Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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7.0/10
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Diciamocelo seriamente: sparare a zero su un anime harem è cosa assai facile. Vuoi per il canovaccio di base, banale e stereotipato, vuoi per la poca inventiva che contraddistingue il 99% delle opere appartenenti a questo genere, troppo spesso legate a brutti cliché che si potrebbero rompere, ma a cui ci si ancora perlopiù per pigrizia dell’autore, spesso la qualità di un harem anime viene giudicata in funzione della sola mercanzia delle protagoniste. A questo punto dare valutazioni che superino la sufficienza risulta impresa assai ardua. Eppure esistono le eccezioni, serie in cui si parte da un canovaccio, salvo poi deviare verso nuove tematiche inesplorate. Ed è qui che nascono i capolavori del genere. Esistono però anche serie che seguono il copione di base, senza deviazioni, ma che ugualmente, grazie alla freschezza nei dialoghi, riescono lo stesso a risultare gradevoli. “Nyan Koi”, anime del 2009 dello studio AIC tratto dal manga di Sato Fujiwara, rientra decisamente in questa seconda categoria.

La trama parla di Junpei Kosaka, uno studente al secondo anno delle scuole superiori tanto imbranato (e allergico ai gatti) quanto follemente cotto di una sua compagna di classe, la bella ma un po’ svampita Kaede Mizuno. Un giorno però, di ritorno da scuola dopo l’ennesima giornataccia, preso dall’ira calcia una lattina trovata sul ciglio della strada, andando così a rompere la testa della statua della “divinità protettrice dei gattI”. Dopo poche ore, con suo disappunto, il ragazzo scopre che è in grado di comprendere il linguaggio dei gatti, comprendendo tutti gli insulti che Nyasmus, la sua gatta domestica, gli lancia ogni qualvolta lui la prende a male parole. Recatosi al tempio, il protagonista scopre di essere vittima di una beffarda maledizione: se non riuscirà a soddisfare i desideri di cento gatti entro un anno, sarà trasformato in gatto lui stesso. Per una persona normale potrebbe essere un compito relativamente semplice, ma non per Jumpei, allergico ai gatti in maniera inverosimile, ostacolato tra l’altro dalle richieste bislacche delle pelose creature, che si rivelano caratterialmente tanto maliziosi quanto gli umani. Nyamsus, dopo un iniziale screzio, decide di accompagnarlo in questa missione con l’obbiettivo ultimo di salvargli la vita: a causa della sua allergia, qualora Junpei divenisse gatto, per lui sarebbe morte assicurata.

La trama è fresca e originale, con un elemento d’azione che rende la storia piacevole e dinamica. Purtroppo, però, lo sviluppo non è all’altezza delle premesse, complice un autore che non ha voluto osare troppo nella trama, stagnando troppo spesso nel canovaccio harem e non facendo progredire a dovere la storia. Questo è il solo vero grosso difetto dell’anime, oltre al fatto di essere un’opera incompiuta. Bisogna dire, però, che qui l’elemento harem è gestito magistralmente, complice la forte componente comica che impregna l’intera opera, mai scontata ma soprattutto fresca ed esilarante. I personaggi, per quanto non approfonditi e tutti legati ai cliché del genere, si affermano sullo schermo grazie a delle piccole, ma grottesche, caratteristiche peculiari, che li rendono molto più gradevoli. Junpei è il classico beta degli harem, ma la sua gigantesca sfortuna, seconda solo a quella di Paperino, lo rende adorabile. Kaede è l’ingenuità fatta persona, ma presenta un inaspettato tratto competitivo, dal momento che spende gran parte dei suoi soldi in biglietti per assistere ai tornei di wrestling. Divertente è anche il parallelismo tra i due: Junpei odia i gatti, ma si trova suo malgrado vincolato ad essi, Kaede li adora, ma a causa della sua morbosa espansività finisce per spaventarli e allontanarli. Ci sono poi altri personaggi secondari, molto semplici ma spassosi: Kanako, l’amica d’infanzia tsundere, Nagisa, la yakuza dall’aspetto mascolino, le gemelle loli del tempio, la postina pervertita, il migliore amico di Junpei, apparentemente maturo ma in realtà più pervertito e idiota del protagonista. Le vere star, però, sono i gatti. Ciascuno di loro, con la sua storia, fornisce una nuova quest per il protagonista, permettendogli attraverso banali ma allo stesso tempo esilaranti missioni di maturare e crescere. Il carattere dei felini, inoltre, ricorda spesso quello degli uomini: abbiamo gatti arroganti, altri fifoni, altri ancora viscidi ecc. Altra nota positiva è l’utilizzo del fanservice, sempre a scopo comico (cosa rara per il genere) e mai tappabuchi, con le protagoniste femminili con pregi e difetti fisici tali da renderle più “realistiche” (insomma, di vere waifu qui non ce ne sono).

