Quello tra la saga di videogiochi Dragon Quest e la casa editrice Shueisha è un legame solido, duraturo e rivoluzionario che va avanti sin da metà anni ottanta. Dragon Quest, il primo, storico, titolo della serie, non avrebbe mai avuto lo straordinario successo effettivamente poi riscosso se Kazuhiko Torishima, uno dei più influenti redattori di Shueisha, non avesse proposto all’amico Yuji Horii, creatore del gioco, di utilizzare il suo protetto Akira Toriyama, all’epoca autore di punta di Shounen Jump, come character designer di mostri e personaggi. Data l’incredibile popolarità del gioco, che già prima della fine degli anni ottanta contava ben tre capitoli di enorme successo, Yuji Horii, il quale già collaborava con Shueisha scrivendo un angoletto di articoli sui videogiochi su Shounen Jump, si vide così costretto ad onorare la sua parte del patto fatto con Torishima. Il redattore aveva fatto la sua, prestando al game designer il più famoso mangaka della sua scuderia, perciò Horii avrebbe dovuto, in cambio, concedere i diritti del gioco a Shueisha, affinché venisse creato un manga che lo sponsorizzasse. E’ il 1989, e mentre Horii e Toriyama si occupavano di un anime originale di Dragon Quest (quello che poi sarà Dragon Quest: Abel Yuusha Densetsu, prodotto dallo Studio Comet e trasmesso su Fuji Tv dal dicembre 1989 all’aprile 1991), si cominciò anche a pensare al fantomatico adattamento manga da pubblicare su Jump. La scelta fu affidata al duo composto dallo sceneggiatore Riku Sanjo (Zyuden Sentai Kyoryuger, Digimon Xros Wars), che già scriveva anche lui articoli di videogiochi su Jump, e dal disegnatore Koji Inada, che era stato assistente di Masakazu Katsura.

 

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La direttiva di Horii fu quella di creare una storia originale, perché realizzare solo un adattamento del gioco sarebbe risultato noioso per i lettori.
La prima prova degli autori è “Delpa! Iru Iru”, una storia breve in due capitoli pubblicata sui numeri di Shounen Jump del 5 e 12 giugno 1989. Questo episodio, che introduce il piccolo protagonista Dai e l’isola popolata da mostri su cui vive, ha riscosso un buon successo, togliendosi anche lo sfizio di presentare per la prima volta al pubblico alcuni mostri che sarebbero stati introdotti nel prossimo venturo Dragon Quest IV (sarebbe uscito a febbraio 1990). A questo primo pilot, segue “Dai Bakuhatsu!” (“Dai esplode!”) in tre capitoli pubblicati nei numeri del 14, 21 e 28 agosto, che introduce la principessa Leona e il misterioso emblema del drago che compare sulla fronte del protagonista. Il grande apprezzamento riscosso da questi episodi pilota convince la casa editrice a realizzare una serie vera e propria, Dragon Quest: Dai no daibouken ("Dragon Quest: La grande avventura di Dai", da qui in poi solo La grande avventura di Dai per comodità), che partirà nel numero di Jump uscito il 23 ottobre 1989 col capitolo che introduce il tutore degli eroi Avan e il mago Pop.
Gli autori non si aspettavano tutto questo successo, puntavano a realizzare una serie breve, di una decina di capitoli, ma il pubblico continuava ad amare il piccolo Dai e la serializzazione fu allungata, facendo allontanare Dai dalla sua isola e facendolo imbarcare per la sua grande avventura… che durerà fino al 1997, con ben 37 volumi pubblicati!

