Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Quest'oggi ci dedichiamo a titoli d'annata: il manga Natsu e no tobira e gli anime Jane e Micci e Wanpaku ouji no orochi taiji.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


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Opera di una delle autrici madri dello shojo, la stessa Keiko Takemiya creatrice del celebre "Kaze to Chi no Uta" ("Il Poema del vento degli alberi") ed esponente di punta del gruppo 24 che negli anni Settanta modernizzò lo shojo classico ancora tutto pizzi e lazzi, "Natsu no Tobira" viene realizzato nella fase di rodaggio antecedente alla piena realizzazione delle innovazioni portate avanti con il Poema.
Ambientato nella Francia del XIX secolo "Natsu e no Tobira" (Una finestra sull'estate) racconta il delicato, traumatico ma inevitabile passaggio da adolescenza a giovinezza di un gruppo di liceali: l'addio all'età verde avviene per loro attraverso varie modalità; dall'iniziazione sessuale, alla consapevolezza di sé, al contatto con il mondo adulto, l'amore, la morte. Alla fine della simbolica estate dell'infanzia tutti i personaggi avranno abbandonato per sempre l'innocenza e la romantica visione della vita che li sorreggeva; la loro finestra si affaccerà su un più sterile autunno, stagione in cui la vicenda si conclude.

<b>[Attenzione spoiler]</b>
Il breve manga possiede già in nuce gli elementi che si ripresenteranno in forma molto più estrema nel Poema del vento e degli alberi: la Takemiya riesce a infrangere, seppur in modo ancora tenue, alcuni tabù dello shojo anni Settanta che raramente aveva avuto il coraggio di narrare una storia d'amore fra un ragazzo e una donna matura, con espliciti riferimenti alla sessualità e addirittura all'omosessualità. Quest'ultima non trova una trattazione approfondita come avverrà in opere successive di questa autrice, anzi è solo allusa, ma è il segno che qualcosa si sta muovendo. Infatti alle classiche storie che riempivano le riviste shojo dell'epoca, caratterizzate da vicende romantiche e serene dal roseo finale, l'autrice ribatte con una delle più riuscite rappresentazioni della drammatizzazione dell'adolescenza, tema assai caro e ripreso più tardi dalla Takemiya: crescere non è mai un processo indolore, la conoscenza dell'amore obbliga alcuni personaggi a scegliere fra questo e l'amicizia, a conoscere oscure e irrivelate parti di sé, a misurarsi con la grettezza degli adulti. Così l'amore del protagonista Marion, tutto passione idealizzata e sospiri, è distrutto dalla superficialità con cui vive i rapporti la sua amante Sara; così anche Jacques e Lindt si trovano incapaci, nella loro inesperienza, a vivere situazioni più grandi di loro; così Klaus preferisce la morte nel momento della presa di coscienza del proprio essere. Questa drammatizzazione di fondo non si traduce alla fine nella tragedia di una completa assenza di speranza di salvezza, ma è ovvio che nei cuori dei protagonisti qualcosa sia morto per sempre: è morta la capacità di guardare alla vita come solo la giovinezza riesce a fare.

La parte grafica è molto classica, la Takemiya ha il tipico stile shojo di quegli anni, morbido, volutamente decorativo ed estetizzante, uno stile che può piacere o meno agli appassionati ma sicuramente riesce a conferire espressività ai personaggi. L'unico neo rintracciabile potrebbe essere quello dell'eccessiva brevità della storia, che nella parte conclusiva viene accelerata tanto da concludere la scena clou in appena una pagina; sarebbe stato necessario un maggiore approfondimento e un numero maggiore di pagine ma non per questo il racconto appare come non riuscito. In un certo modo l'immediatezza e la frettolosità finale rivela come non ci sia più nulla da dire, la Primavera è ormai definitivamente sfiorita. "Natsu e no Tobira" è un piccolo gioiello classico, una storia che sembra uscita dalle pagine di un romanzo dell'Ottocento, perfetto preludio per la completa realizzazione della letteratura shojo che farà approdare Keiko Takemiya al "lacerante e bellissimo" (cit. Matt Thorn) "Kaze to Chi no Uta".



