sarà quindi quella di dare un po' di "brio" all'ambientazione, tra l'inquadratura del didietro di una ragazza e la balbuzie iper-moe dell'altra.

Tuttavia dal quarto episodio la serie, che pareva aver intrapreso la strada dello slice of life di poche pretese, cambia nuovamente direzione - forse persino involontariamente. La morte, come una doccia gelida, colpisce il gruppo e getta i suoi membri nel più completo sconforto, tracciando quella che da lì in poi sarà la tematica principale della serie: il dolore della perdita. Che la morte tocchi i protagonisti o che invece interessi le fazioni nemiche, la sua ombra aleggerà sul gruppo di ragazzi fino alla fine, complice un comparto narrativo più volte votato al semplice flusso di coscienza. Hai to Gensou no Grimgar sembra voler dire che, in netto contrasto con la natura "fantastica" e quasi videoludica del mondo in cui i personaggi sono intrappolati, la morte è presente, è definitiva e va accettata: cenere alla cenere e polvere alla polvere, per citare un concetto biblico che ben si sposa con il titolo della serie. L'unico (ma grave) problema, come sempre, sta nell'esecuzione. Perché seppur trattare un simile argomento sia un obiettivo senz'altro nobile negli intenti, l'autocompiacimento purtroppo ha come unico risultato quello di produrre l'effetto opposto.
La perdita qua non viene dunque posta e analizzata come tema principale, ma viene strumentalizzata come un mero plot device atto a mettere in scena un nauseante overdrama fine esclusivamente a sé stesso: copiosi piagnistei spesso accompagnati da una luce soffusa e da evocativi freeze-frame acquerellati si affiancano dunque alle scenette di vita quotidiana, appesantendo ulteriormente la narrazione con banali riflessioni strappalacrime e agghiaccianti ovvietà quali «ma allora anche i goblin non vogliono morire», gettate nel calderone di frasette a effetto volte a fare leva sullo spettatore più sensibile. È d'altronde risaputo come il dramma gratuito riesca sempre a riscuotere consensi nel pubblico, per cui una scelta simile a livello di apprezzamenti immediati si dimostra assai più rapida e "furba" di quella che avrebbe potuto essere una seria disamina sul tema sopracitato.

È dunque con certezza che mi vedo costretto a bocciare una serie sicuramente caratterizzata da discrete potenzialità, che ciononostante fallisce in tutto quello che prova a raccontare. Hai to Gensou no Grimgar non funziona come action-fantasy, non funziona come riflessione sulla perdita, non funziona come slice of life, non funziona neanche come racconto di formazione; i suoi deboli tentativi di prendere il largo dal coacervo di prodotti copia-incolla che al giorno d'oggi infestano il mercato dell'animazione giapponese si rivelano totalmente fallimentari, poiché l'opera pur presentando diverse idee interessanti non riesce a intraprendere una strada decisiva, ma finisce per annegare negli stessi stereotipi che prova a rompere, complice forse anche il desiderio di voler ottenere tutto e subito.
Una seconda stagione è quindi d'obbligo, perlomeno ai fini di fornire delucidazioni sulle tante incongruenze di trama; la prima, dal mio punto di vista, è totalmente insufficiente.

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Shinsekai Yori (From the New World, ovvero "Dal Nuovo Mondo") è un romanzo giapponese di Yusuke Kishi, edito nel 2008 e vincitore, nello stesso anno, del premio "Nihon SF Taisho Award", spesso definito il corrispettivo giapponese del Premio Nebula (prestigiosissimo riconoscimento statunitense conferito nell'ambito delle opere di fantascienza).
L'opera ottenne un ottimo riconoscimento anche dal pubblico, tanto che ricevette un adattamento manga (edito da Kodansha, la stessa casa editrice che diffuse il romanzo) e, in seguito, un adattamento animato.

L'opera presenta sicuramente un setting peculiare, anche per i canoni del genere fantascientifico.
L'anno non è ben definito, ma si parla circa di un millennio oltre il tempo corrente, mentre il luogo dove si svolge la maggior parte della vicenda è il Kamisu 66, uno dei distretti (sono poche decine in totale), in cui è suddiviso il Giappone. Il distretto è suddiviso in sette villaggi, e gli abitanti sono poche migliaia. Ebbene si: facendo qualche calcolo, si evince che la popolazione di tale futuristico Giappone non supera le decine di migliaia. Ma c'è di più: i pacifici e tranquilli villaggi del Kamisu 66 vengono descritti come insediamenti semplici, prevalentemente di legno, e molto simili a quelli dell'immaginario tradizionale che si ha del Giappone. Alcuni segni di tecnologia permangono, come l'elettricità, eppure il loro utilizzo è decisamente limitato. Ma il motivo di questa regressione tecnologica è semplice: gli umani non hanno più bisogno della tecnologia, in quanto hanno ottenuto “il potere degli Dei”, ovvero il Cantus. Tale potere, la cui natura verrà spiegata nel corso dell'opera, permette agli umani di svolgere una grandissima varietà di compiti con delle semplici proiezioni mentali, conferendo all'umanità delle capacità illimitate.
Eppure la società, estremamente statica, non da segni di progresso nonostante le potenzialità infinite di questi umani del futuro; e “Shinseaki Yori” mette progressivamente a nudo tutti i pericoli, le contraddizioni e gli enormi limiti di questo nuovo mondo.