 

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Nel luglio del 1991, quando la storia del manga si trova, nei capitoli su Jump, all’importantissimo punto di svolta della saga di Baran, uno dei climax della vicenda e una delle parti più amate dai lettori, arriva l’annuncio di un adattamento a cartoni animati, dapprima presentato durante il Toei Anime Festival estivo sotto forma di un film pilota curato da Toei, un retelling dei capitoli pilota del manga e dell’incontro tra Dai e Leona con qualche differenza rispetto alla storia originale (il nemico del film non sono Baron e Temjin come nel manga, ma un misterioso signore oscuro chiamato Hadler, diverso da quello che poi comparirà nella serie, imprigionato sull’isola di Dai).
La vera e propria serie a cartoni animati segue pochi mesi dopo, a partire dal 17 ottobre 1991, ben trent’anni fa, curata sempre da Toei e dal regista Nobutaka Nishizawa (Sakigake! Otoko Juku, Slam Dunk), in onda su TBS. L’idea iniziale era quella di renderla un po’ diversa dal manga e iniziare direttamente dall’introduzione di Avan, dato che comunque avevano già narrato gli episodi pilota nel film pochi mesi prima, ma poi hanno pensato al grande pubblico che non aveva potuto partecipare al Toei Anime Festival (il film pilota, infatti, non vedrà una release in home video fino al 2020) e hanno deciso di rinarrare la storia dall’inizio. La storia è dunque la stessa del manga, l’avventura del piccolo Dai, bambino che ha il sogno di diventare un eroe e nasconde un misterioso potere, che parte dall’isola dove è cresciuto per andare a sconfiggere il re dei demoni, accompagnato da fedeli compagni come il mago Pop, la combattente/chierica Maam, la principessa senza peli sulla lingua Leona lo slime alato Gome.

 

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La versione a cartoni animati de La grande avventura di Dai è pressoché identica al manga di base. Le variazioni sono pochissime, giusto qualche sparuta scenetta filler di poco conto qua e là, senza alcuna censura alle scene un po’ più sanguinose e cruente né alle piccole scenette fanservice e alle gag di carattere sessuale che spuntano di tanto in tanto. Il character design di Yasuchika Nagaoka è molto simile allo stile che i disegni di Koji Inada avevano nel 1991, anche se più semplificato, ma l’atmosfera è un po’ diversa da quella del manga. Laddove, nel manga, i disegni di Inada sono (soprattutto nella prima parte, quella presa in esame dall’anime) leggeri, ariosi, con prevalenza di bianchi e caratterizzati da una colorazione molto chiara e leggera nelle copertine e nelle tavole a colori, l’anime prende invece una strada diversa. Se i primi episodi, quelli dove il protagonista Dai è sulla sua isola, sono caratterizzati da colori pastello molto vivaci che ben si adattano allo spirito fanciullesco di queste prime storie, il grosso della serie sceglie invece di usare toni molto cupi, colori spenti, pesanti e molto più scuri rispetto a quelli scelti utilizzati nelle illustrazioni del fumetto, cambiando anche colorazione per alcuni personaggi (ad esempio, Leona ha i capelli biondi invece che castano chiaro come nel manga, Brass è rosso invece che azzurro/grigio) o utilizzando colorazioni molto più pesanti rispetto al manga in alcuni casi: ad esempio, i capelli di Maam, che sono rosa chiaro nel manga e un fucsia molto marcato nell’anime. L’effetto è quello di un anime che un po’ sembra più vecchio della sua età effettiva, specialmente se confrontato con altre opere sue contemporanee che hanno colori molto più vivaci e animazioni molto più spettacolari, ma lo staff si è comunque impegnato per valorizzare al meglio dal punto di vista tecnico i momenti salienti della storia e quelli più amati dai fan del fumetto. La versione rimasterizzata in blu-ray uscita nel 2020, da cui sono state tratte le immagini a corredo dell’articolo, ha fortunatamente reso i colori un po’ più vivaci e brillanti rispetto all’originale. Non vi sono tagli né particolari aggiunte e la storia è pressoché la stessa del manga, ma il ritmo della narrazione è, come si usava all’epoca per gli adattamenti di manga in corso, più lento e stiracchiato, con numerosi riassunti, flashback, inquadrature di paesaggi, scenette aggiuntive con personaggi secondari, tempo speso sui primi piani dei personaggi, tutti espedienti che servivano per permettere di realizzare gli episodi con calma senza doversi preoccupare di finire il materiale cartaceo da adattare e che, a modo loro, davano alla serie un’impronta più emotiva, giocando con i cliffhanger a effetto alla fine degli episodi e dando allo spettatore parecchio tempo per elaborare ciò che vedevano su schermo e creare empatia coi personaggi.