8.0/10
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A volte capita di riscoprire qualche vecchio anime dimenticato e di rimanerne sorpresi. È il caso di "Sasurai no Taiyo", ovvero "Sole Vagabondo", noto in Italia anche come "Jane e Micci" e "Che Segreto!". Realizzato dalla Mushi Production su di un soggetto originale di Keisuke Fujikawa, è un anime da raccomandare al pubblico interessato alla storia del disegno animato giapponese. Con "Sasurai no Taiyo" si viaggia nel passato, visto che si tratta di un anime addirittura arretrato rispetto ai suoi anni, pensato per spettatori familiarizzati con i classici degli anni Sessanta, in primis "Ashita no Joe" e "Attack No 1", che costituiscono chiaramente i suoi modelli ispiratori.

"Sasurai no Taiyo" è il primo anime musicale della storia. Narra la vicenda di una ragazza di diciassette anni, Nozomi, che vuole diventare una cantante professionista, seppure in mezzo a mille difficoltà. Nozomi ha un segreto: ella è in realtà la figlia dei ricchissimi coniugi Koda, ma è stata scambiata nella culla con Miki, la figlia della poverissima famiglia Mine. Tutto l'anime si gioca nell'attesa della rivelazione del segreto, cosa che puntualmente avviene nelle ultime puntate con conseguenze drammatiche sulle due famiglie. Ma non dico di più. Segnalo invece che il target di pubblico di "Sasurai" non è infantile: si rivolge evidentemente a ragazzi abbastanza grandi, adolescenti in età tale da dover decidere che direzione dare alla propria vita. Lo stesso target di "Rocky Joe", e questo permette la discussione di tematiche relativamente adulte, specialmente sociali. Le tematiche sentimentali invece sono tenute al minimo: Nozomi ha un fidanzato, ma il loro amore è subordinato al raggiungimento del successo da parte di entrambi.

"Sasurai" è sia un'opera di formazione sia un melodramma strappalacrime con chiari intenti pedagogici e morali: abbondano cattiverie, umiliazioni e torture psicologiche, così come non mancano sfortune, malattie e disgrazie oltre a truffe e imbrogli. C'è stato un periodo in Italia, alla fine degli anni Settanta, in cui il disegno animato giapponese veniva identificato con tristezza, morte e disperazione: "Sasurai" aderisce allo stereotipo e tanto vale essere preparati. La situazione di Nozomi è tristissima: il padre, ristoratore ambulante, è stato aggredito dalla Yakuza ed è finito in ospedale, in pericolo di vita; la madre sta diventando cieca e i fratelli molto piccoli sono costretti a lavorare; inoltre il padre rischia di essere cacciato dall'ospedale perché non può pagare la retta.

Si noti che tutti questi drammi causano partecipazione nello spettatore: mentre lo spettatore smaliziato di anime contemporanei può sempre mantenere un atteggiamento distaccato e ignorare le peggiori disgrazie perché è sicuro del lieto fine obbligatorio, non può fare altrettanto per gli anime di quegli anni. Certo, si può immaginare che Nozomi riesca a raggiungere il successo come cantante, ma quale prezzo dovrà pagare? Nel 1971 il padre, la madre, perfino i fratelli potevano andare incontro alla peggiore delle disgrazie e la morte era cosa normale per anime di questo tipo, quindi non lo si può guardare con la stessa tranquillità di spirito degli anime moderni. Incidentalmente è proprio questo il punto di forza principale degli anime storici rispetto a quelli moderni, la non certezza del lieto fine.

"Sasurai" presenta tutte le esagerazioni tipiche di quegli anni: Nozomi ha capacità a dir poco sovrumane. Per esempio in un episodio, dopo un'intera giornata di durissima pesca subacquea, nuota per chilometri e chilometri nell'acqua gelida, arriva sfiancata dalla fatica, ma in pochissimi minuti recupera le forze e canta meglio della rivale che ha speso mesi e mesi ad allenarsi nel canto mentre lei non canta da settimane. Ma in fondo queste capacità miracolose si perdonano volentieri, la sospensione dell'incredulità è una tecnica con cui tutti i fruitori di manga e anime sono ben familiarizzati. È poi chiaro un certo intento morale, motivo per cui la canzone popolare - che include la canzone tradizionale dei pescatori giapponesi, ma anche il jazz americano - viene posta su un livello ben diverso rispetto alla canzonetta moderna costruita a tavolino per vendere i dischi. Miki è l'espressione del sound "moderno", rappresentato dalle canzoni occidentali in voga alla fine degli anni Sessanta.

In conclusione "Sasurai" è un anime di notevole interesse e in grado di appassionare lo spettatore che sappia accettare culture e scale di valori ben diversi da quelli contemporanei. Non si tratta un capolavoro e non regge il confronto con i classici a cui si ispira; ciò nonostante, se si è in grado di passare sopra la povertà dell'aspetto tecnico e le ingenuità tipiche dell'epoca, si scoprirà un ottimo anime in grado ancora di appassionare. Non solo, diventerà facile riconoscere la continuità tra "Sasurai" e lo shoujo anche di molto posteriore.