L'opera è scritta dal punto di vista di Saki Watanabe, la protagonista del romanzo, e appare un lunghissimo racconto a posteriori, scritto da lei stessa (ciò implica che ci si imbatterà con una certa regolarità in brevi frasi anticipatorie riguardo gli eventi a seguire), che abbraccia tutte le fasi della vita dall'infanzia sino all'età adulta (in compagnia dei suoi amici Satoru Asahina, Maria Akizuku, Shun Anouma e Mamoru Ito). Lo stile di narrazione è dunque quello in prima persona, e comprende tutte le peculiarità di tale scelta stilistica. Oltre alle classiche sezioni di narrazione degli eventi, avremo dunque diverse parti descrittive (tutte filtrate attraverso la lente del punto di vista della protagonista, la cui età varia a seconda della sezione dell'opera) e numerose considerazioni personali della protagonista stessa, che mettono a nudo pensieri, insicurezze e sentimenti della giovane. Tutti questi elementi sono molto ben bilanciati, e non vi è mai eccesso dell'uno o dell'altro. Il romanzo, grazie a queste scelte, risulta decisamente scorrevole nonostante la sua non indifferente lunghezza, e la lettura rimane costantemente piacevole dall'inizio alla fine.
Come già anticipato, quest'opera va ascritto nel genere fantascientifico, anche se tale classificazione inizialmente potrebbe apparire, in qualche modo, non del tutto corretta. Questo è dovuto all'efficacissimo alone di mistero che permea la vera natura del “nuovo mondo”, che gli occhi della Saki più giovane non riescono ancora a penetrare. Col procedere della trama, il velo che ammanta il nuovo mondo verrà progressivamente infranto, e le verità inizieranno ad emergere. È qui che inizia a palesarsi l'anima sci-fi dell'opera, e vengono progressivamente fornite spiegazioni di carattere scientifico piuttosto plausibili circa il nuovo ordine delle cose (che vanno anche a far luce sulle apparenti incongruenze presenti nell'opera; anche se, va ammesso, non al livello delle opere hard sci-fi.).

Ma tali componenti sono, in un certo senso, minimali; specialmente se paragonate alle varie tematiche trattate. Kishi stesso ha asserito di aver pianificato e scritto l'opera nell'arco di parecchi anni, e con il suo sforzo ha inserito numerosissimi spunti di riflessione all'interno del suo romanzo.
Il primo, e forse il meno comprensibile per coloro che non conoscono troppo bene la società giapponese, è quello fornito dalla panoramica del Kamisu 66 vista con gli occhi dei piccoli protagonisti. Il distretto appare, nel suo aspetto formale, come un luogo ideale: non ci sono guerre o conflitti, le persone lavorano fianco a fianco e tutti vengono rispettati come uguali. Un mondo ideale, capace di creare un possibile sense of wonder in chi legge. Ma a questa sensazione non è permesso di durare in quanto, agli occhi dei bambini, appaiono ben presto delle profonde crepe nel loro mondo perfetto. Questi elementi distopici si concretizzano nella rigidità e nell'estrema decisione con cui la società reagisce alle possibili cause di disturbo e alle possibili anomalie e/o diversità. E tendo a sottolineare il possibile. Partendo dal particolare, è impossibile non notare i riferimenti alla società giapponese contemporanea: un'entità rigida, estremamente organizzata (tanto da essere parecchio sistematica e oppressiva) e con una discreta ma pervasiva intolleranza alle anomalie. Ma, volendo generalizzare, va ricordato che la società giapponese attuale nasce dalla tradizione unita ai pesanti influssi occidentali, e di conseguenza un lettore appartenente a questa macrocultura può comprendere, seppure in modo vago, gli scopi dell'autore.
Vi è un altro aspetto decisamente legato al substrato culturale dell'autore, e questo è decisamente più specifico e difficilmente generalizzabile: i queerat e la loro cultura.
Una piccola digressione: i queeat sono roditori intelligenti (praticamente a livello umano) che si sono evoluti negli secoli recenti. Essi adorano gli umani come dei in terra, e le loro colonie spesso si asserviscono spontaneamente alle volontà dei vari distretti. Nonostante siano mammiferi, la loro organizzazione ricalca quella degli insetti sociali: una regina, che governa la colonia, è deputata alla filiazione, mentre gli altri individui costituiscono la forza lavoro. Data la loro intelligenza, la razza dei queerat esibisce spesso comportamenti molto umani, come guerre e quant'altro.
Questa spiegazione è necessaria par arrivare ai due queerat importanti nella vicenda. Il primo è Kiroumaru: egli è il generale della colonia più tradizionalista (I Giant Hornet); è astuto, intelligente e animato da un fortissimo senso di lealtà; ed è inoltre fedele alla regina (=shogun) e al sistema feudale. Egli incarna le virtù di un samurai, ed è il degno rappresentante ideale del Giappone tradizionale.
Yakomaru è totalmente diverso: mellifluo e machiavellico, è anch'esso dotato di un intelletto notevole. Egli è un individuo molto più ambiguo, eppure le sue azioni e le sue convinzioni lo fanno apparire a volte come essere spregevole, altre addirittura come qualcosa di affine all'eroe tragico (elemento che, infondo, non lo pone così tanto distante dall'onorevole Kiroumaru).
I suoi scopi sono alquanto ideali e di difficile riuscita, e guida la colonia Robber Fly, la più progressista e modernista. Come è facile intuire, Yakomaru incarna il Giappone moderno.
Questi due personaggi simboleggiano le due anime della patria dello scrittore, a volte vicine e a volte talmente lontane da apparire inconciliabili. Ed è con essi che egli tenta di presentare parte della sua cultura ai lettori.

