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“Siamo gli adulti che speravamo di diventare… oppure i bambini che eravamo riderebbero di noi vedendoci adesso?”

Giappone, 1969.
Un gruppo di bambini costruisce un nascondiglio di rami e cespugli dove leggere manga e ascoltare la radio, una base segreta per fantasticare sull’avvento futuro del nuovo millennio. I bambini immaginano un virus letale decimare la popolazione, diversi attacchi terroristici e un gigantesco robot invadere le strade di Tokyo. Decidono di mettere tutto per iscritto nel “Libro delle profezie”. Il gruppo inventa un simbolo raffigurante una mano con l’indice che indica verso l’alto e un grande occhio sul dorso. 30 anni dopo, con il duemila ormai alle porte, qualcuno di loro sta utilizzando quel simbolo per conquistare il mondo seminando il terrore sotto le vesti di messia, mettendo in atto per filo e per segno quanto scritto nel “Libro delle profezie”. L’uomo porta sempre una maschera e si fa chiamare “L’amico”.

La storia è carica di mistero e mostra il suo immenso potenziale fin da subito, grazie ad una narrativa non sequenziale che immerge magneticamente il lettore in un’atmosfera nostalgica e al contempo avveniristica incredibilmente evocativa.
I personaggi, seppur numerosissimi, sono tutti magistralmente caratterizzati, e si rivelano il nerbo di una sceneggiatura magnificamente intessuta che si dipana su più piani temporali, tra continui flashback e flash-forward che aggiungono segreti agli enigmi irrisolti.
La villa dell’impiccato, la dissezione del pesce nell’aula di scienze, il distintivo galattico del negozio dei “nonni”, quel giorno in cui a mensa qualcuno del gruppo piegò tutti i cucchiai con la sola forza del pensiero.
Eventi apparentemente sconnessi, ma in realtà legati da un invisibile e pericoloso fil rouge. Chi è il burattinaio che muove i fili? Chi si cela dietro la maschera dell’Amico?

Il protagonista della storia è Kenji, il ragazzino che capitanava il gruppo della base segreta, ormai un quasi quarantenne dallo spirito eternamente bambino appassionato di musica rock, che gestisce un minimarket insieme a sua madre accudendo la sua adorata nipotina Kanna, la figlia di sua sorella lasciatagli in affidamento prima che quest’ultima scomparisse nel nulla.
Per scoprire l’identità dell’Amico e cercare di sventare i suoi diabolici piani verso la conquista del mondo, Kenji decide di radunare il gruppo di amici d’infanzia alla ricerca della verità nascosta dentro i loro ricordi.
Ecco che Occio, il carismatico creatore del simbolo, il sorprendentemente impavido Yoshitsune (visto il passato non proprio da cuor di leone), il corpulento Maruo e la judoka Yukiji, “la bambina più forte di tutti i tempi” (ispirata a Yawara), si ricongiungono a Kenji insieme agli altri membri della banda per riappropriarsi del proprio simbolo.
Stavolta non è un gioco per bambini ma una vera e propria battaglia con in ballo le sorti dell’umanità.

“20th Century Boys” copre circa cinquant’anni di storia ed è lo zeitgeist di due generazioni: quella che il duemila lo sognava con gli occhi dei bambini e quella che il duemila lo subisce con la disillusione degli adulti.
Da un lato la generazione sognante che vedeva in quell’expo di Osaka del 1970 (punto focale dell’opera) un miraggio da inseguire, dall’altro la generazione sconfitta i cui sogni si sono rivolti contro, che ha perso il disincanto fanciullesco e si ritrova tra terrorismo e manipolazione di massa immersa in un caustico voyeurismo orwelliano.
Attraverso cospirazioni e varie teorie del complotto, tra cui quella dell’allunaggio (magnificamente ripresa in “Billy Bat”), ci viene mostrato un mondo ingannevole e menzognero, un Matrix di uomini mesmerizzati da un individuo in maschera divenuto un vero e proprio Dio in terra.
Un mondo che mai come prima ha bisogno di eroi.
Il contrasto tra Kenji e L’Amico avviene spesso a distanza, un duello psicologico tra reminiscenze e rivelazioni che vede due facce della stessa medaglia originare un’affascinante dicotomia tra eroe ed antieroe.

Naoki Urasawa è il mangaka che meglio di tutti ha saputo far convergere il fumetto d’autore nel mainstream senza snaturarsi.
Le sue innumerevoli citazioni alla cultura pop e la narrativa cinematografica al fulmicotone farcita di cliff hanger e red herring, lo hanno reso uno dei principali riferimenti della fumettistica nipponica.
“20th Century Boys” è dopo “Monster” la consacrazione di una cifra stilistica unica e virtuosa, e segna, passato il periodo spokon (“Yawara!”, “Happy”), la virata definitiva dell’autore verso i mistery/thriller con connotati specifici e perfettamente riconoscibili, oggi definibili “manga alla Urasawa”.

