Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

7.0/10
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«Shadows House» è un anime, tratto da un manga scritto e disegnato da Somato, animato dallo studio CloverWorks, fiabesco e misterioso, capace di incuriosire lo spettatore sin dalla prima scena.

Emilico, una bambola vivente, è una goffa cameriera al servizio di una particolare nobile appartenente a un casata misteriosa e oscura nel vero senso del termine. I loro volti sono celati, simili a ombre emettono fuliggine senza volerlo, il semplice tocco delle loro mani sporca ogni cosa. Quando sono turbati, l’emissione si amplifica, per questo a ogni nobile è stata assegnata una particolare cameriera, un oggetto dalle fattezze umane. Potrebbero danneggiarsi, anche rompersi, venendo facilmente sostituite, l’importante è la loro assoluta devozione al proprio padrone.

Emilico fa del suo meglio per servire l’elegante Kate, nobile anche nei suoi atteggiamenti. La ragazza, nata, sembrerebbe da pochi giorni, non conosce nulla del mondo, stupendosi di fronte a cose elementari e ignorando elementi basilari. Kate con molta pazienza le insegna a leggere e altro, stringendo lentamente un legame con la sua bambola, trovandola divertente e solare, mentre Emilico sogna di diventare la migliore bambola vivente.

“Le bambole viventi che non si mostrano devote saranno eliminate.”

La fisionomia delle bambole è identica a quella del loro padrone. Bisogna convenire sulla bravura del loro creatore, una tale somiglianza è un’opera d’arte. Costituiscono i loro volti, devono imitarle nei movimenti ogni qual volta si mostrano in pubblico e devono mimare l’espressione del loro padrone. Tale affinità è talmente importante, da costituire un elemento insostituibile per diventare adulti. Stranamente infatti i tanti volti e nobili sono tutti bambini, non ci sono adulti; per quanto capaci di governarsi autonomamente, questa loro assenza fa insospettire: dove sono i genitori di tutte queste ombre? Tutti questi ragazzi non sono imparentati tra loro? Gli adulti non vengono mai a far loro visita? Certo, il tutto potrebbe anche costituire una critica sociale, ai tanti genitori convinti di poter venire sostituiti dai soldi, dal potere, eppure è qualcosa di diverso.

Ma queste domande, per quanto lecite, ci distraggono dal quesito più importante: perché i nobili sono ombre?

L’ombra sembra spostarsi dai nobili allo spettatore: rimanendo intrappolato in questa oscurità, cerca di comprendere cosa la foschia sta coprendo, quale sia la verità celata ai nostri occhi, e con il tempo grazie a indizi e colpi di scena qualcosa si scopre, diverse cose si intuiscono, diventando alla fine tutto più chiaro e, forse, spaventoso.

I pensieri superflui delle bambole vengono malvisti dai nobili. Non si deve pensare con la propria testa, del resto una bambola non dovrebbe neanche pensare. Cosa viene interpretato come superfluo? Ogni pensiero non riguardante il nobile a cui devono obbedienza, di conseguenza diventa difficile per lo spettatore comprendere anche un qualcosa di semplice non mostrato direttamente nello schermo, portando ad accettare passivamente quanto gli viene mostrato, portando oltre lo schermo quel sinistro ordine. Per fortuna, saranno tanti quei pensieri e nessuno di essi sarà superfluo.

Gli adulti faranno infine le loro comparsa solo, sembrerebbe, per complicare la vita a Kate. Normalmente gli adulti dovrebbero pensare solo al bene dei bambini, educarli senza essere troppo severi, eppure l'utilizzo di metodi spartani fa solo crescere dubbi e timori nello spettatore, mostrandogli pensieri e punti di vista di cui i bambini sono completamente ignari. Cosa vogliono realmente gli adulti dai bambini? Quante domande superflue, qualcuno direbbe.

