Bake 02 Bakemonogatari, blend, racconti di mostri o mostracconti, a seconda dei gusti. A seconda che piacciano o meno le parole macedonia, categoria che in sé inquadra abbastanza la natura della serie. O almeno la sua apparenza. Ciò che mostra, anzi, meglio, ostenta. Sotto l’intonacatura c’è il vuoto, sembrerebbe. In realtà dentro quel vuoto si possono leggere alcune cose, c’è da tentare qualche discorso.
Bakemonogatari come vacuo divertissement è una tesi che regge finché la si vuole far reggere, ma forse è quella che regge meglio. E alla cui luce la serie rende meglio. Divertissement cazzone, sborone, imbottito di non-sense a go-go, di trivialità più o meno evidenti, con il fanservice polo accentratore in ogni sua declinazione, dalla versione tette e culi alla nozionistica da otaku, alle icone fetish degli anime oggi, annesse loli, gattine, tsun e vampirelle. Perché anime è bello e quel che attorno gli ruota pure. O è bello crederlo tale.

Gran frullato delle tendenze più o meno recenti della nippo-animazione commerciale, dunque. Dentro a una cornice harem, giusto per non farsi mancare nulla. Cornice decostruita, no, magari ci si scherza un po’ su, la si prende in giro prendendo in giro i ruoli a lei propri, emancipando le femminucce e maltrattando il maschietto tentacolato, sempre un po’ imballato ma di mano lesta. Dileggiato nella persona, spezzato nelle ossa e sbudellato dal gentil sesso. Tanto lui se lo può permettere. Tanto Bakemonogatari non è serio, appunto. Non lo vuole essere. Non ci si prende e meno male. La leggerezza è un salvataggio in corner da tendenze all’auto-elevazione, all’auto-mistificazione, alla pretesa di profondità e alla pretenziosità fighettina di alcuni prodotti Shaft. Non di Bakemonogatari. Non del tutto almeno.

A tratti, a volte anche ampi, le magagne saltano fuori. I vizi sono duri a essere contenuti. Schermate monocrome intermittenti, lettering lampo, scenografia pesantemente digitalizzata e “minimalizzata”. E animazioni in Flash ammucchiate con altre in stop motion, collage tra foto e graphic design di vaga ispirazione pop. Effetti più pasticciati che altro. Soluzioni che cercano di dare un tono di sperimentalismo, un’aria di artisticità d’avanguardia, ma che mal celano la loro essenza posticcia, kitsch, monca di reali intenti espressivi, di una poetica solida, consapevole a muoverle. Roba gettata sulle rètine un po’ come viene. Senza un vero fine. Più abborracciata che ponderata, più stramboide che anticonvenzionale. Buona magari per camuffare i madornali limiti tecnici, le ristrettezze di budget che arrugginiscono i movimenti e approssimano le figure. Un paravento stiloso, insomma, lì si ferma. Qualche voluta regge, conserva una certa freschezza finché si limita a giochetti linguistici, a ritmiche e geometrie registico-cromatiche. Poi basta.

Bake 03 Si esagera, si diventa ossessivi, insistenti, si reiterano ad libitum schermaglie tra loro bene o male somiglianti, affini, prevedibili. Monotonia a ondate, schemi che tornano tra loro sempre uguali, visivamente come nella narrazione, nella costruzione di cicli di episodi a tema, con canovacci fissati, con tappe prestabilite e mai eluse, mai depistate. Mistero materializzato, nuova pulzella correlata, quindi ciarle, ciarle, ciarle a spernacchiare l’harem che fu e che continua a essere, poi un po’ d’azione, la risoluzione del caso e si riavvolge il nastro. Bakemonogatari cincischia su un modello che finisce per sostituire il cliché parodiato, che ne prende il posto quale nuovo cliché, nuova ossatura, nuova articolazione standard, diversa ripetitività ammazzata di chiacchiere. Che tra parentesi sarebbero uno dei motivi di pregio della serie.

La sceneggiatura è tenuta in piedi da una verbosità incessante, con monologhi e dialoghi che dilatano il minutaggio e si accalcano e accavallano, esuberanti, rutilanti, tautologici, inutili ma brillanti nel loro virtuosismo, nel loro sarcasmo, in un’autoironia che bersaglia la diegesi e l’extra-diegetico. Che gioca di sponda con la quarta parete senza pedagogismi intellettualoidi o velleità di basso e narcisistico profilo postmoderno. Si va a ruota libera per il puro piacere di farlo, con puro gusto giocoso, estemporaneo, freak. Ciò che spesso manca all’animazione dalla scrittura ingessata, testi che reggano da soli la scena, che siano vivi, briosi. Una lezione che certo cinema di genere made in Hollywood smercia da decenni in giro per il mondo.

È un paragone, non un nesso causale, improbabile che Bakemonogatari derivi la sua verve dalla parlantina e dalle battute icastiche made in USA. Non c’è alcuna traccia di esterofilia, qui come nel resto, contaminazioni extraterritoriali zero. La via è l’idiozia con gli occhi a mandorla che di tanto in tanto trova sfogo e sfoggio nella japanimation di cui Bakemonogatari è marcio fino alle viscere. Pur sembrando qualcosa di alieno, perché camuffato da alienato, da prodotto fricchettone sballato. Che in parte è, quando lo vuole essere. Quando non si sforza di apparire figo, quando non issa l’altro telone, quello del baraccone del tutto e del niente, dandosi arie trasgressive-chic che schermano una personalità debole, incerta, informe.


Bakemonogatari è quindi un oggetto impazzito che introita tritate a pezzi grossolani le mode più disparate per porsi forse come nuovo paradigma dell’otaku, nuova dissertazione sinottica delle sue manie e idiosincrasie e patologie. O magari come ludibrio delle stesse e dello stesso, esposizione di un armamentario ormai totemico, feticcio di orde sbavanti di animefan a cui vengono sbattuti in faccia la loro bava e gli oggetti per i quali/sui quali cola. O forse è solo nuovo fumo negli occhi sulla scia di una tradizione post-post-post-Evangelion che avvolge tutto di meta-qualcosa senza sapere bene né il come né il perché.