Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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"Kino no Tabi - The Beautiful World" è un anime on the road ad episodi autoconclusivi. Tutti hanno ben presente il classico anime in cui un viaggiatore solitario arriva in un villaggio e aiuta i suoi abitanti, risolvendo dispute o sconfiggendo villain, ma qui accade esattamente il contrario: Kino, la protagonista dei nostri viaggi, sembra voler vivere cent'anni, perché si farà sempre ed esclusivamente gli affari suoi, a prescindere da quante tragedie veda. In un'ambientazione simile ai primi del '900 Kino, assieme alla sua motocicletta parlante, percorre un mondo archetipico formato da città stato, ognuna delle quali ha cultura, tradizione e scala di valori completamente diversa; durante il suo viaggio conosce i locali e altri viaggiatori, restando però quasi sempre attenta a non farsi coinvolgere dai loro problemi e al non affezionarsi a nessun paese.

Il tema principale è l'incontro-scontro fra la stragrande maggioranza del mondo ottusa, sedentaria e credulona da una parte, e i pochissimi personaggi invece scettici e guardinghi, che ben hanno interiorizzato il concetto di relativismo culturale dall'altra. La maggiore rappresentante di questo gruppo di personaggi è sicuramente Kino, esempio perfetto di cinismo, ma ci sono altri personaggi con la stessa forma mentis, e quando la protagonista incontrerà uno di essi, lo spettatore noterà degli inequivocabili segnali di intesa fra i due. Il regista Ryūtarō Nakamura si rivela particolarmente bravo nel mostrare queste e altre sottili sfumature.

L'anime si configura quindi come un inno allo scetticismo, dove i personaggi negativi non sono gli assassini o i prepotenti, bensì i creduloni che mai vengono dipinti in modo positivo, anche quando sono vittime degli eventi e di sé stessi avranno sempre modo di mostrare alla fine la loro pochezza. Anche la stessa Kino finisce sempre per rimetterci qualcosa o rischiare inutilmente, ogni volta che farà un atto di fiducia verso qualcuno.

Purtroppo sono presenti anche dei difetti, e sono quelli tipici degli episodi autoconclusivi: la presenza di storie completamente fuori contesto in cui pure i due protagonisti sembrano altre persone ("Colosseo"), e la presenza di trame dei singoli episodi che sono delle piccole citazioni a trame di opere precedenti molto più complesse ("Il Paese dei Libri") e che quindi non lasciano nulla a chi è stato spettatore di entrambe. L'anime funziona molto bene invece nei brevi incontri fra i diversi viaggiatori che sono spesso un pretesto per analizzare alcuni comportamenti umani e dilemmi morali ("Tre Uomini sui Binari", "Sfamare il Prossimo").

L'anime, se da un lato è molto tagliente nell'analizzare i dilemmi morali e il relativismo culturale, pecca d'altro canto di eccessivo intellettualismo a partire proprio dalla protagonista, che non si scompone mai nemmeno quando è la sua vita ad essere in pericolo: pur essendo una viaggiatrice incallita, ragionerà quasi sempre in maniera induttiva piuttosto che deduttiva, cosa che stona molto in un anime di viaggio, e che aiuta a spostare la narrazione verso il lato del racconto metaforico invece che verso quello del diario di bordo. Purtroppo l'anime non ci concede una reale fine, anche se l'ultimo episodio contiene elementi di circolarità che si inseriscono nella biografia di Kino.

La mia impressione finale è quella di un anime interessante e abbastanza originale che però non riesce a coinvolgere più di tanto, anche per via del mio pessimo rapporto con gli anime ad episodi autoconclusivi.

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Nella stagione invernale del 2018 va in onda “Sora Yori mo Tooi Basho” (conosciuto anche col titolo inglese “A Place Further Than the Universe”, spesso abbreviato in “Yorimoi”), anime di tredici episodi realizzato dallo studio Madhouse e diretto da Atsuko Ishizuka (“Aoi Bungaku Series”, “Sakurasou no Pet na Kanojo”, “No Game no Life”.)

Protagonista della storia è Mari Tamaki (soprannominata Kimari), una studentessa del liceo che vorrebbe fare qualcosa di memorabile prima della fine dell’adolescenza. Spaventata persino di prendere il treno per un’altra città del Giappone, Kimari troverà la spinta che le serve grazie all’incontro con Shirase Kobuchizawa, una compagna di scuola che sogna di visitare l’Antartide. Alla loro improbabile spedizione si uniranno in seguito anche Hinata Miyake e Yuzuki Shiraishi.