Il compartimento audio è ridotto a poche tracce, ma tutte molto efficaci. Buone le opening e le ending. Graficamente l’anime si mantiene su un livello medio, sia per il chara design (molto simile a quello rozzo del mangaka) che per gli sfondi.

Concludendo, “Nyan Koi” è per me un must watch per chi vuole approcciarsi al genere harem. Non presenta sviluppi o colpi di scena degni di nota, ma segue egregiamente il canovaccio, strappando una risata e intrattenendo lo spettatore per tutti gli episodi, un motivo sufficiente per dargli una possibilità.

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In tutti questi anni in cui mi sono avvicinato sensibilmente al mondo degli anime e manga, mi sono reso conto come ogni genere e sotto-genere abbia le proprie "formule" per predisporre e strutturare il tutto, il cui funzionamento, e successo, sono perfettamente sperimentati e collaudati.
Ovviamente l'applicazione di queste formule da parte di registi, sceneggiatori e così via non è casuale. E alla fine ci si rende conto come, in questo bellissimo mondo artistico, il più delle volte il tutto si riduce a un'applicazione originale delle sopra-menzionate formule, più che di uno sforzarsi di trovarne di nuove. E questo comporta la produzione di numerose opere che, più o meno, si assomigliano fra loro.
Non faccio nessuna critica negativa, in ogni caso. Infatti, come già scritto, queste formule funzionano, non ci sono dubbi. Quindi l'usarle non è certamente qualcosa da condannare.

Tra queste c'è una categoria che gradisco particolarmente, cioè quella degli anime e manga ambientati in modo esclusivo in una singola stanza, dentro una scuola in particolare, buttando l'occhio a un simpatico gruppetto di ragazzi che si ritrovano a essere membri del Consiglio d'Istituto della loro scuola. Questo genere è uno dei miei preferiti.
"Iniziato" da "Seitokai Yakuindomo", proseguendo con il meraviglioso "Kaguya-sama", dopo un bel po' mi sono ritrovato a voler vedere un'altra serie che riuscisse in qualche modo a eguagliare in stile le spassose vicende di queste ben riuscite opere. Ebbene, la mia ricerca mi ha portato a esiti davvero insperati.