 

 

L’atmosfera della serie animata è molto seria, epica e solenne, molto vicina alle atmosfere epiche dei videogiochi Dragon Quest, di cui riutilizzano esattamente la stessa colonna sonora. Molti brani orchestrati in sottofondo alle scene sono esattamente quelli del videogioco, mentre quelli creati appositamente per la serie portano sempre la firma del recentemente scomparso Koichi Sugiyama, il compositore delle musiche della saga dei giochi, che gli ha donato il suo inconfondibile tocco epico e fiabesco, esaltando di molto l’aspetto epico-medievale-cavalleresco della serie. Cosa che si nota già dalle sigle, estremamente particolari. L’incipit della sigla iniziale è il celeberrimo tema della saga di Dragon Quest, già sentito in varie forme anche in Abel Yuusha Densetsu, che si trasforma nella canzone della sigla iniziale, “Yuusha yo, isoge!” (“Corri, eroe!”), caso più unico che raro di sigla di un cartone animato giapponese che però somiglia a una ballad medievale. La sigla di chiusura, “Kono michi, waga tabi” (nota anche con il titolo tradotto in inglese “My road, my journey”), è la versione cantata della melodia che chiudeva il secondo videogioco della serie Dragon Quest. A eseguire entrambe le canzoni è Jiro Dan, cantante e attore noto a chi segue le serie tokusatsu (ha infatti preso parte a diverse serie di Ultraman e dei Super Sentai).

 

 

Il cast di doppiaggio della serie animata è composto da numerosi fuoriclasse e nomi famosissimi dell’epoca. A dar la voce a Dai è Toshiko Fujita (Mamiya in Hokuto no Ken, Taichi in Digimon Adventure), che ha doppiato il piccolo prode guerriero fino a poco prima della sua morte, avvenuta nel 2018, interpretandolo per l’ultima volta nel videogioco Jump Force. La principessa Leona è Aya Hisakawa (Sailor Mercury in Sailor Moon, Arimi in Marmalade Boy), il maestro Avan (ma anche Killvearn e la voce narrante) è Hideyuki Tanaka (Doflamingo in One Piece, Terryman in Kinnikuman), il demone Hadler è Takeshi Aono (Piccolo Daimaoh in Dragon Ball, il padre di Yakko in Aishite knight), Pop è Keiichi Nanba (Kazuya in Touch, Aphrodite in Saint Seiya), Maam è Miina Tominaga (Persha in Mahou no yousei Persha, Yahiko in Rurouni Kenshin), Crocodyne è Banjo Ginga (Gihren Zabi in Gundam, Souther in Hokuto no Ken), Hyunkel è Hideyuki Hori (Ikki in Saint Seiya, Momotaro in Sakigake! Otoko Juku), Baran è Unshou Ishizuka (il professor Ookido in Pokemon, Joseph Joestar in Le bizzarre avventure di Jojo).

 

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La serie riscosse un buon successo di pubblico, riuscendo anche a meritarsi altri due film per il cinema, usciti nella primavera e nell’estate 1992. I film sono ambientati durante momenti ben precisi della serie, col secondo che potrebbe tranquillamente definirsi canonico dato che va a colmare e approfondire un piccolo buco narrativo lasciato dalla storia originale e, probabilmente, anche la realizzazione di film ambientati in momenti ben precisi della storia e con una data d’uscita già prestabilita ha contribuito a rallentare il ritmo degli episodi televisivi, dovendo quindi “raggiungere” un determinato momento della vicenda per l’uscita del film. Al tempo della programmazione della serie animata sono usciti in Giappone numerosi oggetti di merchandise: pupazzetti giocattolo di varie forme, minipupazzetti di gomma dei personaggi (simili a quelli usciti negli anni ottanta per Kinnikuman), carte collezionabili, peluche, armi giocattolo, carte telefoniche, accessori per la scuola, cioccolatini, gomme da masticare e salsicciotti “a tema”, videocassette, laser disc e cd musicali, la riproduzione del ciondolo dei discepoli di Avan e persino spettacoli dal vivo tenutisi nei parchi di tutto il Giappone.

