Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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“Lupin III: The First” è il decimo lungometraggio cinematografico della saga e francamente è quello che di gran lunga ho apprezzato meno. Non è stata tanto la scelta di realizzare interamente il film in CGI, che comunque toglie qualcosa al fascino originale dei personaggi, che a mio avviso ha condannato il film, quanto quella di voler raccontare un tipo di storia già vista milioni di volte all’interno di questo franchise senza la minima originalità.

Probabilmente, si è cercato di controbilanciare la novità del 3D con una trama tradizionale, semplice e lineare. Un obiettivo che chiaramente calza a pennello con l’intento di rivolgersi, con ovvie probabilità, ad un pubblico più ampio, che non necessariamente conosce il personaggio. Un film per famiglie quindi, che inevitabilmente, rivolgendosi a questo target, porta con sé diversi limiti narrativi e stilistici. Passare dalla trilogia di film diretti da Koike a questo è stata davvero una bella botta. Ma, nonostante tutto, anche con queste prerogative, credo che il film potesse essere più godibile di così.

Di certo non è il primo lungometraggio narrativamente modesto, per non dire povero, a essere prodotto su “Lupin”. Eppure, almeno per quanto riguarda i film cinematografici, credo che questo sia il primo a essermi risultato francamente noioso. Non basta un lato tecnico convincente per intrattenere, se la visione, oltre a essere tremendamente piena di cliché e soluzioni banali, è totalmente priva di umorismo e simpatia. I vecchi personaggi sembrano essere stati svuotati dal loro carattere storico, mentre quelli nuovi sono totalmente privi di fascino e carisma.

Per questo film non avevo aspettative allucinanti, ma non avevo neanche pregiudizi particolari in merito alla tecnica utilizzata. In fondo, “Lupin” si è sempre reinventato grazie a stili e character design che nel corso degli anni sono cambiati numerose volte. E la mia speranza rimane quella che questo possa essere stato il primo e l’ultimo esperimento in 3D, un tentativo che, legittimamente, voleva rivolgersi a un pubblico nuovo e più ampio. Ma a tutto questo bisognava affiancare una storia più interessante, dei personaggi più accattivanti e un umorismo più ricercato, perché, tolto l’apprezzabile lato tecnico, il film non brilla su nulla in particolare.

8.0/10
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Era da un po' che non mi guardavo un battle shonen puro, quindi ho rimediato guardando un'opera che sulla carta si presentava benissimo: tanta adrenalina corredata da battaglie dove i personaggi si cartellano come fabbri.

"Kengan Ashura", del 2019, ci parla della storia guerriera di Tokita Ouma, possente combattente che padroneggia un'arte marziale misteriosa, e di Kazuo Yamashita, un cinquantaseienne debole e remissivo che fa di tutto per compiacere i suoi superiori. Il loro fortuito incontro porterà Kazuo a scoprire dal suo capo, Nogi, che sin dal Giappone seicentesco si tramanda una particolare usanza: per risolvere dispute, affari o controversie di qualunque tipo, i mercanti e gli imprenditori giapponesi organizzano degli incontri di arti marziali, denominati "Kengan", nei quali fanno scontrare i migliori combattenti al mondo con in palio il prestigio delle compagnie coinvolte. L'obiettivo finale che Kazuo si prefigge, o meglio, che gli viene fatto prefiggere, è vincere il grande torneo Kengan tramite l'abilità di Tokita.

La premessa è molto semplice e simpaticamente astrusa, e ben spiega quello che l'opera è in cuor suo: botte ignoranti pure. Gli imprenditori si contendono la vincita per pura avidità, mentre i guerrieri, più spesso che altro, lo fanno semplicemente per dimostrare di essere i più forti al mondo o prendersi allegramente a cartoni con i loro avversari. Tali personaggi, infatti, sono perlopiù semplici, lineari e molto esagerati, ben riuscendo nel loro intento di essere comici e fomentare lo spettatore per le mazzate che vedrà in seguito. Su questo lato non c'è molto da dire, se non che Tokita sia il personaggio che più risalta rispetto agli altri. Bel plauso anche per Sekibayashi il wrestler e per Kaneda.