"Seitokai no Ichizon: Hekiyou Gakuen Seitokai Gijiroku" è stata una vera sorpresa per me. È una serie che fa del suo non essere originale, del suo essere pienamente fedele ai canoni del genere, il suo punto di forza.
Una fedeltà che sfocia nella parodia, è bene precisare. E che proprio parodiando riesce a farci ridere.
Essa è una serie di quelle che ha ciò che io denomino "trama non trama", cioè un'opera in cui le vicende, sostanzialmente, non portano a nulla. Servono giusto allo scopo di far ridere, in questo caso, lo spettatore. E ci riesce benissimo.
Nella struttura c'è tutto: protagonista con obiettivo sciocco e impossibile, uno "squadrone" di ragazze che contribuiscono fortemente allo sviluppo delle situazioni demenziali e comiche a cui assistiamo; persino l'insegnante perverso che fa la sua comparsa una volta ogni tanto, e che lascia sempre un minimo di allegria con la sua perversità di dubbia natura.
Ma non è col suo seguire rigidamente le regole che la serie riesce ad avere successo, quanto piuttosto nel suo sottile tentativo di destrutturare il tutto. In realtà, "destrutturare" è un eufemismo bello e buono, per nulla adatto (e purtroppo largamente usato per altre opere che non destrutturano un beato nulla), infatti non si destruttura niente, piuttosto ci si "autosfotte" in qualche modo. Ci sono riferimenti ad altre opere più o meno famose, e il tutto ruota attorno al prendere in giro il protagonista.
Non manca lo sviluppo dei personaggi però, e alla fine ci ritroviamo ad affezionarci ai protagonisti non solo perché "ci hanno fatto ridere", ma anche perché di loro abbiamo visto anche la parte più debole e sentimentale, la loro parte umana.
Peccato che non abbia il privilegio (come non ce l'hanno tutte le altre opere del genere del resto) di avere un vero finale, in cui alla fine qualcuno si mette insieme al nostro protagonista (e pensare che nei primi episodi ci viene pure fatto sperare!). Però anche qui si può fare un elogio... sì, un elogio alla coerenza; il protagonista vuole l'harem, e l'harem deve avere, a costo di tutto.

In definitiva, consiglio fortemente questa serie. Non è semplicemente un anime con cui vi potrete divertire. Certo, non è di una elevata profondità, ma, a modo suo, può insegnarvi qualcosa (tra una risata e l'altra, è ovvio).

7.5/10
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Nel linguaggio corrente, il termine “sogno” possiede principalmente due accezioni: la più nota e ovvia indica lo stato onirico del nostro sistema cerebrale durante le fasi del sonno. La seconda, invece, è qualcosa di più astratto, sinonimo di desiderio, speranza quasi irraggiungibile, il compimento di un qualcosa di insperato. In pratica, una sorta di miracolo.
Gentile, potentemente delicato, commovente e positivo nel suo educato e riservato dolore, “Kanon” ci racconta un Sogno che è entrambe le cose, contemporaneamente.

Dai creatori dei famosissimi “Clannad” e “Air”, eccoci servito il remake dell’omonima serie animata, ideata nel 2002. Versione rinnovata, soprattutto esteticamente, che nonostante abbia mantenuto l’impostazione esasperata dei connotati, si rivela nel complesso ben più gradevole e approfondita della prima, insufficiente stesura.
È sin dall’opening - capace fino all’ultima nota di prospettare scenari dolci e strazianti - che si può intuire senza troppe trasparenze un’atmosfera unica, particolare, come raramente abbiamo potuto apprezzare in un prodotto di questo genere; una musicalità nostalgica e malinconica, pervasa da un senso di remota tristezza mai conosciuta (per citare Baricco, la famigerata nostalgia di qualcosa che non s’è mai vissuto), eppure, al tempo stesso, ricca di una densa dolcezza che permetterà di bilanciare una malcelata desolazione che fa da sfondo generale.

