Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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8.5/10
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Se vuoi provarmi il tuo amore, dovrai cimentarti in imprese all'apparenza impossibili; questo perché non c'è stata concessa una lunga vita, quindi non possiamo permetterci di attendere, ma dobbiamo cercare di trovare la felicità il prima possibile.
Ovviamente quella sopra non è una citazione tratta da questo anime (ed è per questo, infatti, che non l'ho virgolettata), bensì una delle interpretazioni più diffuse di “Scarborough Fair”, una ballata scozzese del XVII secolo che in “WorldEnd” viene suonata due volte: la prima volta all'inizio della storia e la seconda alla fine. E in entrambi i casi la musica unita alle immagini mi ha fatto venire la pelle d'oca: lo spirito della canzone, infatti, sembra essere in una sorta di “comunione” con le vicende narrate dall'anime, e non a caso viene usata per sottolineare i due momenti simbolicamente più importanti di tutta la storia. Roba da applausi a scena aperta.
In molti hanno commentato “Worldend” descrivendolo come il racconto di una storia d'amore e poco più; dal mio punto di vista, invece, accanto alle vicende sentimentali dei due protagonisti, che sono comunque il perno portante di tutta la storia (non c'è dubbio su questo), c'è tutto un mondo da osservare attentamente e da interpretare nel modo giusto. Proprio per questo consiglio a chi fosse interessato a questo titolo di guardarselo tutto d'un fiato, perché molte cose che possono sembrare senza importanza assumeranno una loro rilevanza col passare degli episodi e, se si lascia passare troppo tempo tra la visione di un episodio e l'altro, questi particolari finirebbero per essere dimenticati. A chi ama guardare gli anime in simulcast non piacerà come idea; però a mio avviso in questo caso sarebbe utile fare un'eccezione.

Partiamo con la trama. La scena si apre su un ipotetico futuro in cui la nostra specie si è estinta (sì, un'altra volta...) ed è stata sostituita da altre specie animali che nel frattempo si sono evolute. Queste, però, non vivono più sulla Terra ma su delle “isole volanti”, in quanto la terraferma è ancora occupata dalle “diciassette bestie”, ossia dalle artefici della distruzione della razza umana, che impediscono la costruzione di nuovi insediamenti.
Ed è proprio su una di queste isole che Willem, l'ultimo essere umano ancora in vita, e Chtolly, una Lepreucana (una sorta di fatina), si incontrano per la prima volta. Da subito entrambi si sentono, seppur per motivi e con un'intensità diversa, attratti l'uno dall'altra; inaspettatamente, però, Chtolly deciderà di concludere il loro “appuntamento casuale” chiedendogli di dimenticarsi di lei per sempre. Peccato che il caso ci metta di nuovo lo zampino, e la sera stessa i due sono di nuovo insieme; Willem, infatti, decide per motivi economici di accettare un incarico dell'esercito che prevede di sorvegliare delle “armi speciali”; ma poi scoprirà che queste armi speciali sono proprio Chtolly e le sue compagne (se volete fare ironia su questa parte della storia, fate pure...).

