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Nel mondo delle bestie, una dimensione parallela al mondo degli umani, c’è un torneo per decidere chi sarà il gran maestro, successore del precedente che a sua volta si reincarnerà in un Kami (una divinità del culto shintoista: un’onorificenza per spiriti nobili e sacri). I due contendenti favoriti alla successione sono Iozen, bestia dalle fattezze di cinghiale dall’animo nobile e dai molti discepoli, tra i quali 2 figli, e Kumatetsu, un orso fisicamente più prestante del suo avversario ma assai irritabile, pigro e indolente, senza figli né discepoli. Questo il prologo all’ultimo film di Mamoru Hosoda il quale, a tre anni di distanza dall’intenso e toccante "Wolf Children", sua opera più compiuta, dà vita a un lungometraggio animato che ritorna in qualche modo sul tema del rapporto tra genitori e figli centrando questa volta l’attenzione sulla paternità e su quanto sia importante l’influenza del figlio sulle sorti del padre – in Wolf Children era invece posta l’attenzione sul ruolo fondamentale della madre nella crescita di due figli un po’anomali (dei piccoli licantropi). In "The Boy and the Beast" l’anomalia – o se vogliamo meglio definire la questione, l’elemento fantastico, trattandosi di fiaba animata – sta proprio nella dimensione parallela al mondo umano in cui si ritrova, con sorpresa, il giovanissimo protagonista della vicenda, Ren, bambino di 9 anni fuggito di casa in conseguenza della morte della madre e dell’affido agli zii, essendo il padre separato e tenuto all’oscuro da tempo, dai parenti materni, sia delle sorti del piccolo che dell’avverso destino della moglie. Con la solita estrema sensibilità che lo contraddistingue, Hosoda, partendo proprio da questa premessa ci regala un’opera in continuo interscambio tra i due mondi, attraverso gli occhi di un protagonista che percorre l’infanzia per arrivare, con nuove consapevolezze, ad un’adolescenza in cui le scelte che dovrà compiere saranno importanti non solo per la sua crescita personale ma anche per coloro che hanno imparato ad apprezzarlo e ad amarlo.

Fuori dalla eccessiva linearità della storia e dai toni scopertamente edificanti (con riferimenti e omaggi espliciti a Melville e ad alcune opere disneyane), peraltro sempre cari ad Hosoda, "The Boy and the Beast" è un’opera che non si può non amare, che non si può non apprezzare proprio per la sua limpidezza e per il richiamo a valori semplici e universali quali il rapporto che si instaura tra un maestro ed un allievo, tra un padre ed un figlio. Rapporti che, come ho sintetizzato nella trama, sono tutt’altro che a senso unico. Nulla è calato dall’alto nel racconto di Hosoda, nulla è avulso dal rapporto di relazione, dal feedback emotivo che si instaura tra esseri senzienti quando l’affetto e la conseguente necessità di voler donar sé stesso all’altro sono in primissimo piano, come nel caso in questione. Di più, nella limpida rielaborazione del regista nipponico è evidente come proprio l’influenza del figlio/allievo sia fondamentale per l’apprendimento e le sorti del padre/maestro il quale, una volta entrato in una relazione di spontanea empatia e di conseguente simbiosi, se così la vogliamo definire, saprà restituire il tutto nel momento del bisogno. Anche a costo di trasfigurare se stesso, per amore. Amore che è un termine quanto mai calzante se accostato all’epilogo di questa vicenda, senza alcuna vaghezza o ambiguità di sorta che possa alterarne in nessun modo il significato profondo ed intimo. Perché se il messaggio di fondo è ingenuo ed edificante, è tanto potente proprio per la sua semplicità ed immediatezza, per il suo essere così diretto da perforare letteralmente anche il cuore – e attraversarne lo spirito – di chi guarda, senza alcuna possibilità di trovarlo indifferente una volta arrivato ai titoli di coda. E ditemi se questa non è potenza della finzione. Se questo non è potere del racconto, quando affidato alle giuste mani: mani capaci e sapienti, come lo sono quelle di Hosoda .

Ci sono diverse scene madri e momenti toccanti, ma ciò che avviene nel mondo delle bestie – emblematiche le sequenze divertenti e ricche di pathos nelle quali Kyuta, ancora bambino, imita i movimenti di Kumatetsu – è il vero plusvalore di "The Boy and The Beast", realtà contrapposta efficacemente a quella umana, soprattutto a livello visivo. Se Shibuya è sempre rappresentata come un territorio grigio e assente in cui le figure sono quasi indistinte, quella delle bestie è una dimensione in cui vincono i colori e i paesaggi dal retrogusto mediterraneo e arabeggiante. Forse un po’ manichea, la scelta di Hosoda ha comunque una precisa valenza narrativa e, direi in maniera evidente, piuttosto critica nei confronti dei suoi connazionali e del suo Paese. Un popolo quasi atomizzato e, più in generale, una società persa nel suo piccolo mondo privato: un manifesto dell’individualismo dei tempi odierni imputabile peraltro non soltanto al Giappone. Nel mondo delle bestie, se non fosse una sorta di ossimoro apparente, si vive invece più a misura d’uomo, nella rappresentazione scelta da Hosoda. Ma ossimoro non è, se vogliamo entrare nella dimensione eminentemente fiabesca della storia, perché proprio la tradizione shintoista e i culti animisti permeano la vicenda in maniera decisiva per la comprensione dello spirito del racconto e le conseguenti scelte estetiche e contenutistiche del regista nipponico. Spirito del racconto il quale, a qualsiasi latitudine possiate fruirne, restituisce comunque, come detto, dei valori universali facilmente interiorizzabili a qualunque età.

"The Boy and The Beast", nella migliore tradizione dell’animazione giapponese, non è altro che una fiaba iniziatica, un racconto di formazione che fotografa la crescita del suo protagonista dall’infanzia all’adolescenza, celebrando i riti di passaggio. E che questo avvenga in regni animali, in dimensioni improbabili o nelle fredde e distaccate metropoli odierne è, in sostanza, assolutamente secondario. Ciò che conta è la storia e come ci viene raccontata, nella fattispecie con estrema sensibilità e attraverso animazioni costruite su disegni manuali davvero efficaci, con l’ausilio di una regia che assembla brillantemente tutte le componenti e in cui si riconosce, ancora una volta, il tocco magico di Mamoru Hosoda. Il quale non sarà mai, probabilmente, il nuovo Miyazaki, come sovente, impropriamente, è stato appellato. Perché Hosoda è altro rispetto a Miyazaki, e non potrà mai essere, è immaginabile, un creatore di nuove cosmogonie e mondi fantasmagorici, né di personaggi indimenticabili per la loro peculiare connotazione, che sia fisica o caratteriale. Hosoda ha invece il dono di saper raccontare le storie ed una sensibilità non comune, che riesce puntualmente a restituire regalando intense emozioni. "The Boy and The Beast" è, molto semplicemente, un film che emoziona, che arriva limpido e diretto ad ogni tipo di spettatore. E questo, a ben guardare, è davvero un pregio raro.