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Dopo il potente conflitto di "Phantom Blood", il bagno di testosterone di "Battle Tendency" e il cambio di carte in tavola operato in "Stardust Crusaders" l'aggettivo "bizzarro" trova in "Diamond is Unbreakable" la sua effettiva accezione grazie a un setting tutt'altro che mondano e a un Jojo decisamente più Mezzosangue - per utilizzare un termine potteriano - che Übermensch. Handicap o risorse? Da autore Hirohiko Araki, presumibilmente in overdose da "Twin Peaks", le ha senza dubbio intese in quest'ultima maniera, ma dal punto di vista del lettore la verità sta nel mezzo.

Avete presente cosa si dice sul fatto che ad ogni battito di farfalla corrisponda un terremoto dall'altro lato del mondo? Chiamiamo la farfalla in questione Josuke Higashikata e facciamola svolazzare con il suo tronfio pompadour lungo le strade una sonnolenta cittadina giapponese di fine ventesimo secolo di nome Morioh-cho (o Duwang, per i cultori del relativo meme). Fatto? Adesso aspettiamo pazientemente che da New York giunga l'eco di uno psicodramma off-panel. Eh sì, perché si dà il caso che questo ragazzo altrimenti come tutti gli altri sia un Joestar per parte di padre, cortesia di Joseph che, in barba alla sua non più verde età, ha avuto un affaruccio extraconiugale dalle conseguenze non preconizzate (Joseph. Che non preconizza. Brutta bestia davvero, 'sta vecchiaia.). E chi dice Joestar, si sa, dice rogne. Nella fattispecie la rogna di Josuke è Crazy Diamond, uno Stand capace di riportare un oggetto o anche il materiale con cui è fatto al suo stato originale, nonché di guarire le altrui ferite.
Ma Joseph è troppo vecchio e malandato per sobbarcarsi il lungo viaggio dall'America al Giappone e incontrare per la prima volta il figlio, della cui esistenza ha appreso solamente di recente. L'onere di mettere una pezza sulla faccenda (e di avvertirlo circa la proverbiale tendenza dei Joestar a finire nei guai) ricade quindi su Jotaro, che nel corso del suo soggiorno a Morioh scoprirà un'abnorme concentrazione di portatori di Stand in quella specifica area geografica con tutti i rischi che questo comporta.

Giustamente a un ragazzino che legge "Jump" di gente che fa le corna ad altra gente non potrebbe importargliene di meno (con buona pace del character development, che si nutre anche di queste piccole trivialità), perciò è normale che la premessa ci venga soltanto raccontata. Di qui a sorbirsi senza colpo ferire due capitoli di info-rigurgito selvaggio, tuttavia (peraltro in gran parte per bocca di Jotaro, che in tutto "Stardust Crusaders" avrà detto sì e no un ottavo delle parole pronunciate in questa sede), un cicinin dovrebbe correrci. Che poi nemmeno il buon Smokey era riuscito a sbocconcellare così tante informazioni con altrettanta rapidità, e lui aveva Speedwagon l'Impiccione a svelare gli altarini.
Archiviata la questione degli scomodi natali di Josuke il manga entra a passo elastico e noncurante nella consueta modalità "Let's get dangerous", ma a differenza delle serie precedenti del Big Bad nemmeno l'ombra fino a metà inoltrata. Lasciarsi trascinare dalla corrente assieme a Josuke e compagni (il piccolo ma coraggioso Koichi Hirose, il bietolone Okuyasu, l'asociale mangaka Rohan Kishibe e altri) è sorprendentemente piacevole, ciononostante si ravvisa la mancanza di uno scopo, di una direzione - in altre parole, di un fronte comune a tutti questi individui che in circostanze normali non avrebbero alcunché da spartire gli uni con gli altri.