La regia è impeccabile nel trasmettere un leggero senso di inquietudine e quell’aria misteriosa allo spettatore. La qualità delle animazioni, curate da CloverWorks (“The Promised Neverland”, “Wonder Egg Priority”, “My Dress-Up Darling”), sono generalmente di buon livello, come del resto tutto il comparto grafico. La visione della serie è permessa a chiunque, non essendoci particolari scene violente. Il comparto musicale è allineato, fornendo una colonna sonora adeguata. La sigla iniziale strumentale è semplice e d’impatto, mentre la sigla di chiusura, “Nai Nai “di ReoNa, è pura magia. Lato doppiaggio, brava Akari Kitō (Nezuko Kamado in “Demon Slayer”) nell’interpretare Kate.

Emilico può, nel suo essere sempre allegra, risultare non piacevole come personaggio, mentre la misteriosa Kate risulta caratterizzata alla perfezione. Tra gli altri personaggi spicca il nobile John, dal carattere aperto e solare, con la sua bambola astuta Shaun, mentre l’austera Barbara con la bambola Barbie sembra nascondere qualcosa. Lou potrà catturare la simpatia di molti. Edward, per colpa soprattutto delle parti aggiunte rispetto all'originale, non convince come dovrebbe.

Il finale, non canonico e non potendo finire con il colpo di scena del decimo episodio, potrebbe risultare deludente e di minor impatto rispetto a quanto visto in precedenza. Un personaggio è stato completamente censurato in questa serie, per poi essere ripreso nella successiva parte.

Serie consigliata a chi si vuole lasciare trascinare e cullare dall'aria misteriosa di una serie d'effetto.

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E con "L’impero dei cadaveri” ho terminato la visione della trilogia di anime ispirati alle opere di Project Itoh... e meno male che l’ho visto per ultimo (rispettando l’ordine di pubblicazione delle novel e non dell’uscita dei film), altrimenti mi sarei posto qualche domanda sull’opportunità di visionare anche “L’organo genocida” e “Harmony”.

Il film si ispira a “Shisha no Teikoku” (“L’impero dei cadaveri”), opera rimasta incompiuta per la morte nel 2009 dello scrittore Project Itoh (pseudonimo di Satoshi Itō) e pubblicata postuma nel 2012 a seguito del completamento da parte dello scrittore Toh Enjoe, amico e collaboratore di Itoh. La novel ha ricevuto anche un premio.
Purtroppo non ho avuto modo di leggere la novel, ma, dopo due ore del film d’animazione, sarei curioso di capire dove è arrivato nella stesura Itoh e cosa ha aggiunto e modificato/integrato il collega Enjoe...

In effetti, il film sembra essere diviso in due parti: fino alla missione in Afghanistan mi sembra di riconoscere ancora un po’ l’impronta di Itoh, poi dal Giappone e dagli USA il film vira su uno stile che non ho riscontrato né ne “L’organo genocida” né in “Harmony”, rendendo l’anime assimilabile a una sorta di “fantasy” un po’ dark, cui aggiungerei la valutazione di “senza né capo né coda”.

L’opera trova la sua ambientazione temporale nel XIX secolo. L’umanità, grazie alle ricerche del dottor Victor Frankenstein (prima citazione), ha trovato il modo di resuscitare i cadaveri su larga scala, con una “piccola” criticità: il cadavere è risvegliato, ma non ha una vera e propria coscienza né recupera con il risveglio quella del defunto, restando una sorta di “zombie” (nelle fattezze e nei modi di comportarsi/agire) o automa che esegue gli ordini impartiti dagli umani vivi. Giusto per intendersi, sono molto simili per movenze e attività a quelli di “Resident Evil”, eccezion fatta per l’istinto omicida instillato dal virus.
I cadaveri sono sfruttati dai viventi come lavoratori in ogni compito (soprattutto quelli più gravosi), come soldati, oppure come semplici schiavi e assistenti. A pensarci bene sarebbe un mondo molto “inquietante”: passeggiare per strada, andare in un ristorante, ecc. ed essere circondati da cadaveri che eseguono le attività, ti servono da bere e mangiare, ecc. Nel film il tutto sembra essere molto “normale”: gli umani vivi si sono assuefatti a questa realtà e cercano di sfruttarla al massimo, senza neanche troppi scrupoli.
Il cruccio di un ricercatore/scienziato inglese di nome John Watson (seconda citazione dell’opera) è quello di scoprire come recuperare gli appunti del dott. V. Frankestein, per poter risvegliare i cadaveri dotandoli di un’autonoma coscienza o, meglio, di far recuperare la loro anima originale.
Non entrando nei dettagli tecnici (ad onor del vero quello che si vede nel film è oggettivamente inspiegabile e insostenibile da un punto di vista puramente scientifico), Watson recupera il cadavere dell’amico/socio di studi appena deceduto per malattia, per sperimentare e approfondire i suoi studi, anche per recuperare la sua anima. Peccato che il governo inglese lo scopra e lo obblighi a diventare una spia, per recuperare in Afghanistan gli appunti originali del barone Frankenstein.

