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Per questo Natale mi hanno consigliato di vedermi come film in tema questo, un film che ormai ha vent’anni (è uscito nell’anno 2003, quando Miyazaki vinse l’Oscar per “La città incantata”), considerato un classico per le feste natalizie.

Io dico che è stato un bel film, ma credo che non avrà mai la fortuna di “A Christmas Carol” di Dickens o, per rimanere nel piano dell’animazione, delle opere del già citato Hayao Miyazaki, ma è giusto così?
No, l’opera ha un grave limite: quello di essere pensata non per un pubblico di bambini o per le famiglie ma per un pubblico di adulti, anche se questa opera presenta molta poca violenza, se tacciamo di alcune parole e frasi poco politically correct.
D’altronde è ambientata negli slum, nei bassifondi di Tokyo, fra barboni che si ubriacano e fanno una vita difficile, anche se Satoshi Kon cerca di descrivere l’ambiente più umanamente possibile (un po’ come aveva fatto Hideo Azuma ne “Il diario della mia scomparsa”). I barboni sono uomini e sono umani, ma, mentre Azuma parla di sé, Kon parla di barboni improbabili ma possibili, e di cui racconterà brevemente il passato, ciò che è stata la molla scatenante che li ha portati a vivere per la strada. Tutto ciò mediante il discorso diretto e non con i spesso troppo abusati flashback.
Ma chi sono questi tre senza tetto che la mattina di Natale trovano un neonato nella spazzatura? Sono Jin, un alcolizzato con la tendenza a dire bugie, Hana, un omosessuale con la voglia di essere madre, e Miyuki, una ragazzina scappata di casa. Essi si comportano come fossero una famiglia, ma ognuno di loro si troverà alla fine del film ad aver riallacciato in parte i legami con i propri ambienti di provenienza. Noi non sappiamo se lasceranno la strada, probabilmente no, ma saranno stati in grado di allontanare alcuni loro fantasmi e a restituire ai veri genitori, dopo questo viaggio anche nel proprio essere, la piccola neonata.