Il lato tecnico è uno di quelli più rari da trovare: sostanzialmente, l'anime è fatto quasi interamente da computer grafica, e solamente pochi personaggi di sfondo sono realizzati con l'animazione tradizionale, quasi l'inverso di ciò che si vede abitualmente. Il tutto è una indubbia ventata d'aria fresca, nonostante io non ne sia un grandissimo fan, complice soprattutto il tratto eccessivamente "pesante" con il quale molti personaggi sono disegnati. La sua unicità, però, riesce bene a sottolineare le animazioni e i movimenti che i combattenti compiono, rendendoli realistici, credibili e parecchio godibili. Le musiche mi sono piaciute e l'opening fomenta abbastanza. Storia diversa per l'ending, che mi ricorda troppo i tormentoni trap nostrani.

Anime del quale aspetterò la terza stagione e che consiglio a tutti coloro che cercano un'opera ricca di energia, adrenalina e un sacco di legnate.

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“Riesci a immaginare una vita dove non puoi toccare la tua amata neanche con un dito?
Nel linguaggio dei fiori, una rosa bianca appassita significa una promessa eterna”.

Poteva essere l’incipit di una storia drammatica e coinvolgente, invece si rivela il preambolo di qualcosa d’incompiuto, incompleto, a sprazzi irritante, a tratti deludente, nonostante la capacità di emozionare e addirittura commuovere in alcuni, sparuti frangenti.
In tutta onestà, il quadro generale non appare così negativo: tutto comincia con fondali acquarellati, un retrogusto di tenue pastello, un “falso gotico” cromaticamente deciso e marcato, avvolto da una notte di luna piena che viaggia su eleganti, malinconiche note di pianoforte che s’accingono a raccontarci una storia apparentemente onirica, quasi fiabesca, ma che verrà tremendamente sciupata da minuti e minuti di inutile, insopportabile fanservice.

Come preannunciato, i fondali sono davvero il pezzo forte del prodotto.
Suggestivi, trascinanti, ci portano all’interno della storia creando atmosfere magicamente attraenti, che andranno inevitabilmente a cozzare con l’appeal visivo dei personaggi (così come tutti gli oggetti presenti nella maggior parte dei primi piani), animati in grafica digitale 3D, quasi mai all’altezza della squisitezza artistica di ciò che li circonda; animazioni digitali incapaci di fondersi con l’ambiente tranne che in rarissimi casi, talvolta addirittura fastidiose nei loro movimenti innaturali, ripetitivi, burattineschi. Anche se non è tutto oro ciò che qui sembra luccicare, la valutazione totale per quanto riguarda il versante tecnico non è affatto una bocciatura: l’amalgama riesce per metà, ove il bicchiere mezzo vuoto si manifesta nell’inevitabile differenza tecnica sopracitata, a cui ci si abitua con qualche difficoltà, soprattutto nelle prime battute dell’anime.