Il film fino al viaggio in Afghanistan è comunque “itohiano”: lento, riflessivo, con qualche spunto d’azione, ma incentrato sul tema della morte e della volontà dell’essere umano di superarla ad ogni modo (e in questa opera, anziché puntare sull’estensione della vita degli esseri viventi, si concentra sulla possibilità di superare la morte, dopo che questa sia avvenuta), con tutti i problemi etici del caso, incluso lo sfruttamento indiscriminato dei cadaveri nella società.

Rispetto al romanzo di Mary Shelley mancano molte riflessioni sul rapporto uomo vivente/creatore e cadavere resuscitato, che rappresenta il "backbone” del capolavoro della scrittrice inglese fino al tragico epilogo.
Resta solo il “delirio” di onnipotenza dell’uomo (e anche del protagonista Watson) di trovare il modo di portare a compimento il risveglio della coscienza (o dell’anima) con l’aggiunta della teoria dei “21 grammi” di Duncan MacDougall che, richiamata nel film, è anche un falso storico, perché diffusasi solo nei primi anni del ‘900 (quindi successiva all’ambientazione storica dell’anime...)

Se poi l’amico defunto e resuscitato viene chiamato “Friday” (in onore di Robinson Crusoe), lo scienziato russo del film si chiama Alexei Karamazov (“I fratelli Karamazov”, opera di Fëdor Dostoevskij), la creatura resuscitata da V. Frankestein si chiama “The One”, più alcuni personaggi reali come Frederick Barnaby, Seigo Yamazawa, T. Edison e Ulysses S. Grant, il citazionismo dell’autore si dimostra sterile e fine a sé stesso.

Cito per ultimo il personaggio di Lilith Hadary, avvenente “bambola meccanica” che aggiunge anche un po’ di buon fanservice alla trama (in “Harmony” devo riconoscere che le due protagoniste non erano da meno, anche se in quest'ultimo caso il fanservice è stato utilizzato in modo un po’ più “furbo”...), ma sentirla in un dialogo del film con Watson (che sembra apprezzarla molto...) “triste perché non ha un’anima e non riesce a provare emozioni” è francamente “troppo” per un film che doveva aver ben altro spessore...

“L’impero dei cadaveri” è per me la classica occasione sprecata: l’anime sembra eccellere esclusivamente nel comparto tecnico e nelle scene d’azione. La trama mi è risultata francamente incomprensibile e assolutamente insufficiente dal punto di vista del significato e della riflessione.

Senza ‘spoilerare’ la seconda parte del film (la più insulsa), lascio al potenziale spettatore la decisione se provare a dedicare due ore della propria risorsa più preziosa (il tempo) alla visione dell’anime.

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“Junji Itō Maniac: Japanese Tales of the Macabre”: una spaventosa delusione.