Come dicevo in precedenza, l'analisi di “WorldEnd” può essere comodamente divisa in due parti: quella relativa alla storia romantica tra Willem e Chtolly e quella relativa alle altre caratteristiche di questo mondo a metà tra il fantascientifico e il fantasy.
Sulla storia d'amore mi limito ad esprimere il mio parere personale: molto classica ma allo stesso tempo bellissima. Dico “classica” non perché il rapporto tra un uomo e una fata sia all'ordine del giorno, ma perché i due personaggi hanno una personalità molto convenzionale, senza particolari caratteristiche che li rendano un po' meno comuni. E questa è forse una delle poche critiche che rivolgo all'autore, perché a tratti si nota benissimo che in partenza le sue intenzioni erano diverse: da alcuni comportamenti dei due protagonisti e da alcune frasi pronunciate dagli altri si intuisce che Willem sarebbe dovuto essere un po' più spaccone e Chtolly un po' più “Chthulhu” (è stato più forte di me, perdonatemi), ossia molto più incline alla gelosia e al battibecco. Ogni tanto dei tentativi in tal senso sono stati fatti, ma dopo pochi secondi si faceva subito marcia indietro e si preferiva di nuovo affidarsi a personalità più piatte. Ma, come dicevo prima, il risultato ottenuto è comunque meraviglioso, da un lato perché la struttura degli eventi raccontati è superba e quindi riesce a sopperire ai difetti di personalità dei due protagonisti, dall'altro perché ad essere piatta è solo la loro personalità e non anche i loro sentimenti, che invece sono caldi e penetranti. Una delle cose che mi è piaciuta di più è che il tipo di amore che l'uno prova per l'altro non è lo stesso: mentre Chtolly concepisce l'amore come il sentimento che è alla base della felicità che cercava, Willem è molto è più condizionato dal suo passato, e vede l'amore come un mezzo per sentirsi finalmente appagato.
Ma, come dicevo prima, oltre ad essere una “toccante” storia d'amore, "WorldEnd" è anche una storia futuristica in stile fantasy strutturata molto bene e che si sviluppa con coerenza e senza particolari buchi narrativi. Se si fa attenzione ai particolari, poi, è possibile avvertire un certo pessimismo di base dell'autore nei confronti del comportamento dell'uomo. Potrei fare diversi esempi in cui questo si evince con grande evidenza, ma, per evitare indesiderati spoiler, ne farò soltanto uno relativo a un evento raccontato già nei primi minuti dell'episodio uno.
Come detto in precedenza, queste isole volanti erano abitate da razze animali evolute; queste, da subito, mostrano tutta la loro ostilità verso i “sinemorfi”, ossia verso tutte quelle razze che non avevano sul volto dei segni distintivi propri del mondo animale (peli, scaglie, orecchie da gatto e così via). Razzismo a casaccio o c'è una spiegazione? Ovviamente la spiegazione c'è: l'essere vivente che non ha questi segni distintivi è l'uomo. Sono passati cinquecento anni dalla sua estinzione, eppure viene ancora avvertito come una minaccia dalle altre specie: così tutto ciò che gli somiglia viene trattato con sospetto e disprezzo, chiara eredità dell'odio nutrito in un passato lontano verso quella razza responsabile solo di morte e distruzione.

La mia analisi termina qui: se volete sapere altro in merito, vi consiglio di guardare direttamente l'anime. La mia valutazione complessiva è molto alta; tuttavia, le pecche nella costruzione della personalità dei protagonisti accompagnate ad alcune evidenti contraddizioni facilmente evitabili mi hanno indotto a dargli qualche punto in meno. Indipendentemente dal voto, però, il mio consiglio è quello di dargli almeno una possibilità: a mio avviso si tratta di uno dei titoli più dolci e profondi degli ultimi tempi, per cui non perdete tempo e correte subito a recuperarlo.

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In ogni buon racconto, lungo o breve che sia, c'è sempre un nocciolo, un punto essenziale. Il lettore può non cercarlo consapevolmente, ma se non c'è ne sentirà la mancanza. Nei racconti lunghi e complessi, il nocciolo può essere occultato sotto strati di accessori: intrecci complicati, sottotrame, descrizioni, dissertazioni. Ma nel racconto breve tutto viene eliminato tranne il nocciolo, che si presenta al lettore senza orpelli, e come un ago soffiato da una cerbottana resterà conficcato in lui a lungo.

Così Isaac Asimov apre una raccolta di racconti fantascientifici scritta a più mani, riconoscendo nella capacità di mettere a nudo il succo della storia la prerogativa di qualsiasi racconto breve. Deve esserci un messaggio, un qualcosa che passi e venga trasmesso inequivocabilmente al lettore. E che sia forte, forte a tal punto da rimanere ben impresso nelle poche pagine a disposizione di chi scrive.
È vero, qui non si parla di Asimov, ma di un’opera di animazione, tuttavia, tra stelle, fantascienza e lunghezza limitata, per me il collegamento è stato quasi automatico. E invero non è nemmeno così peregrino, come incipit, perché riesce a inquadrare perfettamente il motivo per cui “Planetarian” fallisce nel proprio essere storia breve.