Questa è la storia di Yuuichi, un liceale appena trasferitosi in una località di montagna che in passato, esattamente fino a sette anni fa, era sede delle sue vacanze invernali. Abiterà a casa della zia e della cugina Nayuki, al quale era molto legato sin da bambino. Sorprendente a dirsi - e anche un po' sinistro - il ragazzo sembra aver perso quasi tutti i ricordi più importanti legati a questo luogo. Saranno vecchie conoscenze, amicizie credute perse (compresa la stessa cugina) ad aiutarlo a recuperare tali memorie perdute, ombre di un passato che nascondono, fra giornate di neve, sole e pinete ghiacciate, un triste segreto.
Si parte davvero compassati, con un ritmo troppo lento, talvolta stagnante e leggermente noioso, che tuttavia permette ai personaggi principali di entrare in scena uno alla volta, in modo completo e certosino. Pian piano, adeguandosi all’andamento flemmatico e abituandosi ad esso, diviene sempre più semplice inquadrare la situazione, accettando la lentezza narrativa come indispensabile per uno spiegamento di trama uniforme, intento a preparare picchi d’ansia e sorprese (alcune telefonate, altre scioccanti) che si dimostreranno di sicuro impatto. A far da portante, troviamo una colonna sonora eccellente che calza come un guanto ad ogni situazione, arricchendo magistralmente un’ambientazione di una nordica tranquillità, fra dettagli ai bordi dei fiumi ghiacciati, spazzaneve che arrancano per le strade, alberi e siepi da cui crollano cumuli di neve, silenzi immersivi e ovattati di una località meravigliosamente rappresentata. Man mano che ci vengono sciorinati i personaggi principali, la memoria di Yuuichi pare ricostruirsi come un puzzle disordinato, pezzo dopo pezzo, non senza momenti critici, aprendo le porte dei ricordi una ad una, componendo un mosaico frammentato di difficile soluzione.

L’anime è leggibile a vari livelli. Spesso sfrutta nozioni di musica classica per rifarsi alla propria logica, che di fondo si rivela davvero intrigante, a cominciare dai titoli dei singoli episodi.
A monte di ogni cosa, è proprio il titolo stesso della serie, “Kanon”, che nasconde un importante significato: il termine si riferisce al Canone D2 del famosissimo musicista Pachelbel, autore di sonorità barocche ben note. Il Canone non è certo scelto a caso: il collegamento viene proprio spiegato in un determinato momento a metà storia, in particolare da Sayuri, una delle amiche di Yuuichi, mentre entrambi sono comodamente seduti all’interno dell’accogliente bar che sono soliti frequentare. Tecnicamente parlando, il “Canone di Pachelbel” ripete sempre la solita melodia, numerose volte, ma ogni volta più armoniosa e ricca di sfumature della precedente, un adagio ispirato alla spiralità dell’universo stesso, immutabile e al tempo stesso cangiante in modo uniforme e omogeneo: di volta in volta, ad ogni “giro”, s’arricchisce di note e intrecci armonici. Nella stessa misura, Sayuri anela a una vita con un andamento simile, un’esistenza che di base rispecchi una routine abitudinaria, capace di essere apprezzata per la sicurezza che riesce a donare, priva di incertezze o terribili imprevisti, ma che ogni giorno possa presentare comunque novità, eventi differenti, che possa arricchirsi, e in egual maniera arricchisca chi la vive con beata, agognata serenità.
La similitudine fra vita e Canone è profonda e al tempo stesso malinconica, poiché ci fa riflettere su quanto spesso ci si impegni a pianificare il futuro, e, improvvisamente, ci si trovi travolti da imprevisti che finiscono per sconvolgerci, scombussolare ogni cosa e creare panico, talvolta paura, sorpresa e incertezze.
La vita non può essere sempre programmata, e la speranza che possa ripetersi quotidianamente alla stregua della melodia di Pachelbel è solo un mero desiderio di qualcuno troppo stanco per poter continuare ad affrontare difficoltà e sconvolgimenti... o almeno così pare.
Sull’ingiudicabile base di queste affermazioni e di fronte a domande a cui non esiste risposta certa, si diramano così quattro archi principali che compongono i ventiquattro episodi, quattro novelle che parlano delle vicende passate e presenti di Yuuichi, eventi legati da promesse, ricordi, attese, dolori e sorrisi.
Come già anticipato, l’opening ha uno strano effetto: sulle prime risulta appena orecchiabile, pare mancar di mordente, ma col passare degli episodi assume un significato incredibilmente intenso, e sulle ultime battute ascoltarla è un tuffo al cuore; la ending invece pare inusualmente allegra, quasi da apparire fuori luogo, l’unico pesce fuor d’acqua in una OST davvero eccellente.