La diretta conseguenza di una tale vaghezza d'intenti è, come facilmente intuibile, uno scavo introspettivo piuttosto ondivago. A difesa del Mezzosangue Josuke, tuttavia, va detto che il modello di protagonista tutto bicipiti e sani principî alla "Hokuto no Ken" era ormai incompatibile con quella che era la linea editoriale di "Jump" dell'epoca, e che pertanto un confronto con i suoi predecessori va fatto, se proprio se ne sente l'esigenza, il più oziosamente possibile. Volete un Jojo gentiluomo? Tornate indietro di tre caselle. Volete un Jojo guascone? Beccatevi Joseph (e armatevi di guinzaglio non allungabile nel caso lo vinciate come marito alla grande lotteria della vita). Volete un Jojo già pronto all'uso? Voilà Jotaro. Josuke è il Jojo della porta accanto, e non c'è nulla di sbagliato in questo giacché "normale" - per quanto qualcosa in questa saga possa essere considerato tale - non è sinonimo di "noioso". È perbene ma non perbenista, ottimista ma non ottuso, vanitoso ma non del tutto vano; è intelligente ma non lo ostenta; pecca di materialismo ma non lo fa con cattiveria; ha come tutti simpatie e antipatie a pelle ma si sforza di capire le ragioni di chi gli sta davanti - tutte qualità che sulla carta possono sembrare scontate, ma che "in-universe" trovano un riscontro più che plausibile. Il problema, semmai, è che rapportato ad altri comprimari questo suo essere così alla mano lo appiattisce non poco. Si pensi ad esempio all'incredibile evoluzione da sfigatello a coniglio ruggente di Koichi, al mix di misantropia e utilitarismo - talvolta colpevole - che caratterizza Rohan, ai turbamenti della bellissima e terribile Yukako, all'irrisolta Reimi, al tragico dilemma del piccolo Hayato Kawajiri: sono loro, e non lui che pure è il personaggio eponimo, a dare al lettore le migliori soddisfazioni. Altri, come Okuyasu e l'alieno (o alienato?) Mikitaka Hazekura, risultano invece, se non proprio sacrificabili, come minimo non sfruttati al pieno delle loro possibilità - un discorso, questo, facilmente estendibile anche alcuni dei nemici che questa sfilacciata combriccola di eroi per caso si ritrova ad affrontare prima di arrivare al pesce grosso, ma questa è pura fisiologia. Di Jotaro e Joseph, infine, panchinari d'eccezione di questa serie, non c'è molto da dire: il loro tempo è finito e si vede, soprattutto nel caso del secondo, che tuttavia ci regala alcuni tra i momenti più teneri e divertenti di tutta la storia. Largo alle nuove leve, dunque? Sì e no: si ha infatti l'impressione che, nella maggior parte dei casi, si tratti più di un problema di spazio che di un loro effettivo decadimento come personaggi.
Due paroline veloci sul fronte del "donzellame", per così dire, prima di passare a Yoshikage Kira, a cui tocca il compito di tenere alto il vessillo della malvagità dopo i superbi Dio e Kars: fa specie, per non dire tristezza, che la meno caratterizzata di tutte sia Tomoko, la giovanissima mamma di Josuke. Cosa farsene di quel poco che fa o dice? Non molto, se non addirittura alcunché, e questo indipendentemente dal fatto che non siamo a una puntata di "Uomini e Donne Over".
Yoshikage Kira, dicevamo. A pagare maggiormente lo scotto di questa banalizzazione diffusa è proprio lui, che intriga e muove sì a un certo disgusto, ma a un livello completamente diverso rispetto a quello dei suoi predecessori. Di nuovo, bye bye Anni Ottanta! Ma al di là dei tempi che cambiano la differenza sostanziale risiede in quella che potremmo definire la sua agenda. Mettiamola così: a Yoshikage Kira, impiegato trentatreenne piacevolmente somigliante a David Bowie e con una venerazione per le mani femminili, del mondo importa soltanto nella misura in cui non gli permette di coltivare il suo hobby in santa pace. Non ha interesse ad assoggettarlo, né ad elevarsi dal pantano di mediocrità che costituisce la sua copertura. "Se piace piace, se non piace Piacenza", come diceva Leonardo Manera nei panni di Piter di Parpo: a me è piaciuto, quantunque né il suo Stand Killer Queen né il power-up dell'ultimo minuto subito da quest'ultimo mi abbiano entusiasmato, e trovo che la sua psicologia sia stata ben resa.

Dato che ormai gli omaccioni dalle folte sopracciglia erano passati di moda, per questa quarta serie Araki decide di sfogare un po' della sua frivolezza repressa con un tratto vieppiù effimero e proiettato verso l'effetto Uncanny Valley. È un tripudio di occhioni degni di una pubblicità del mascara, di labbra sensuali, di nasi le cui punte paiono inerpicarsi verso l'infinito, di zigomi squisitamente prominenti e di mascelle volitive; persino i brutti, a Morioh-cho, paiono avere una loro bellezza intrinseca. Qualche problema di postura e di prospettiva c'è ancora (per interi volumi il pompadour di Josuke sembra possedere un'orbita e una volontà proprie), ma con un'incidenza nettamente meno significativa rispetto alle parti precedenti. Anche la regia delle tavole è meno confusionaria, compatibilmente con il fatto che manga come questo vivono, per forza di cose, degli "Eh?" che riescono a strappare al lettore.

"Diamond is Unbreakable" sta alle serie che l'hanno preceduta come il classico episodio dell'onsen sta agli anime, con l'unica differenza che non dà affatto l'impressione di essere una tappa obbligata. È al contrario un manga simpatico e anche inaspettatamente coinvolgente, a riprova del fatto anche per i battle shōnen sottrarsi al giogo dell'ansia da prestazione (quella di chi li fa ma anche di chi li legge) è possibile.