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Con un titolo come Honey Lemon Soda, ci si aspetterebbe una storia vivace, frizzante, piena di colori; qualcosa che faccia tornare alla mente i primi amori, o almeno che li faccia riaffiorare. Bene, prendete questo approccio positivo e seppellitelo sotto un cumulo di macerie. Perché questa serie è tutt’altro che vivace, frizzante e colorata. È, per certi versi, spenta, sfiatata e incolore.

All’inizio del primo episodio assistiamo al primo incontro tra Uka Ishimori e Kai Miura, i due protagonisti. I due si conoscono dopo che Uka ha subito l’ennesimo atto di bullismo, trovando in Miura una figura comprensiva e protettiva. Da quel momento, Miura diventa una sorta di guardia del corpo; la tiene costantemente sott’occhio e interviene tempestivamente quando si trova in difficoltà. Uka percepisce questo velo protettivo come qualcosa che va oltre la sua natura dell’intento e inizia a provare un’emozione per lei nuova: un profondo senso di rivalsa. Tutta la serie ruota attorno al concetto di protezione e alla difficoltà di uscire da uno stato di impasse psicologica e sociale. Temi importanti, attuali, e sulla carta anche nobili. Il problema – a mio avviso – è il modo in cui vengono raccontati. Già gli argomenti non sono propriamente leggeri; se poi vengono amplificati e resi ancora più pesanti, si finisce per trasformare quella che poteva essere una dolce storia di crescita in qualcosa di cupo, malinconico, quasi claustrofobico. Sembra a tratti di guardare un film dei fratelli D’Innocenzo. Un approccio narrativo un po’ più leggero e calibrato avrebbe giovato all’opera, soprattutto considerando il tipo di storia che intende raccontare e il pubblico a cui si rivolge.

Fin da piccola, Uka ha vissuto sotto una sorta di campana di vetro, protetta da genitori troppo apprensivi. Questa iperprotezione ha compromesso il suo sviluppo personale, rendendola insicura e incapace di reagire di fronte al bullismo subito durante le scuole medie. Le conseguenze si rendono subito evidenti, infatti Uka fatica a relazionarsi con gli altri, si limita nelle esperienze adolescenziali e si sabota spesso da sola, anche quando qualcosa di bello sta finalmente accadendo. La sua mancanza di fiducia è tale che, per riuscire a parlare con qualcuno, deve raccogliere tutto il suo coraggio e spesso finisce per urlare ciò che ha da dire. È chiaro che si sia voluto enfatizzare la sua insicurezza e fragilità, ma – a mio avviso – si è esagerato con le proporzioni. Vederla per l’ennesima volta in crisi, anche quando ormai le circostanze le sono favorevoli, può risultare stucchevole e ripetitivo. Detto questo, ho apprezzato la forza di volontà che emerge nel suo character design, soprattutto nei momenti in cui prende coscienza del bisogno di cambiare. Quando capisce che deve cogliere l’attimo per dare una svolta alla sua vita, si mette in gioco con tutta sé stessa. Ed è proprio questo, al netto dei difetti, l’aspetto che può davvero lasciare qualcosa a chi guarda. Vedere qualcuno provarci, nonostante tutto, può essere d’ispirazione per chi si trova in una situazione simile. E forse, in fondo, è proprio questo il messaggio più importante della serie.

È vero che Uka è la protagonista indiscussa della serie, ma un minimo di approfondimento sul coprotagonista Miura avrebbe certamente aggiunto spessore alla narrazione, rendendo più comprensibili molti dei suoi atteggiamenti. Di Miura, in realtà, si sa molto poco. Non viene mai chiarito il motivo per cui sia così schivo, distante, spesso annoiato o disinteressato a ciò che lo circonda. Ancora meno si capisce da dove nasca il suo atteggiamento iperprotettivo nei confronti delle persone più fragili. Non è un comportamento riservato solo a Uka, più avanti si scopre infatti che in passato si è comportato allo stesso modo anche con Serina, una sua ex compagna di classe. Proprio questo suo lato “protettivo” risulta troppo maniacale e disturbante, sembra quasi voler avere il totale controllo della vita delle sue “protette” finendo poi per essere inquietante. Così lascia solo una sensazione di disagio, e in alcuni momenti, la sua figura sembra più un ostacolo alla crescita di Uka che un vero supporto.

Forse è proprio questo aspetto a rendere l’atmosfera della serie eccessivamente pesante, specialmente considerando che ci si aspetterebbe una romcom leggera. A peggiorare ulteriormente la situazione contribuisce anche la figura del padre di Uka, con il suo atteggiamento iperprotettivo e costantemente ansioso nei confronti della figlia. Tuttavia, questo elemento ha quantomeno una funzione narrativa chiara. Ci aiuta a comprendere perché Uka si ritrovi a vivere una vita insicura e solitaria, incapace di relazionarsi in modo sano con i suoi coetanei. Diversamente, l’atteggiamento di Miura perde di coerenza e significato. Perché come, già detto, non ci viene mai svelato il motivo di questo suo lato protettivo e il risultato è un personaggio che risulta, in certi momenti, ingiustificatamente inquietante.

I personaggi secondari risultano quasi non pervenuti. La loro gestione è stata fallace, troppo spesso rimangono sullo sfondo, privi di un reale impatto narrativo, e in alcuni casi appaiono ingombranti. Hanno una qualche coerenza quando agiscono come gruppo, invece che singolarmente. Unica eccezione è Serina, che riesce ad offrire un contributo concreto allo sviluppo dei protagonisti.

A livello visivo, la regia dà ampio spazio al colore giallo. La fotografia è particolarmente luminosa, come se ogni ambiente, anche gli interni, fosse perennemente illuminato dalla luce naturale del sole. Persino le pareti della scuola e gli occhi di molti personaggi condividono quella tinta giallo limone, in chiaro richiamo al titolo della serie. Sarebbe stato forse più efficace riservare questa caratteristica dell’iride al solo protagonista, per rafforzarne la centralità simbolica. Detto ciò, lo Studio J.C.Staff ha svolto complessivamente un buon lavoro tecnico, all’altezza delle aspettative per un team di tale esperienza.

La colonna sonora, in alcune scene, tende a enfatizzare eccessivamente i momenti più introspettivi in cui Uka si perde nei suoi pensieri, schiacciata dal peso delle proprie insicurezze. Pur non risultando sgradevole, una soundtrack meno drammatica e più motivazionale avrebbe probabilmente trasmesso in modo più efficace lo sforzo interiore della protagonista nel voler uscire dal proprio guscio.

Nel complesso mi è sembrata un’occasione sprecata. Gli argomenti affrontati (il bullismo, l’insicurezza, la voglia di riscatto) avevano tutte le carte in regola per dar vita a un contesto più profondo e coinvolgente, ma sono stati trattati in modo sbilanciato. Anche la storia d’amore tra i protagonisti sembra molto irrealistica e non trasposta nel migliore dei modi. Non lasciano quasi mai trasparire un vero sentimento e questo si riflette sullo spettatore. Se si dovesse proseguire con una seconda stagione, rifletterei un tantino in più sulla sceneggiatura e auspicherei qualche scelta più ponderata dal punto di vista registico, per valorizzare al meglio ciò che questa storia ha davvero da offrire.