Dopo un’opening smielata, anonima e piuttosto insulsa che fa da apripista a un incipit quasi incomprensibile nella sua strana (?) maliziosità, facciamo conoscenza con la famigerata “domestica diabolica”, che di diabolico non ha nulla a parte la surreale misura del seno: l’ennesima biondona maggiorata, estremamente mansueta, sub-accondiscendente in vesti maid dark-gotic (Alice il suo nome, ma che fantasia), quintessenza del fanservice sublimato allo stato puro, personaggio che pecca totalmente di originalità, sebbene risulti gradevole, simpatica e sproporzionata. Una sua funzione, ad ogni modo, Alice ce l’ha eccome: il protagonista (che non viene mai nominato per nome, se non come “signorino”/bocchan), avendo contratto una terribile maledizione a causa di una strega per cui ogni cosa vivente che tocca finisce per morire deperendo all’istante (agghiacciante!), si è imposto di evitare ogni contatto fisico con qualsiasi creatura che lo circondi; compito funesto sarà dover evitare anche solo di sfiorare la morbida e prosperosa domestica, il tutto in un susseguirsi di gag talmente banali e scontate che, sebbene inizialmente possano strappare un paio di sorrisi, a lungo andare risulteranno noiose, fino a risultare decisamente irritanti.
La cosa (davvero) buffa è che Alice conosce benissimo codesta maledizione, e sa che potrebbe morire all’istante se venisse sfiorata dal signorino, eppure, sfrontatamente, incoscientemente - e, diciamolo, stupidamente -, provoca con costante malizia e con ogni metodo possibile il giovine altolocato, che, guidato da fiera rettitudine, combattendo a spada tratta i propri ormoni che suggeriscono ben altro, tiene coraggiosamente a distanza la domestica tentatrice. Spregiudicata, scriteriata e incosciente nell’avvicinarsi spesso e troppo al suo volto: Alice sembra fregarsene. Questo, chiaramente, ci fa sorgere più di un dubbio... la procace bionda ci fa, ci è, o c’è qualcosa che non sappiamo?
Nonostante un inizio blando e ricco di humor da quattro soldi, nella seconda metà del primo episodio l’atmosfera generale riesce a cambiare radicalmente faccia, con un improvviso risvolto abbastanza drammatico (!) e, perché no, malinconico, tanto da riportare l’attenzione dello spettatore sui giusti binari.

Se si osserva il tutto da un punto di vista più realistico e coerente, elementi come lo struggersi del signorino a causa della solitudine, le atmosfere alla “Edward mani di forbice”, il dilemma del porcospino - inevitabile e non voluto -, il chiudersi a riccio desiderando amore ma pungendo involontariamente chiunque abbia l’ardire di avvicinarsi, riescono a rendere più corposo, tangibile e drammatico lo strazio della suddetta maledizione: “non potrai amare né essere amato, nessuno potrai toccare e nessuno ti toccherà mai più”.
Avete mai pensato a quanto possa essere crudele dover rinunciare a qualsiasi contatto umano? Rinunciare al calore delle persone, al tocco, sia confortevole sia violento che divertente; come si può trascorrere una vita totalmente isolata da qualsiasi contatto coi propri simili o con tutto ciò che è caldo e vivo?
Quanto può essere orrendo vedere morire e appassire ogni cosa che si sfiori?
Il signorino è innamorato di Alice, pare evidente sin da subito. Presentata come una storia frivola e dedicata solo a strappare sorrisi di plastica con sequenze comiche di dubbia qualità, in realtà la serie nasconde ottime potenzialità che purtroppo non vengono quasi mai a galla, ma che incuriosiscono sin da subito e potrebbero invogliare a conoscerne il seguito.

Ambientata in un tardo milleottocento e accompagnata da una colonna sonora quasi completamente composta al pianoforte (strumento di cui il signorino è fine conoscitore), la trama si sviluppa con molta, troppa lentezza, mentre l’occhio, con pazienza, riesce ad ammorbidire il contrasto estetico fra animazioni digitali e fondali dark-naif, facendo risultare il connubio più accettabile con il trascorrere degli episodi. Lo stesso accade (fortunatamente) per lo svolgersi degli eventi, che, sebbene vengano odiosamente centellinati - dapprima un collage di battute da Zelig di seconda serata, banali, a tratti “cringe” -, emergono in ogni episodio, sempre più importanti, perni di narrazione che ci faranno comprendere il vero quadro della situazione.