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Le avventure del principe monello

Dopo il successo di "Hakujaden" (La leggenda del Serpente Bianco), 1958, prima pellicola asiatica di animazione a colori, il produttore Hiroshi Okawa, presidente della Toei Dōga, cercò di realizzare un lungometraggio d'animazione l'anno. Fra i film che riscossero maggior consenso di pubblico e critica si può annoverare "Wanpaku ouji no orochi taiji" (Il principe monello e il drago a otto teste), 1963.
Si tratta di una favola mitologica che recupera i primi capitoli del 'Nihon Shoki' (Annali del Giappone, 720 d.C.), il secondo libro più antico della storia giapponese classica in cui si narra la genesi a sfondo leggendario delle divinità originarie del pantheon scintoista, Izanagi e Izanami, e della loro discendenza di dei e semidei.

Quando Izanami, madre del giovane principe Susanō, muore, suo padre Izanagi racconta al bambino che l'anima della madre è andata in un altro posto. Preso dalla nostalgia e dall'affetto materno Susanō abbandona il regno per partire alla ricerca del suo spirito. Lungo la strada si scontrerà con un pesce gigante, con il cattivo dio del fuoco e infine con un malefico drago a otto teste, Yamata no Orochi, che infesta la terra di una bella e gentile principessa, Kushinada, destinata al sacrificio.

Susanō è una delle principali divinità (Kami) dello shintoismo, noto come il dio delle tempeste e degli uragani, la sua forza e il suo coraggio erano pari unicamente alla sua insolenza e al suo carattere bellicoso. Per questo motivo venne condannato all'esilio dal Paradiso e mandato sulla Terra, nella regione di Izumo, e da allora il dio divenne un difensore dell'umanità e si dedicò alla causa del bene.
Nell'anime la leggenda assume toni fiabeschi e infantili e il dio Susanō viene dipinto come un principe bambino vivace e irruento ma di buon cuore e affettuoso nei rapporti familiari, in particolare con sua sorella Amaterasu, dea del sole, che lo aiuterà nella sua impresa eroica e infine riporterà la luce e la vita sulla terra della giovane principessa.
Il film sfoggia una grafica estremamente curata nell'eleganza del tratto, nella finezza dei volti, e nella rarefatta atmosfera dei fondali scenografici di alta qualità pittorica, che si distinguono per gli armoniosi accostamenti cromatici e un delicato uso dell'aerografo. Le animazioni sono molto efficaci nonostante il peso degli anni, e meritano una menzione in tal senso la lotta iniziale con la tigre e la concitata e spettacolare battaglia finale con il drago a otto teste Orochi, in cui la ricchezza dei dettagli e la ricerca di realismo raggiunge l'apice.

Vincitore nel 1964 del premio Noboru Ofuji, il film è uno dei primi capolavori nella storia dell'animazione giapponese. La minuziosa realizzazione tecnica e artistica, l'afflato mitologico e la suggestiva colonna sonora concorrono a rendere questa pellicola un classico, importante anche per aver introdotto per la prima volta la figura del direttore dell'animazione nel sistema di produzione (nella persona di Yasuji Mori), e cioè colui che coordina e corregge i disegni degli animatori onde eliminare le piccole differenze nei lucidi e dare uniformità all'aspetto dei personaggi.
La regia è di Yugo Serikawa (1931-2000), le musiche sono di Akira Ifukube, meglio noto come compositore per i film di Godzilla e tra gli assistenti alla regia figura anche l'allora sconosciuto Isao Takahata.
E' interessante notare come questa leggenda sia stata ripresa anche dal recente action-adventure game "Okami" (in cui l'avventura è vissuta dal punto di vista di Amaterasu, sotto forma di lupa dai poteri divini) e come il fascino di queste antiche tradizioni scintoiste sia ancora molto vivo e presente nella cultura e nell'identità del Giappone moderno.

Purtroppo la versione italiana, che probabilmente deriva da quella statunitense, è un adattamento infedele nella cui traduzione vi è più di una distrazione in riferimento agli annali storici. Ciò nonostante "Wanpaku ouji no orochi taiji" rimane un incantevole esempio di favola animata, una perla storica dell'animazione del Sol Levante e una visione indispensabile da parte degli appassionati di questa forma d'arte.