Ha senso partire dall’ambientazione, un più che abusato scenario post apocalittico in cui l’umanità, a seguito di un conflitto nucleare, è costretta in comunità piccole e sparpagliate, mentre i precedenti agglomerati urbani sono stati abbandonati e murati, per evitare che qualcuno vi acceda. La particolarità della serie, invece, è quella di avere due soli personaggi, facendo presupporre un’ottimizzazione degli spazi e dei tempi per la caratterizzazione degli stessi a fronte di un minutaggio limitato in partenza. Una soluzione niente male, quella dei creatori della visual novel, tuttavia mal gestita e sviluppata, almeno per quanto riguarda l’adattamento. Il protagonista maschile è Kuzuya, un cacciatore di rottami che esplora le città abbandonate in cerca di beni di consumo, vendendo i quali si ricava da vivere; l’incontro con la protagonista è casuale, avviene sulla terrazza di un fatiscente centro commerciale mentre egli cerca di sfuggire a dei robot armati che ricordano molto tachikoma et similia da “Ghost in the Shell”. La protagonista, robot anch’essa, fa parte dello staff di un planetario nel quale, prima della guerra, presiedeva le proiezioni, raccontando le storie e i miti dietro i nomi e le forme delle costellazioni. Il protagonista, inizialmente freddo nei confronti di lei, viene “ubriacato” dalla dolcezza e dall’ingenuità della tenera intelligenza artificiale, lasciandosi coinvolgere in una proiezione speciale per lui soltanto.
Episodio dopo episodio, tuttavia, sempre maggiore è lo spazio dedicato ai ripetitivi e inconcludenti siparietti tra i due e alle più che giuste paturnie di Kuzuya, dovute essenzialmente all’intollerabilità dell’atteggiamento di Yumemi. L’espediente narrativo ci può stare, non dico il contrario, ma è abbastanza deludente constatare che dietro di esso non ci sia altro, se non l’irritante vocina della ragazza, il cui “Gentile cliente” riesce a indisporre anche più di uno sciame di zanzare in una notte insonne di estate inoltrata.
Non mancano, ciliegina sulla torta, tutti i topoi a cui la Key ha abituato negli anni, i drammoni alle spalle - lui consapevole, lei no, motivo di ulteriore compassione da parte dello spettatore - e gli slanci patetici dei personaggi che abiurano ogni logica per seguire degli improbabili e incontenibili sentimenti. E poi ci sono loro: i piantini, le lacrime, la tragedia e il pathos, capaci di commuovere persino un robot che non è programmato per piangere, un po’ come se la vostra lampada scoppiasse in lacrime mentre state guardando il finale di “Titanic”. Ecco, il fanservice in pieno stile Key è servito, la storia strappalacrime e le “lacrime strappastorie” - e, badate bene, non è solo una citazione - sono il coronamento di una serie che poteva dire qualcosa e invece si limita a essere orpello di un messaggio non pervenuto - e di cui, come suggerisce Asimov, la mancanza si sente - sfiorando tasti come la guerra, il fascino delle stelle e il naturale desiderio escapista dell’uomo, senza tuttavia premerne fino in fondo almeno uno.

Il comparto tecnico è nella media e si limita al compitino, servendo animazioni non eccessivamente rifinite e un character design alquanto anonimo, mentre la regia non riesce a distrarre lo spettatore dalla piattezza disarmante e dalla monotonia della sceneggiatura; non aiutano nemmeno il doppiaggio, come già anticipato in precedenza, vista la scelta discutibile della voce della protagonista, né la colonna sonora, dimenticabile, mai veramente incisiva - unica vera delusione, in quanto punto di forza, invece, di altre opere di casa Key. “Planetarian”, in definitiva, è un anime nato monco - forse per colpa della base, sicuramente per colpa degli adattatori - che piacerà certamente ai fan della Key, ma che di per sé rimane scarso.