“20th Century Boys” è il lavoro che accorpa le citazioni più trasversali di tutto il corpus opere urasawiano, godendone a pieno in termini di poliedricità.
La musica gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo delle vicende, saranno proprio le canzoni di Kenji, inizialmente comprese ed apprezzate soltanto dalla piccola Kanna, a risvegliare “la coscienza dormiente del mondo”. Il mangaka origina un abbacinante caleidoscopio referenziale fondendo le infinite reference alla musica rock (il titolo “20th Century Boys” è ripreso dal brano dei T. Rex) alle citazioni manga anni ‘60 e ‘70, tra cui spiccano quelle a: “Doraemon” con il duo di mangaka Ujiko Ujio che omaggia il leggendario duo Fujiko Fujio creatore della mascotte dei manga, ad “Hattori Kun” (noto in Italia come “Nino, il mio amico ninja”) la maschera di Sadakiyo è la stessa di Nino ed il vero nome di Fukubei è Hattori, e poi quelle a “La stella dei Giants” e “Rocky Joe”, che celebrano il re degli spokon Ikki Kajiwara.
L’autore si concede anche diverse escursioni nel cinema, tutto il paragrafo carcerario risulta un omaggio a “La grande fuga”, con tanto di ripetute citazioni al film stesso e a Steve Mcqueen.
Emerge inoltre il grande amore di Urasawa verso Stephen King, il gruppo di bambini e gli switch temporali richiamano i grandi classici “It” e “Stand by Me - Ricordo di un’estate”, con quelle magiche atmosfere nostalgiche alla “Goonies” che anni dopo renderanno celebre “Stranger Things”.
Per questo e molto altro potremmo definire “20th Century Boys” il magnum opus di Naoki Urasawa, o quantomeno la summa della sua semantica autoriale, con tutto ciò che ne concerne.
Nonostante la sua inconfutabile bellezza se non apprezzate l’autore non sarà questo fumetto a farvi ricredere, Urasawa è un mangaka polarizzante e questa è la sua più fulgida espressione artistica con tutti i pro e i contro del caso.
Tra i pochissimi malus da segnalare c’è il calo di pathos una volta svelata l’identità dell’Amico, e la mancata chiarificazione di alcuni punti lasciati in sospeso, come il figlio del “Nuovo Amico” e il rapporto tra Kenji e Yukiji, purtroppo non approfondito quanto avrebbe meritato, soprattutto se si pensa allo spazio lasciato ad alcune sottotrame riempitive fine a se stesse. Inoltre il finale, se non si considera “21st Century Boys” appare poco esplicativo e piuttosto inconsistente.
Nonostante queste siano indubbiamente note dolenti su cui i detrattori possono far leva, risultano minuzie di fronte all’imponente caratura dell’opera.

La regia delle tavole è estremamente incalzante e cinematica, e grazie anche al plot, talmente appassionante da far venire al lettore un’indomabile fame di pagine, incentiva al binge-reading spinto.
“Ti scrivo una lettera perché se ti inviassi una mail potrebbero censurarla…distruggila subito dopo averla letta”
Il sensei evidenzia l’importanza del disegno a mano a discapito del digitale, sfoggiando il suo solito meraviglioso tratto pittorico realistico ed espressivo.

Tra la moltitudine di personaggi memorabili, le cui personalità sono tratteggiate con una maestria più unica che rara, cito: Sadakyo, il bambino mascherato continuamente vessato e bullizzato dai compagni, il cui epilogo struggente rappresenta uno dei pinnacoli emotivi del manga;
E “Dio”, un barbone invasato con il bowling le cui doti di chiaroveggenza lo porteranno ad arricchirsi a dismisura, rendendolo un infallibile giocatore di borsa.
È proprio quest’ultimo, le cui predizioni incarnano perfettamente l’anima di “20th Century Boys”, a risultare uno dei personaggi allegoricamente più rappresentativi dell’intera opera.

“L’arte è una menzogna che ci consente di riconoscere la verità”

Ma se la bugia fosse l’universo stesso?

Un Naoki Urasawa incredibilmente profetico e divinatorio, le cui previsioni per “l’evento che cambierà il mondo all’inizio del XXI secolo” trovano un’agghiacciante corrispondenza nel tragico attentato alle torri gemelle dell’11 Settembre 2001, ci regala, attraverso una magniloquenza narrativa a tratti sofista, una storia al cardiopalma che si impone capolavoro assoluto del fumetto.
Un viaggio nella romantica spensieratezza dell’infanzia, che evidenzia l’importanza dei ricordi perduti facendoci vivere un variopinto arcobaleno di emozioni tra lirismo e nonsense.
Un’opera geniale, corale, bagnata da quel lieve tocco di paranormale che la pone in costante bilico tra realtà e finzione, tra verità e bugia, tra cronaca e messinscena letteraria.
Un inno all’amicizia, l’esaltazione del collettivo a discapito di ogni singolarità, capace di regalare una lunga serie di momenti indimenticabili: Dal climax del “Capodanno di sangue” alla straziante e disperata difesa della base segreta contro “I gemelli più cattivi di tutti i tempi” Yanbo e Marbo, quando un gruppo di ragazzini dagli occhi gonfi e dardeggianti combatteva strenuamente per difendere i propri sogni, gettando il cuore ben oltre l’ostacolo all’orizzonte di un futuro nebuloso e incantato.