Altra componente fondamentale e positiva del prodotto è l’introduzione di personaggi secondari decisamente riusciti e calamitanti - il maggiordomo Rob, Caph la strega e il suo compagno, per non parlare dei familiari del signorino, elementi discordanti, confusionari e molto importanti ai fini dell’intreccio.
Col passare degli episodi il livello migliora lentamente, e tutto assume un senso quantomeno più realistico (non del tutto, purtroppo: quanto rischiano le persone vicine al signorino? Consapevoli di quanto sia letale, si vuole costantemente giocare con la questione dello sfiorarsi, evitarsi all’ultimo, ma che senso ha forzare continuamente la mano su questo elemento? Che sciocchezza!). Accettiamo quindi di buon cuore d’assistere a una commedia romantica dai contorni fra il paranormale e il goliardico, e questo può anche andarci bene, ma, ragionando per fredda logica, chi mai rischierebbe davvero la vita in questo sciocco modo? Basterebbe inciampare, un movimento sbagliato, uno starnuto, un sussulto, e sarebbe tragedia. Non c’è niente di logico in una rappresentazione simile, né tantomeno realistico e istintivo, ma, in fondo, “Shinigami Bocchan no Kuro Maid” gioca volutamente su questi elementi per comunicarci un messaggio importante: si tratta di una grande metafora che suggerisce di non temere chi ci spaventa, di non allontanare chi è già emarginato, di dare una possibilità alle persone di cui non ci fidiamo. Non sempre il gesto deve venire dal prossimo, e sforzarsi di andare incontro a qualcuno non significa certo penalizzarsi o sminuirsi. Sono tematiche piuttosto chiare sin da subito, e che l’anime mette in atto soprattutto quando il signorino deve avere a che fare con la madre, figura egoista, severa e spietata, simbolo di quelle famiglie antiche, algide e integerrime, preistoria sociale rispetto al pensiero moderno comune.

Grazie a tali spunti decisamente interessanti la trama potrebbe finalmente decollare, invece l’aeroplano del signorino non prende mai il volo come vorremmo. L’immensa, eccessiva, inutile dose di fanservice pervade ogni cosa, si trascina noiosamente lungo tutta la serie e, nonostante la seconda metà (e soprattutto la fine) siano profondi e quasi commoventi, regalandoci un intreccio più solido e continuativo, le secchiate di umorismo scontato, ripetitivo e imbarazzante continuano senza sosta, lasciando troppo poco spazio a ciò che avremmo invece voluto sentire e vedere, cercare di capire.
Così, a conti fatti, dopo dodici episodi ad osservare lo strabordante seno digitale di Alice rimbalzare in modi fisicamente improbabili, ci si rende conto che sarebbe stato meglio dare molto più spazio alla risoluzione di diversi nodi di trama invece che ripetere decine di volte le solite, odiosissime gag pseudo-comiche. Tirando rapidamente le somme, la prima stagione finisce con un pugno di mosche, oltre che a qualche informazione decisamente importante e un paio di momenti molto toccanti, ma nulla più.

È chiaro che “Shinigami Bocchan no Kuro Maid” sia stato strutturato volutamente in questa maniera, e proprio per tale scelta narrativa, più che rammaricarmi per il poco spazio che i risvolti di trama riescono a trovare, mi scopro irritato e deluso, come se avessi perso metà del tempo di ogni episodio ad aspettare qualcosa di significativo.
Spesso, le scene più attese sono i camei post credit (non perdeteli, se decidete di vederlo), clip che divertono e, qualche volta, sorprendono o fanno riflettere.
Il finale possiede un bel crescendo dove si concentrano gli sparuti, essenziali elementi, rilevanti e sicuramente più intriganti di tutti i precedenti episodi. Siccome il plot è improntato su un ritmo tragicomico a tratti fra l’ecchi e il trash, non viene praticamente quasi mai sfruttato il fatto di quanto la maledizione del signorino sia potenzialmente, mostruosamente pericolosa e spaventosa. Lo si intuisce, ma mai viene esposta in modo davvero realistico: ci sarebbero decine di spunti per mettere in atto idee che possano creare situazioni di tensione assoluta, ma così come da copione si preferisce estrarre dal cilindro (del signorino?) una commediola irretita da una sotto-trama quasi-seria che penalizza l’eccellente idea di base.
La mia impressione finale è che tramite una condotta più seria e matura probabilmente saremmo di fronte a qualcosa di memorabile. I flashback degli episodi centrali racchiudono proprio questo genere di sensazioni, e infatti risultano i più affascinanti e coinvolgenti.
Su tali basi, non sentirò la mancanza della seconda stagione, né sarò interessato a conoscerne gli esiti.