Ma non sono solo gli aspetti culturali a colpire. Superata la fase iniziale dell'opera, come già annunciato, emergono per prima cosa gli elementi sci-fi. In queste fasi vengono fornite parecchie informazioni sulla natura del nuovo mondo, su come l'umanità sia arrivata a quel punto e il cardine per la realizzazione della “società ideale”. Gli uomini in SSY infatti, a causa di manipolazioni subite, non possono utilizzare il Cantus contro altri esseri umani (restrizione d'attacco) e, se dovessero arrecare danno letale a un altro essere umano, vi sarebbe in essi una risposta tale da portare alla morte dell'individuo (feedback mortale). Fra le altre cose, vengono fornite spiegazioni su come si sia arrivato a questo punto e sul tortuoso sentiero percorso dall'umanità per arrivare a tanto.
E il quadro dipinto non è dei migliori: l'uomo avrà anche ottenuto il “potere di dio”, ma è molto più limitato di quando era soltanto umano. Gli esseri umani del nuovo mondo avranno anche dimenticato orrori come le guerre, ma questo non gli ha portati a un vero miglioramento. E questo perché non si possono cambiare gli individui con imposizioni arbitrarie, ma il lavoro va fatto dal basso. E anche il potere è leggibile in chiave allegorica: l'uomo è davvero pronto a gestire qualcosa del genere? Può essere detentore di qualcosa del genere senza esserne travolto?
Il romanzo pone questi come quesiti, e il suo scopo è mostrare una società alle prese con tale compito. Ma è chiaro che il compito è arduo, e l'uomo è costretto a ricorrere a espedienti comportamentali (vengono presi modelli da animali sociali per regolare la tensione fra individui) e psicologici (come la religione, mostrata come un sistema di controllo di livello tale da integrare elementi psicologico-suggestivi come ipnosi e affini). L'opera è ambientata un migliaio di anni nel futuro, ma è impossibile non fare un raffronto col presente. E un romanzo può suonare tanto come una critica, volta agli aspetti finalizzati alla mera regolamentazione e non al miglioramento, quanto un monito, esponendo la decadenza inevitabile di tali approcci.

Shinsekai Yori non è, tuttavia, un mero romanzo finalizzato a trattare tematiche di natura psicologico-filosofica, ma è anche un ottimo esempio di intrattenimento. Oltre allo stile (che, come annunciato, non è affatto ostico), colpisce l'interessante costruzione sociologica della nuova società, spingendo il lettore al proseguimento anche solo per avere nuovi elementi che vadano a comporre il grande quadro del “nuovo mondo”. E anche le sezioni narrative maggiormente orientate all'azione non sono da meno. Vi è infatti l'impressione che, una volta dato un certo bagaglio di informazioni, il ritmo tenda ad accelerare per sfruttare il carico nozionistico conferito al lettore e per alleggerire il possibile peso delle sezioni maggiormente descrittive. Anche questo è un grande merito, che permette a un'opera corposa come questa di rimanere sempre gradevole. Mantenendo ovviamente una certa commistione di intenti: anche nelle sezioni finali, che sono decisamente più orientate su un ritmo narrativo sostenuto, l'opera non smette mai di far cogliere elementi nuovi e inaspettati sul “nuovo mondo”.

In definitiva, Shinsekai Yori si rivela come un romanzo dinamico, capace di sfruttare appieno l'affascinante ambientazione costruita e di fornire una storia convincente e a tratti avvincente. Senza contare gli aspetti culturali, forniti in chiave allegorica ma non meno approfonditi; e gli aspetti socio-psicologici, che vanno a toccare pregi e difetti della razza umana nel rapporto con noi stessi e con il mondo. L'opera è corposa e imponente, ma nondimeno scorrevole e appagante.
Una lettura caldamente consigliata, anche a coloro che non amano le opere fantascientifiche.
Difficilmente potrà deludere.