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Quando un’opera delude profondamente chi è affezionato all’universo di cui essa fa parte è difficile trarne le dovute conclusioni. Ancora più doloroso è dovere ammettere che di quella stessa opera le cose da dimenticare sono molto più numerose di quelle da ricordare.
È questo, per chi scrive, il caso di Maetel Legend, un bis di OAV usciti nel 2000 e nel 2001. Un soggetto pieno di tante potenzialità distrutto dalla bufera di un budget scarso, dalla fretta della produzione, dalla qualità scadente che ne è risultata.

Il tutto si ripercuote su un impianto narrativo che la sola conduzione di Matsumoto avrebbe reso eccelso. Ma purtroppo il maestro si sofferma al solo soggetto, segnando con questa scelta la sfortuna dell’opera.
Cosa resta allo spettatore? Ben poco. La linea discendente della produzione cinematografica e OAV su Galaxy Express non garantisce la giusta profondità a tematiche fin troppo complesse. Una complessità mortificata qui dalla mancanza di coerenza, da una conduzione della trama pessima, da ripetizioni inutili, da momenti morti, da assenza di vera riflessione.
Vuoti sono i dialoghi, segnati da una monotonia che punta sulla sofferenza della condizione dell’uomo, dell’impotenza del suo corpo <i>“fatto di carne e sangue”</i>. Sì, sono queste le parole, sempre uguali, con cui si possono riassumere tutte le frasi che i protagonisti pronunciano nei due OAV.

L’approfondimento caratteriale è appena abbozzato, soprattutto nella regina madre Promethium, nel suo continuo oscillare tra la durezza d’acciaio di una macchina e la dolcezza di un cuore materno. Peccato che non si capisca per nulla la risolutezza della decisione della regina di meccanizzare il suo corpo, che si contrappone decisamente per coerenza alla sua titubanza posteriore. La sofferenza di una regina nella decisione di rinunciare per sempre ai sentimenti umani viene dimenticata nel momento in cui in maniera ingiustificata appare così crudele, così risoluta con le sue figlie. Il motivo è uno solo: economia tempistica. I tempi di un OAV stringono, gli OAV che si possono fare sono solo due, per cui non si può dare spazio a tutto. Risultato? Se si perde un anello si perdono tutti gli altri e l’intero prodotto diventa il simbolo della superficialità, la beffa peggiore, vista la tematica profonda del soggetto.

Personaggi che nelle opere cartacee di Matsumoto avevano avuto sempre una forte personalità qui diventano dei manichini blateranti, i cui sentimenti vengono resi in maniera così superflua, automatica, ridicola, scialba, da sembrare il massimo della finzione. Esmeralda è la vittima di questo meccanismo di appiattimento caratteriale: le resta solo un po’ di temerarietà, ma la complessità interiore, che ne fa uno dei personaggi più introversi e misteriosi di Matsumoto, viene dimenticata, così come non viene esplorato neanche uno dei fili conduttori che porteranno alla sua decisione di vagare per sempre nell’universo.
Maetel è l’unica il cui animo viene esplorato nelle sue pieghe più intime, ma la superficialità del prodotto la rende infine una triste nota stonata nella cacofonia dei vani personaggi dell’opera. Piattezza, sciatteria, banalità: è ciò che caratterizza la narrazione delle vicende. Non di più. La sensazione che se ricava è quella della presa in giro, seguita dallo sconforto della consapevolezza che il miraggio del business finisce per rovinare grandi progetti.

Il comparto tecnico si attesta su livelli davvero mediocri. A confronto i vecchi lungometraggi del ’79 e dell’81 sembrano opere verdissime.
Si parte da una regia dai ritmi completamente fuori sincrono con la velocità della narrazione, che giustappone scene in modo meccanico e automatico senza quel minimo di fluidità e di lentezza che ci si aspetterebbe da opere complesse.
Due OAV sono poca cosa, quello che vi si può narrare è veramente esiguo. L’impressione di esiguità aumenta se le scelte registiche, opera di Kazuyoshi Yokota, vanno per ritmi convulsi e immotivatamente accelerati. La poca profondità dei contenuti finisce così per svanire del tutto. Tralasciamo anche i fotogrammi ripetuti fino all’esaurimento, che finiscono per saturare la già snervata memoria dello spettatore.

La fotografia non è per niente eccellente. Colori elementari lasciano il posto a poche sfumature nei fondali dei paesaggi innevati di Lamethal. Sono totalmente assenti le diverse tonalità delle nevi del pianeta. È altrettanto elementare e superflua la resa dei vortici gravitazionali dei pianeti nelle scene di raccordo.

Le animazioni, di Shimazu Ikuo, sono altalenanti, ma in generale sono mediocri anch’esse: spesso i movimenti sono a scatti, ripetuti, stereotipati.
Una nota ancora più dolente riguarda il chara-design, opera dello stesso Ikuo: il tratto di Matsumoto viene “caricaturizzato” accentuandone in maniera eccessiva le peculiarità, fino a farle apparire come difetti inguardabili e inaccettabili. Gli occhi espressivi, raffinati, barocchi, diventano enormi trapezi, spesso strabici. Le teste hanno una forma conica, troppo vicina alla geometria. Le bocche sono totalmente attaccate a nasi spropositati che non sono il massimo dell’eleganza. Come non denunciare infine la scomparsa dei longilinei e filiformi corpi femminili di Matsumoto? La loro linea aggraziata ed elegante lascia il posto a linee grosse, tozze, per corpi tarchiati, irriconoscibili.

Le musiche, di Amano Masamichi, segnano un altro punto a sfavore dell’opera, rendendola definitivamente ridicola. Il titolo parla di un poema sinfonico in due atti. Dove sta la sinfonia? Una sinfonia è connotata dalla varietà di temi musicali, varietà che il primo OAV non ha minimamente, caratterizzato com’è da temi monotoni, ricorrenti fino alla nausea e spesso inappropriati alle situazioni narrate. Peccano di eccessiva maestosità, sconfinando in un ensemble musicale esuberante e fuori luogo, troppo pompato. L’unica eccezione la costituisce l’ending conclusiva, <i>“Eternally”</i>. Lo spettatore al suo ascolto e alla bellezza delle immagini può finalmente rinfrancarsi, e perché la sofferenza è finalmente conclusa e perché la bellezza dei violini, degli strumenti a corde, la ricchezza delle melodie di questo pezzo è unica. Intensità, passione, trasporto, vitalità, travolgimento insistono in questa ending come non hanno fatto negli OAV, lasciando l’amaro in bocca per cosa quest’opera avrebbe potuto essere se solo fosse stata realizzata per come si deve.

È con grande rammarico che si può pensare a questi OAV. Il rammarico di chi si sente preso in giro, di chi si aspetta grandi promesse e si ritrova solo una parvenza trasparente dell’inutilità cui certi temi possono essere ridotti. Un quattro esprime la delusione cocente di chi si aspettava la narrazione definitiva e degna della storia di un personaggio del calibro di Maetel.