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Nel 1996, a distanza di otto anni dalla conclusione del manga, Buronson e Tetsuo Hara tornano a narrare le avventure dell'ultimo erede dell'Hokuto Shinken. Questa volta però, invece di un manga, i due autori realizzano un romanzo: nasce così "Shōsetsu Hokuto no Ken: Jubaku no Machi" (Hokuto no Ken - La città stregata), pubblicato in Italia con il semplice titolo di "Ken il guerriero - il romanzo", mentre il racconto ha preso il titolo di "La città incantata". Dalla storia di questo romanzo, nel 2003 è stato realizzato "Shin Hokuto no Ken", serie OAV di tre episodi, uscita in Italia come "Ken il guerriero - La trilogia".

La storia si svolge in un periodo di tempo non ben definito, collocabile probabilmente nel periodo di vuoto narrativo che intercorre tra la sconfitta di Raoh e quello che è considerato l'inizio della seconda serie.
Nel suo lungo pellegrinaggio per il mondo in rovina, Kenshiro giunge a Lastland, una città fortezza governata da uno spietato dittatore di nome Sanga.
L'uomo è riuscito a soggiogare le volontà degli abitanti della città grazie ad un falso dio di nome Doha, un ragazzo che sembra essere in grado di compiere miracoli. Mentre Kenshiro si trova a Lastland incontra Tobi, un ragazzo che si guadagna da vivere come informatore, ma anche e sopratutto Sara, una bella ragazza che, con grande spirito di sacrificio e dedizione, si dedica alla cura dei malati e dei bisognosi. Grande è la sorpresa di Kenshiro quando scopre che la ragazza cura la gente stimolando gli tsubo segreti conosciuti solo dai maestri di Hokuto.
Purtroppo per Kenshiro, non è solo di Sara e Sanga che deve preoccuparsi: presto arriva in città anche Seiji, un misterioso ragazzo che sembra conoscere una disciplina di lotta molto simile alla Hokuto Shinken.

Il romanzo è molto scorrevole e discretamente appassionante. La storia è interessante e perfettamente nei canoni della serie originale. Il libro è composto di dieci brevi capitoli, scritti con uno stile molto semplice, con periodi molto corti. Forse un difetto potrebbe essere quello che alla fine la storia non aggiunge quasi nulla a quelle che sono le vicende del manga originale e che gli eventi qui narrati non hanno ovviamente nessuna influenza sulla vita di Kenshiro come personaggio, nonostante il racconto sia stato scritto dagli autori originali.
Ogni capitolo ha inoltre una o due illustrazioni inedite realizzate dal maestro Hara, usate per sottolineare i momenti più importanti e utilissime per dare un volto ai nuovi personaggi.

L'edizione italiana del libro, pubblicata da Kappa Edizioni è quella standard della collana Mangazine, su cui sono stati pubblicati anche i romanzi di altri manga, nello stesso identico formato.
C'è solo qualche problema di adattamento e traduzione che potevano e dovevano essere più curati. Ad esempio, il titolo è stato tradotto come "La città incantata", ma così sembra che Kenshiro si rechi in un posto pieno di gente sorridente. La traduzione più giusta del titolo è "La città stregata", titolo che è stato giustamente utilizzato per il primo episodio della trilogia animata. Poi ci sono alcuni termini giapponesi messi senza note e un "Laou" al posto di Raoh, ma su questo si può anche chiudere un occhio.

Il romanzo è ovviamente indirizzato solo ai fan di Kenshiro dato che non presenta il personaggio né il mondo in cui si svolgono gli eventi. Nel complesso è un'opera discreta che, pur non essendo essenziale, racconta comunque un'avventura inedita dell'uomo di Hokuto.