Sono sensazioni diverse da “Air” o “Clannad”, e per questo originali e speciali; forse meno dolorose, meno disperate, ma estremamente emozionanti. Si percepiscono vibrazioni gelide, spolverate di nevischio e pungenti come un’alba di febbraio, una sorta di nostalgia per qualcosa che sembrerebbe non essere mai stato vissuto, ma che, con lo svolgersi della trama, si scoprirà invece perduto nei meandri della memoria. La magica cornice invernale prepara lo spettatore a una sequenza di vicende capaci di sfiorare il cuore con una misurata tristezza, mai scomposta, né eccessiva.
Palpitante, dolcemente commovente il primo arco, dedicato a una ragazzina di nome Makoto. Con grazia, gli autori riescono a rivisitare alcune leggende giapponesi in una chiave più mistica e nordica, e il risultato è un incrocio fra ironico, familiare e sovrannaturale, tenuto insieme da una potente dose emotiva.
In “Kanon”, strano ma vero, è spesso nei pregi che si annidano mancanze non percepibili con la dovuta immediatezza: la drammaticità di tutte le vicende è mitigata spesso da un’atmosfera lenitiva che, talvolta, eccede ed esagera. Capita che invece di calcare la mano dove sarebbe probabilmente servito un impatto più incisivo e spietato, si decide di puntare sulla reciproca comprensione e la risoluzione degli eventi tramite una dolcezza empatica molto profonda, che, sì, coinvolge l’osservatore - e senza dubbio suscita emozioni intense -, ma contribuisce a uno smorzamento della drammaticità generale. Tali scelte creano situazioni e climax meno impattanti rispetto a come vengono presagite, anche se il tutto rimane comunque legato alla soggettività dello spettatore.
È un lavoro affabilmente gentile con l’occhio dello spettatore, anche nei frangenti più cruenti e terribili: le immagini e le scene che potrebbero risultare più disturbanti e sconvolgenti non vengono mai esplicitate, ma lasciate intendere con misurato garbo e una certa eleganza di stile.
Spesso si può godere di una comicità fredda, improvvisa, protagonista proprio Yuuichi, capace di battute immediate, dei botta e risposta taglienti e divertenti al tempo stesso, per non parlare dei lamenti e delle buffe espressioni di alcune co-protagoniste (versetti come “Uguu” e “Ahuu” passeranno inevitabilmente da irritare a far sorridere, e infine, probabilmente, a far salire il cuore in gola).
Ciò che mette sicuramente tutti d’accordo sono le atmosfere e la rappresentazione degli ambienti della città. I luoghi e gli scenari si possono letteralmente assaporare con gli occhi; è possibile avvertire il vento gelido sulle guance, l’aroma del caffè e delle marmellate al mattino, il rumore della neve schiacciata sotto gli stivali lungo il vialetto, le auto che slittano sul ghiaccio, il tepore di una tazza di tè bollente, le stalattiti ghiacciate sotto le grondaie che brillano alla luce del sole mattutino... non ci sono dubbi: è sicuramente l’atmosfera il punto forte di “Kanon”. Gli autori sono riusciti a generare un ambient favoloso, ispirante, intenso e davvero magico. Si viene presi e trasportati in queste stradine di montagna, fra tronchi coperti di brina, tetti ghiacciati, finestre appannate; si diventa testimoni di tramonti malinconici e di una storia che mostrerà, episodio dopo episodio, elementi sovrannaturali, mai esagerati eppur sorprendenti.
Dopo metà serie, l’andamento lento e compassato comincia finalmente ad ingranare, e sebbene la qualità d’animazione generale si dimostri solo un pelo sopra la media, si possono notare numerosi picchi qualitativi nei momenti cardine.
Nonostante gli archi narrativi sembrino di simile concezione e costruzione, forse un po' telefonati e poco originali, non perdono la loro accorata piacevolezza: in un modo o nell’altro, le storie che Yuuichi va a intrecciare con la sua lo portano inevitabilmente ai ricordi d’infanzia, una miscellanea di rimembranze piacevoli e dolorose che finiranno per sublimarsi, purtroppo, in quei demoni che tanti giovani hanno difficoltà ad affrontare poiché troppo fragili, sensibili, delicati. Tragedie familiari, distacchi da persone care, stravolgimenti della quotidianità e smarrimento dei punti di rifermento sono questioni di difficile gestione psicologica, elementi che possono benissimo incidere e destabilizzare in maniera profonda la psiche di un ragazzino, segnandolo per sempre.
In “Kanon”, come detto, il sovrannaturale esiste, ma non è qualcosa che mette in disparte l’aspetto umano e vivido della storia: tutt’altro. Gli elementi sovrannaturali si rivelano veicoli per parlare di argomenti realistici e sofferti, poiché, man mano che la matassa si sbroglia, viene a galla il vero collante di tutte queste vicende, ovvero quel famoso “sogno” citato inizialmente, viaggio onirico in quanto tale, dimensione che collega ricordi, coscienze e desideri.