 

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L’idea iniziale era quella di realizzare una serie che durasse innanzitutto un anno, per poi allungarla in caso di successo, una volta che sarebbe uscito nuovo materiale cartaceo da adattare in animazione. L’anime andava bene, era stato deciso che sarebbe stato rinnovato per un altro anno ed erano già entrati in produzione anche i giocattoli relativi alla parte successiva della storia, tuttavia, all’improvviso, il canale televisivo ha optato per una rivoluzione totale del palinsesto e la fascia dedicata agli anime, che ospitava La grande avventura di Dai e che in precedenza aveva ospitato Shounen Ashibe, è stata cancellata in favore del varietà Kamioka Ryutaro ga zubari, che durerà con successo fino al 1996.
La grande avventura di Dai si interruppe, così, all’episodio 46, andato in onda il 24 settembre 1992. Ironia della sorte, lo fa proprio nel bel mezzo di quella stessa saga di Baran che aveva visto l’annuncio dell’anime. Amatissima dai fan e importantissima per la trama, questa saga rappresenta un fondamentale punto di svolta per la serie, che da quel punto in poi cambia, ma gli spettatori degli anni novanta non avranno modo di vedere gli sviluppi in tv, perlomeno non nella forma che Toei aveva dato a questa serie in questa incarnazione animata.
Riku Sanjo, l’autore del manga originale, che aveva anche esperienze di sceneggiature per serie animate, venne chiamato a scrivere una conclusione per l’anime, chiudendo in modo concreto quanto iniziato con la saga di Baran. E’ questo il più grande punto di divergenza col manga, in quanto la saga viene conclusa col primo scontro tra Dai e Baran e la vittoria del nostro piccolo eroe, mentre nel manga le cose vanno in maniera differente e la saga continua ancora per diversi volumi, così come continua il manga: l’anime si ferma al volume 10, ma i volumi totali saranno ben 37.
La saga di Baran viene in qualche modo conclusa, ma l’avventura di Dai è ben lungi dal finire: restano ancora due generali nemici e parecchi avversari da sconfiggere, numerose avventure da vivere, ma l’anime degli anni novanta ci lascia in sospeso, con un finale aperto e la promessa che un giorno o l’altro Dai riuscirà a riportare la pace nel mondo.

 

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L’interruzione dell’anime ha lasciato scontenti tutti: l’autore originale, i fan che si approcciavano a quest’opera per la prima volta ed erano arrivati ad un interessantissimo punto di svolta della trama, i lettori del manga che non vedevano l’ora di assistere alla trasposizione animata delle loro scene preferite. Tuttavia, da un certo punto di vista forse è stato meglio così. Dalla saga di Baran in poi, la storia cambia fortemente, abbandonando via via gli elementi medievali-cavallereschi per subire sempre più l’influenza di Dragon Ball, con trasformazioni, tornei di arti marziali, personaggi che volano, aure energetiche. Lo stile dei disegni cambia radicalmente, diventando molto più moderno, più preciso, più personale, più ricco di dettagli, ancora più luminoso e ricco di stilemi anni novanta, e al contempo anche i colori usati nelle copertine e nelle illustrazioni del manga si fanno sempre più moderni, sempre più vivaci e accesi. I colori cupi, spenti e pesanti, le musiche epiche in stile medievale forse non sarebbero stati più adatti a rappresentare ciò che La grande avventura di Dai sarebbe diventato andando avanti, chissà.