La premessa di quest’anime, di primo acchito, sembra alquanto folle e tutt’altro che realizzabile. Eppure, oltre a fare avverare il sogno di queste quattro adolescenti senza la minima forzatura (al massimo con un po’ di fortuna), “Yorimoi” è riuscito a conquistare i cuori di tutti gli spettatori. La serie, in effetti, si rivela una magnifica storia di crescita, un’opera corale che ci regala quattro meravigliose protagoniste e ne scruta da vicino le paure, le insicurezze, i desideri e le speranze. I lati positivi e negativi di ogni personaggio vengono quindi messi a nudo prima della partenza, durante il faticoso viaggio e una volta giunti alla tanto ambita destinazione. Il continente Antartico, come spiegato da Shirase, è infatti un territorio inospitale e selvaggio, che non fornisce alcuna protezione o sicurezza e che obbliga tutti a “spogliarsi” e affrontare sé stessi e gli altri. Kimari, Shirase, Hinata e Yuzuki, alla fine del viaggio, non solo avranno realizzato un sogno o una sfida, ma avranno anche compiuto il primo passo verso l’inizio dell’età adulta. Avranno anche compreso più a fondo il significato dell’amicizia, altro tema portante della serie mai affrontato in maniera troppo banale o melensa.

Dal punto di vista tecnico, “Yorimoi” vanta delle animazioni fluide, una colorazione che conferisce “brillantezza” ad ogni frame e sfondi di tutto rispetto. La regia di Atsuko Ishizuka non sbaglia un colpo, ed è in grado di rendere al meglio la spensieratezza dei personaggi nelle scene umoristiche, la loro determinazione nelle situazioni di difficoltà e la loro fragilità nei moventi più commoventi. Un grande ruolo sarà svolto, a questo proposito, dalle OST composte da Yoshiaki Fujisawa e da validissime insert song (da citare, ad esempio, la delicata e un po’ malinconica “Mata ne” cantata da Saya). Molto orecchiabili anche opening ed ending.

In conclusione, “A Place Further Than the Universe” è un anime capace di regalare emozioni indescrivibili grazie ai personaggi meravigliosamente costruiti, un anime che insegna il valore dell’amicizia e degli altri legami affettivi, il valore dei sogni e dei viaggi, astratti o concreti, intrapresi per realizzarli, il valore della determinazione e della caparbietà che, ad obiettivo raggiunto, ci faranno esclamare a tutti coloro che non credevano in noi un bel “Alla faccia vostra!”. Voto: 9.

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Dopo il successo internazionale di “Heidi” si consolidò un vero e proprio sotto-genere, un movimento denominato meisaku, che vedeva autori giapponesi ispirarsi a romanzi della letteratura occidentale per le loro serie animate. Dalla stessa formazione di “Heidi” e in particolare dal trittico Takahata (regia e sceneggiatura), Miyazaki (layout) e Kotabe (chara) nel 1976 nacque “Marco - Dagli Appennini alle Ande”, opera ispirata a un racconto presente nel romanzo pedagogico “Cuore” di Edmondo De Amicis.

“Marco - Dagli Appennini alle Ande” è la storia di Marco Rossi, un ragazzino genovese di nove anni che viaggerà fino in Argentina alla ricerca della madre costretta a emigrare dall’Italia per lavoro. Nel suo lungo e travagliato viaggio, passando per navi, treni e mezzi di fortuna, il bimbo attraverserà Marsiglia, Rio de Janeiro, Buenos Aires, Bahia Blanca, fino a giungere a Cordoba e infine a Tucumán, incontrando sul suo tragitto una miriade di personaggi, tutti degnamente caratterizzati e con una credibile demarcazione psicologica (alcuni veramente di spessore). Come il burattinaio Pepe, un alcolizzato cialtrone dal cuore tenero, e le sue tre figlie (Violetta, la secondogenita, nutre del tenero per il protagonista), con cui Marco, grazie anche alla sua estroversa scimmietta Peppino, allestirà per le strade acclamati spettacoli di marionette. Nei carruggi di Genova il ragazzino si tempra iniziando a lavorare, facendo conoscere il suo vigore e la sua determinazione a tutta la città, talvolta come postino altre volte spolverando bottiglie per un bottegaio, non disdegnando nulla che possa aiutarlo a racimolare il denaro utile per il biglietto della nave in grado di avvicinarlo alla mamma.
E con la determinazione e perseveranza tipiche di chi ha un obiettivo da conseguire, al seguito di non poche fatiche, Marco riesce finalmente a imbarcarsi sulla “Folgore”, nave diretta inizialmente a Marsiglia; dopo mille peripezie il bambino si lascia alle spalle gli Appennini italici insieme alle incomprensioni con il padre e il fratello maggiore Tonio, contrari alla sua partenza, in attesa di approdare nelle brulle e calde Ande argentine.