Nonostante questa brillante e avvolgente costruzione d’insieme, è giusto sottolineare che alcune situazioni drammatiche paiono leggermente forzate, portate all’estremo della sopportazione pur di colpire lo spettatore con un’esasperata criticità, che, in qualche frangente, rischia invece di causare l’effetto opposto (situazioni poco spontanee, per nulla naturali, un deus ex machina pallido e intuibile capace di indurre a comportamenti poco credibili, sociopatici o illogici in rapporto alle situazioni correnti).
Nella valutazione finale, questi “nei” risultano un vero peccato. A tutto ciò si sarebbe potuto ovviare con una maggiore naturalezza negli approcci interpersonali, evitando estremizzazioni eccessive o discordanti.
Partendo dal concetto che si tratti di un anime drammatico e a suo modo poetico, è possibile considerarlo come una sorta di “harem” del tutto atipico, nonostante non vi sia quasi mai un vero intreccio amoroso, principalmente per cause distinte e molto chiare che verranno a galla con la dovuta lentezza. La componente romantica si palesa in rarissime occasioni e finisce per fiorire tanto potente quanto amara soltanto sul finale, senza preavviso alcuno, un fuoco intenso e vigliacco, reo di nascondere il picco più significativo e spietato di tutta la tragedia.
Siamo così di fronte a un “harem” di nome, ma non di fatto: ogni personaggio femminile che accompagna Yuuichi nelle sue vicende, fra le righe di una psicologia non così semplice da intuire, si rivela una sorta di metafora legata all’esistenza stessa, un elemento di confronto e crescita per poter affrontare ed elaborare determinati traumi succeduti in età pre-adolescenziale.

Sconvolgimento infantile, dolore, distacco dagli amici, freddi arrivederci svaniti dalle memorie, amori non corrisposti, gravi incidenti, battaglie contro terribili malattie, familiari incapaci di gestirne il dolore, difficoltà ad accettarsi: è la società che trasforma le persone più deboli in “diversi”, o è la vita ad essere, talvolta, troppo crudele e ingiusta per poterla sopportare? Forse entrambe le cose, ma a fronte di questa somma di drammatici elementi, la splendida, calda morale di “Kanon” è ben chiara: l’amore non ha bisogno di spiegazioni, e in un qualche modo ci piace pensare che possa trascendere anche distanze incolmabili come la morte o gli addii, legando le persone per sempre, donando loro la forza di rialzarsi ogni volta, di accettarsi, di cambiare, di andare avanti.

Se sognassimo di essere l’angelo custode di chi amiamo con tutto il nostro cuore, potremmo proteggerlo, accudirlo e aiutarlo a trovare la vera felicità? Forse sì, ma si tratterebbe, in ogni caso, solo di un sogno o di un’invenzione della nostra fantasia.
Soltanto un miracolo potrebbe renderlo reale.