 

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L’anime è comunque stato trasmesso in diversi paesi. In Spagna, in Francia e nei paesi arabi è praticamente un’istituzione ed è ancora amatissimo da moltissimi fan. In molti paesi esteri, è noto come “Fly”, nome che è stato dato al protagonista perché “Dai” (che, come rivelato dall’autore originale, in realtà viene dall’inglese “dinosaur”) suona come l’inglese “Die”.
In Italia, è stato dapprima trasmesso su JTV nel 1998, alternato alla prima serie di Dragon Ball, col titolo Dragon Quest. Oggi sappiamo che non è propriamente così, ma JTV lo pubblicizzava come “dallo stesso autore di Dragon Ball” e questa mezza verità è servita a catalizzare l’attenzione dei fan di Goku verso l’avventura di Dai. Su JTV le sigle erano quelle giapponesi, ma l’adattamento aveva comunque numerose modifiche rispetto all’originale, in primis i nomi dei personaggi quasi tutti cambiati. Dai è diventato Tom (e vi è andata bene che l’anime si è fermato prima e non avete dovuto arrampicarvi sugli specchi per motivare il nome “Tom”, quando poi nella storia viene spiegato il vero nome di Dai e perché il nonno gli ha dato proprio quello…), Pop è Daniel, Maam è Mara, Leona è Lilibeth, Gome è Dixie, nonno Brass è… nonno Ubaldo (perché ha la voce di Pietro Ubaldi?), Crocodyne è Drakon, Hyunkel è Nemesis, Flazzard è Raven (è un mostro mezzo fuoco e mezzo ghiaccio, non un corvo…), Zaboera è Zorax, Mystvearn è… Helios (proprio il nome più adatto per un uomo-ombra, no?). Dal momento che all’epoca non era uscito in Italia nessun gioco di Dragon Quest non c’era nessuna linea guida per adattare gli incantesimi e i nomi dei mostri: il manga, pubblicato da Star Comics dal 1997 al 2002, userà semplicemente quelli giapponesi, mentre la versione italiana dell’anime eliminerà i nomi delle magie o li sostituirà con nomi più banali come “Torcia di fuoco”, “Freccia di ghiaccio” o simili, ignorando in ogni caso il fatto che i vari tipi di magie hanno diversi nomi in base ai livelli di potenza. Il doppiaggio italiano è curato da Ivo De Palma (Seiya in Saint Seiya, Go in Aishite Knight), che dà anche la voce a Pop, ma nel cast ci sono anche Patrizio Prata (Dai), Alessandra Karpoff (Maam), Mario Zucca (Hadler), Claudio Moneta (Avan), Elisabetta Spinelli (Leona), Tony Fuochi (Crocodyne) e moltissime altre voci note del doppiaggio nostrano.

 

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Dopo la chiusura di JTV e la migrazione di molte serie trasmesse su reti minori o regionali su Mediaset, tra il maggio e il luglio 2002, pochissimo tempo dopo la fine della pubblicazione del manga in Italia (aprile 2002), la serie sbarca su Italia 1 come tappabuchi estivo tra un blocco di puntate e l’altro di Dragon Ball GT, dove viene ulteriormente modificata e censurata: vengono eliminati i riassunti ed effettuati numerosi tagli sulle scene più sanguinolente o sulle gag a sfondo sessuale e, cosa più importante, l’anime cambia titolo. Non più Dragon Quest come su JTV, anzi Dragon Quest non viene proprio più menzionato, su Mediaset la serie si chiamerà I cavalieri del drago, titolo probabilmente scelto per cavalcare l’onda di due serie allora trasmesse con successo su Italia 1, Dragon Ball e I cavalieri dello zodiaco. Le sigle giapponesi vengono sostituite da una canzone di Giorgio Vanni, a metà tra le ballate medievali e la musica da discoteca. Chi conosce la storia del manga lo sa bene, il titolo dato da Mediaset (e con esso il testo della sigla) non c’entra molto con La grande avventura di Dai, dove è presente sì il concetto di “cavalieri del drago” ma non si riferisce alla compagnia degli amici del protagonista come il testo della sigla lascia intendere.

