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“La canzone del mare” è il classico film che è impossibile trovare brutto, ma che allo stesso tempo non è riuscito a piacermi; pur avendone compreso il messaggio e apprezzato lo splendido lato artistico, non sono riuscito a farmi coinvolgere appieno da questa favola, nonostante abbia apprezzato l’impegno dietro e la presentazione; da un certo punto di vista è un peccato, ma allo stesso tempo posso dire che non è stato certamente tempo perso.

Il film, una produzione internazionale europea diretta da Tomm Moore, dal titolo originale “Song of the Sea”, reinterpreta aspetti della mitologia nord-europea, in particolare irlandese; protagonisti della storia sono Ben, ragazzino di dieci anni, e sua sorella minore Saoirse, due bambini che vivono su un’isola al largo delle coste irlandesi col padre Conor, guardiano del faro del posto. In un flashback iniziale ci viene presentata anche la madre dei due, Bronagh, la quale è misteriosamente scomparsa nel momento in cui ha dato luce alla figlia, e proprio questo evento ha portato alla difficile situazione attuale, visto che Ben ha un rapporto tutt’altro che sereno con la sorella, che accusa inconsciamente di aver provocato la sparizione della madre, e la stessa Saoirse soffre per il comportamento del fratello, rinchiudendosi in un mutismo che perdura da anni. La scossa a questa situazione verrà data dalla nonna dei ragazzi, che li strapperà alla vita dell’isola per portarli a vivere con sé nella più sicura città di Dublino, una soluzione che porterà scompiglio nell’universo fantastico costruito nel film a cui la piccola Saoirse sembra appartenere e dove, con l’aiuto del fratello, dovrà probabilmente tornare.

L’incipit del film è grossomodo questo, ma, e penso sia uno dei suoi difetti, non è neanche tanto in meno rispetto a quello che si vedrà da qui in poi. Il viaggio dei due fratelli per tornare alla casa natia non è stato studiato per essere semplice, eppure, complici una trama prevedibile e un ritmo narrativo non proprio incalzante, diciamo, sembra che nessuno degli eventi in cui resteranno coinvolti riesca davvero a sorprendere o interessare lo spettatore. Ad aggravare questo scenario, poi, si aggiunge, a parer mio, l’assenza di personaggi al di fuori della cerchia familiare di Ben e Saoirse che riescano a far breccia nel cuore di chi guarda, che siano essi antagonisti o spalle a cui appoggiarsi: compaiono più o meno in sordina e altrettanto rapidamente te li dimentichi, concentrandoti unicamente sui bambini e le loro peripezie. La risoluzione finale, che dipana il mistero principale ed esalta l’insostituibile valore dei rapporti familiari, è naturalmente benevola ed emotivamente coinvolgente, ma non vale, a mio modo di vedere chiaramente, la strada percorsa per arrivarci, che, a livello temporale almeno, non appare così ingombrante sulla carta, ma che io ho percepito in alcuni momenti davvero lunga e pesante.

C’è qualcosa quindi per cui valga la pena guardare “La canzone del mare”? Decisamente sì, e mi riferisco alla sua componente estetica, meravigliosamente fiabesca e in piena sintonia con le richieste della storia; non posso farne una specifica analisi tecnica, non avendo le competenze al riguardo, ma non per questo non mi sento in grado di esaltare uno spettacolo così gradevole: partendo dal character design dei personaggi che ricorda un libro illustrato per ragazzi fino ai variopinti fondali di ambienti reali e fantastici, senza dimenticare le comunque buone animazioni, “La canzone del mare” rappresenta uno splendido dipinto in movimento capace di conquistare i bambini a cui è naturalmente rivolto, ma anche di far brillare gli occhi agli spettatori più adulti, e rappresenta inoltre una piacevole alternativa agli stilemi grafici dell’animazione giapponese a cui io sono più abituato. Non mi ha colpito allo stesso modo, ma non per questo merita meno apprezzamenti, la bella colonna sonora dalle forti influenze celtiche firmata da Bruno Coulais, in collaborazione col gruppo irlandese Kila, dove spicca la canzone title track omonima del film sia in versione normale che in versione ninna nanna cantata nel film dalla madre dei due protagonisti.
Il doppiaggio italiano è affidato a solidi professionisti del settore (vedi Alessio Cigliano nei panni del padre Connor o Francesca Fiorentini in quelli della madre Bronagh) e fa degnamente il suo lavoro anche nei panni dei giovanissimi Lorenzo D’Agata (Ben) e Anita Ferraro (Saoirse).

In definitiva, posso dire di non considerare “La canzone del mare” un film riuscito al cento per cento, ma, come anticipavo all’inizio, non è neanche un’operazione da smontare con fermezza; questo lungometraggio è una favola valida che mi ha colpito gli occhi prima del cuore, ma è una visione che può provocare tranquillamente sensazioni diverse in altre persone, per questo è consigliabile davvero a chiunque, meglio ancora se goduta in famiglia, probabilmente il suo posto naturale.