Il ritmo è compassato, e potrebbe scoraggiare gli amanti della nuova scuola giapponese abituati a ben altri standard, tuttavia, nonostante qualche episodio leggermente sottotono e le cinquantadue puntate non proprio coadiuvate dagli avvicendamenti centellinati e dilatati, la storia prosegue coerente dall’inizio alla fine, coinvolgendo lo spettatore, grazie anche a un ottimo cast di comprimari sempre sul pezzo.
In grande spolvero Takahata, nel fiore dei suoi anni, la cui impeccabile regia richiama molto da vicino il cinema neorealista del Vittorio De Sica di “Ladri di biciclette”, conduzione illuminata dagli splendidi fondali dell’allora gregario Miyazaki, che si recò in perlustrazione a Genova per studiarne la demologia e morfologia: la città è riprodotta in modo cosi esemplare, da sembrare viva. Tale realismo purtroppo non si riscontra in tutti gli aspetti della produzione: il fatto che Marco non abbia problemi di comunicazione con gli stranieri e che nella serie è come se ci fosse un’unica lingua universale lascia perplessi, visto e considerato anche lo smodato numero di luoghi visitati dal bambino e quindi le diverse etnie incontrate, togliendo qualcosa in termini di pura immedesimazione.
Non manca la denuncia sociale, gli autori non temono censura e toccano temi quali migrazione, bullismo, violenza sugli animali e sfruttamento minorile, mostrandoci spesso scenari di povertà ed esseri umani in situazioni di estrema precarietà, nonché la critica a determinate classi sociali come dottori, poliziotti o controllori. Particolarmente toccante la scena in cui un ferroviere tramortisce con violente manganellate Pablo, l’amico a cui Marco ha salvato la sorella e che prova a far di tutto per sdebitarsi, fino addirittura a rischiare la vita per garantire un posto abusivo al nostro protagonista sul treno che lo condurrebbe dalla madre; perché Marco è un bambino che merita tale riconoscenza, un piccolo eroe capace di donare i soldi messi da parte con tanto sudore, che gli avrebbero permesso di acquistare il biglietto del treno per Cordoba, a un dottore in grado di operare la sorellina di un amico appena conosciuto (“La mamma mi capirebbe”). Un bambino capace di strisciare al suolo stremato durante una bufera di neve con una scarpa rotta e un’unghia staccata, pur di avvicinarsi alla madre di qualche metro. Indubbiamente, un profilo tanto maturo sarebbe più credibile nelle vesti di un individuo adulto, ma questo è un compromesso accettabile, se il bimbo diventa il mezzo educativo attraverso il quale il maestro Takahata decide di comunicare con i più piccoli. Non dimentichiamoci che i meisaku nascono come opere principalmente formative. Il viaggio di Marco, ragazzino la cui tenuta etica è un esempio per tutti, ancor prima che un’avventura, è il percorso di maturazione di un bambino alla sua partenza per il Sudamerica divenuto un ometto al suo ritorno a Genova.

Purtroppo la serie in Italia non ebbe un grandissimo riscontro, ottenebrata da altre produzioni che andarono in onda più o meno nello stesso periodo, come “Heidi” o “Anna dai capelli rossi”, le cui protagoniste femminili attiravano maggiormente anche le bambine.
Suona come un paradosso, visto che l’opera è ambientata per gran parte della sua durata proprio nel Bel Paese, ma in quel periodo preferivamo di gran lunga i robot.

Tecnicamente siamo su ottimi livelli, la resa visiva è quella di “Heidi” e, anche se oggi può risultare datata, all’epoca aveva quasi del miracoloso. L’utilizzo di pochi fotogrammi e una produzione decisamente low-budget rispetto a colossi come Disney non inficiano più di tanto la qualità delle animazioni, che seppur poco fluide e non proprio al passo coi tempi odierni riescono ancora a valorizzare i momenti più toccanti.

“Marco, dagli Appennini alle Ande” è un classico del meisaku, uno dei primissimi, poi innumerevoli fiori, nati dal sodalizio tra Takahata e Miyazaki, fiore dai cui petali poteva già scorgersi l’alba di un verdeggiante avvenire.

Voto: 8