 

 

All’epoca, Internet non era ancora così diffuso, non si sapeva che l’anime era stato interrotto in Giappone e si pensava che JTV non avesse comprato tutte le puntate mentre Mediaset sì, ma purtroppo non esistevano altre puntate oltre alla quarantaseiesima, nemmeno su Italia 1. “I cavalieri del drago” è quindi stato un semplice tappabuchi estivo, come lo erano stati o lo saranno poi Fancy Lala, Shin Hakkenden, Mikami, Power Stone o Fortune Quest. Il fatto che la storia si interrompesse sul più bello dopo una quarantina di puntate e che il manga nel frattempo era già finito (ritentarono una pubblicazione poco dopo, dal novembre 2002, sulla spinta della trasmissione su Italia 1, ma fallì e venne interrotta dopo poche uscite) non ha aiutato il successo della serie, che non è riuscita a lasciare troppo il segno, facendo finire La grande avventura di Dai nel dimenticatoio a parte una replica sul canale satellitare Italia Teen Television nel 2003.

 

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I fan hanno dovuto aspettare il 2020 per vedere sul piccolo schermo la continuazione dell’avventura di Dai. Da ottobre 2020, è, infatti, in corso di programmazione su Tv Tokyo un remake curato sempre da Toei, che sta adattando in maniera completa e fedele la storia del manga (la parte trasposta nel vecchio anime è già stata superata, adattata nella metà degli episodi rispetto alla vecchia serie) e probabilmente durerà un paio d’anni, visibile ogni settimana in versione sottotitolata su Crunchyroll. E’ uscita anche la Perfect Edition del manga (in Italia dal mese prossimo sempre per Star Comics), un manga spin off sul giovane Avan, due videogiochi più un terzo in arrivo, carte, figure, peluche, gashapon, capi di abbigliamento, accessori e un’infinità di merchandise.
La nuova serie, che adatta il manga in maniera completa, probabilmente renderà “inutile” il vecchio adattamento del 1991, ma non si scorda di omaggiarlo. Il regista Kazuya Karasawa, infatti, apre la nuova serie proprio con un romantico e graditissimo omaggio alla vecchia, storica, opening “Yuusha yo, isoge!”, anche se con uno stile totalmente diverso, molto più moderno e al passo coi tempi. Ma di questo riparleremo tra un anno, quanto finirà, nell’apposita sede. Qui festeggiamo il trentesimo anniversario dell’adattamento del 1991, che, con alterne fortune, si è meritato un piccolo posto nei nostri cuori, in molti casi facendoci conoscere uno dei classici del fantasy alla giapponese, sia pure nella sua versione “antipasto”. Se oggi siamo accaniti giocatori di Dragon Quest, se ci godiamo la nuova versione ogni sabato, se (come il sottoscritto) abbiamo amato il manga e i suoi personaggi da ragazzini e oggi abbiamo due edizioni in due lingue diverse del fumetto nella libreria, probabilmente il merito è di quella serie che ci ha appassionato nonostante l’aspetto tecnico non sempre brillante e un abominevole adattamento italiano. Ringraziamo perciò quella sigla iniziale, quei fulmini che illuminavano una testa di drago e quella melodia in stile medievale che, all’epoca non lo sapevamo, ma è talmente iconica che l’avremmo sentita pure alle Olimpiadi di Tokyo 2020, perché ci hanno aperto le porte per un’avventura che ci ha fatto sognare.

NOTE DELL'AUTORE

Ringrazio per le informazioni e il materiale i fan del gruppo Dai Hive su Twitter. Buona parte delle informazioni sono tratte dal fanbook dedicato alla serie, Jump Comics Perfect Book 1 - Dragon Quest: Dai no daibouken, uscito nel 1995 e inedito in Italia.