Maniac è una raccolta antologica di racconti autoconclusivi provenienti dalla penna del celebre autore dell’orrido Junji Itō.
Se dovessi scegliere una parola per descrivere la serie nel suo complesso, direi “altalenante”. Durante la visione dell’opera, passiamo da storie che, tutto sommato, sono buone e hanno davvero il potere di mettere inquietudine nello spettatore, ad altre che sono una vera e propria perdita di tempo.
Giudico così aspramente alcuni episodi della serie poiché questi non sono stati in grado di lasciarmi alcuna emozione dopo averli conclusi. Il massimo che mi suscitavano era noia e tedio. Questi racconti hanno come unico pregio quello di far risaltare gli episodi meno mediocri rendendoli, almeno, accettabili.
Per carità, non voglio criticare così duramente tutte le puntate. Ci sono quei “pochi, ma buoni”, che vorrei salvare e giudicare positivamente. Il problema è che, appunto, sono pochi. Ad ora, dopo una settimana dalla conclusione della mia visione della serie, ricordo piacevolmente solo due o tre racconti su una ventina totale. La proporzione è gravemente insufficiente. Ovviamente, mi faccio scudo dietro la giustificazione che tutto questo è un mio parere personale, ma, anche vedendoli in modo oggettivo, presentano dei problemi non trascurabili.

Dopo aver criticato finora questa serie, vorrei spezzare una lancia a suo favore. Credo sia davvero difficile portare un adattamento di opere a tema horror. Ci sono pochi esempi, che io abbia visto, che siano riusciti a fare un lavoro ineccepibile. Detto questo, anche non essendo un fan del genere, il minimo che mi aspettavo da una serie tratta dagli scritti di Itō era qualcosa di spaventoso. Ma il massimo che mi ha fatto provare è stata una forte inquietudine, non per la storia in sé, quanto per le movenze e l’aspetto grottesco di modelli in computer grafica raccapriccianti. Mi hanno fatto gelare il sangue sì, ma perché fatti così male da fare il giro diventando spaventosi.

Proseguendo, parlando sempre del comparto tecnico: le animazioni e la grafica sono un pugno nell’occhio. I primi episodi faticavo proprio a guardarli. Ho già criticato i pessimi modelli in CGI, ma anche le animazioni in due dimensioni non sono salvabili, legnose e trite, minano il, già fragile, andamento dell’opera. Superato lo scoglio iniziale diciamo che è sopportabile, di sicuro non ho portato avanti la visione della serie per il comparto visivo, ma per la narrazione magnetica di alcune storie.

Quindi, spostandoci sulla parte delle trame dei diversi racconti, ammetto che spesso mi sono fatto rapire dall’aria di mistero e dal setting ansiogeno, e straniante, che ti catapultano nel sinistro universo narrativo dell’autore.
Tuttavia, sono costretto a portare alla luce uno dei problemi più sentiti -per me- durante la visione. Ovvero, il grandissimo potenziale inespresso di alcune storie. In pratica, non appena il racconto era ben strutturato e pensavo si entrasse nel clou della narrazione, al contrario, questo si concludeva. Lasciandomi una sensazione come di aver mollato a metà l’episodio. Un impressione di interruzione più che di vero finale. Come se tutti i pezzi di un puzzle iniziassero a combaciare, per poi buttare via tutto prima di vedere l’immagine nel suo insieme. Fastidioso. Per fortuna non tutte le storie hanno questo problema, ma è un aspetto che non ho sopportato della serie e sul quale non riesco a transigere da spettatore. Non so se sia una scelta stilistica dell’autore ma, se è così, non la condivido.

Tirando le somme, questa serie non è stata in grado di soddisfare le mie, forse troppo alte, aspettative per la maggior parte dell’antologia. Sì, alcuni episodi sono riusciti a sorprendermi e intrattenermi, ma, sfortunatamente, questi sono ben pochi rispetto a quelli che mi hanno fatto storcere il naso.
Seppur conoscendo per fama la nomea dell’autore dell’orrido Junji Itō, non ho mai avuto occasione di leggere un suo lavoro. Ahimè, questo primo approccio al suo universo narrativo, mi ha lasciato un sapore amaro.
Credo che, la prossima volta che vorrò provare ad avvicinarmi ai suoi lavori, opterò per una versione scritta. Così da capire se questa serie sia o meno un caso di adattamento mal riuscito di opere che danno il loro meglio in originale.

In conclusione, non mi sento di consigliare la visione di quest’opera.