Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Oggi appuntamento libero, con i manga Subete ga F ni naruOne Punch Man e Ranpo kitan Game of Laplace.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


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Gli ingredienti per creare un qualcosa in grado di rompere gli schemi preconfezionati e poco coraggiosi dell'animazione attuale ci sono tutti: il character design di Inio Asano, le musiche di Kenji Kawai, il soggetto tratto da una novel targata 1996 molto popolare in Giappone, "Subete ga F ni Naru" di Hiroshi Mori; una bella opening, accattivante e dalle trovate grafiche strepitose, accompagnata da un brano j-pop orecchiabile e incalzante. Insomma, dopo essere stati affascinati dall'insolita prima puntata - la quale nel mood e nelle tematiche sembra quasi fare il verso alla gloriosa corrente mistery anime novantina - inevitabilmente, episodio dopo episodio, le aspettative vengono sempre più ridimensionate, sino al liberatorio finale; liberatorio in quanto è in grado di mettere la parola fine a una banale vicenda sostanzialmente priva di spessore, che si è protratta con fin troppa solerzia, sino al suo discutibile epilogo dall'amaro sapore d'incompletezza.

Sebbene la novel di Hiroshi Mori potrebbe indubbiamente essere - non l'ho mai letta, ma confido nel parere positivo della critica - assai affascinante e figlia di quel contesto cupo in cui vedevano luce capolavori come "serial experiments lain", quegli anni novanta in cui si temeva la cyber alienazione e si filosofeggiava sul rapporto tra realtà materiale e virtuale, il qui presente adattamento animato gioca molto male la sua ipotetica eredità, soprattutto dal punto di vista registico e narrativo. Un plot del genere - per quanto comunque imperfetto e neanche lontanamente paragonabile ai fasti di Agatha Christie e Arthur Conan Doyle -, messo in mano a un regista di razza avrebbe potuto dare il massimo, senza rivelarsi bistrattato da un adattamento svogliato e privo di autoralità, le cui falle intrinseche fanno più che altro pensare a una manovra pubblicitaria messa in atto soltanto per i nostalgici della novel originale - il fatto che lo script sia eccessivamente nebuloso in alcuni frangenti, quasi come se fosse stato tagliato volontariamente dagli sceneggiatori come un foglio di carta, è un palese indizio del fatto che l'opera sia stata creata per chi conosceva già la storia nei minimi dettagli, e non per il pubblico occasionale.

La regia piatta, inespressiva e priva di una qualsivoglia presa di posizione sulla fiacchezza dei personaggi e sull'infelice gestione degli eventi narrativi, si comporta come uno studente che recita a memoria la lezione davanti al professore, provocandogli un attacco di sonnolenza. Ad accompagnare il difetto principale dell'opera vi sono un'orrenda computer grafica - adibita al design dei veicoli e dei particolari meccanici - di una rozzezza inopportuna, che stona abbastanza con la palette cromatica dei disegni bidimensionali; animazioni tirate al risparmio e cut decisamente da manuale i quali, congiunti ad altre limitatezze stilistiche, fanno sì che l'ipotetico alone di mistero che si dovrebbe creare venga smorzato dall'incapacità tecnica dello staff, che non riesce a trovare il giusto stato d'animo con cui raccontare una storia raccapricciante e incisiva, in cui l'informatica e l'omicidio vanno di pari passo, per poi sfociare in un messaggio nichilista all'acqua di rose che inneggia alla morte come liberazione dalle pene terrene - il testamento spirituale di Magata Shiki, la misteriosa - e odiosa - hacker attorno alla quale ruotano le vicende di "Subete ga F ni Naru".

E' veramente imbarazzante veder muoversi nel misterioso laboratorio/prigione in cui è avvenuto il raccapricciante delitto/chiave di volta dell'opera dei manichini apatici e banali, che recitano la loro parte come se possedessero un coolness factor che in realtà non esiste. La stessa cosa si potrebbe dire di tutto l'anime in sé, che spesso si atteggia a intellettuale così tanto per, senza riuscire a lanciare un messaggio incisivo, credibile e in grado di scuotere lo spettatore dal torpore indotto dalla piattezza generale di ogni cosa, incluso l'atteggiamento irritante della protagonista Moe (di nome, non di fatto!) e del professore-nerd taciturno e geniale sulla carta, ma non nei fatti - ci si può fare un'idea sulla pista che conduce all'assassino già a metà serie, alla faccia di Perry Mason, del Detective Colombo e del suo sinistro occhio di vetro. L'unico personaggio veramente degno di nota, la contorta e disturbata Magata Shiki, non viene affatto sviluppato e analizzato dal punto di vista psicologico - tutto il discorso sulle personalità multiple viene soltanto accennato e poi lasciato per strada -, e tale lacuna inficia profondamente lo spessore del personaggio, che da potenziale genio maledetto si riduce a un noioso fantoccio cliché da film j-horror di serie B che si dà tante arie sul nulla, imbastendo discorsi pseudo-filosofici senza alcun contesto.

Tirando le somme, questa versione animata di "Subete ga F ni Naru" si è rivelata soltanto l'ennesima manovra pubblicitaria basata su un classico del passato, come tante ce ne sono oggigiorno, giacché evidentemente, a parte alcune rare eccezioni, mancano le idee e degli autori validi in grado di svilupparle al meglio. Piuttosto di torturarsi o di annoiarsi con questa visione, conviene passare direttamente al live action drama, il quale è molto più curato, soprattutto dal punto di vista della narrazione. Detto ciò, se paragonato alla media qualitativa degli altri anime contemporanei, il qui presente titolo si dimostra tuttavia - a suo modo - meritevole, pertanto non mi sento di stroncarlo completamente in virtù della banalità di ciò che lo circonda - e non di certo per i suoi effettivi meriti.




9.0/10
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Qual è la ragione del successo di "One Punch Man"? Certamente ce n'è più d'una. Da un lato l'ironia dissacrante e citazionistica appagherà tutti i conoscitori del genere shonen; dall'altro la qualità eccellente delle animazioni e del chara design, come pure della sigla del Jam Project, soddisferà gli estimatori degli aspetti tecnici. È indubbio che carte vincenti di questa serie siano l'originalità e un protagonista del tutto fuori dagli schemi; ma bisogna citare a credito della serie anche il numeroso cast di comprimari, tutti diversi e azzeccati. Io in questa sede mi soffermerò su di un unico aspetto: non pretendo che sia l'unico, né che sia il più importante, ma è certamente un aspetto significativo della serie che merita un'analisi.

"One Punch Man" affascina perché gioca brillantemente sui binomi quotidianità/eccezionalità, stupidità/forza, finito/infinito. Da un lato Saitama è un personaggio insignificante, ordinario, annoiato e antieroico, privo di verve e di fascino, dall'altro è dotato di un potere infinito. Ha una sola arma, un tanto semplice quanto banale pugno, un'arma a disposizione di chiunque, eppure è tutto quanto gli basta. Perché il pugno di Saitama è dotato di un potere senza limiti, e già da sola questa è un'intuizione di grandissimo fascino. Il pugno è la prima arma mai usata dall'uomo, già disponibile ai lattanti, è un'arma di carattere primordiale, anti-tecnologica in massimo grado e dotata di una potenzialità simbolica immensa. Potenzialità simbolica che certo non è stata capita e sfruttata solo da "One Punch Man", ma ha dominato l'immaginario degli anime da decenni, perlomeno dai tempi del Rocket Punch di Mazinga. Il pugno è stato glorificato negli anime robotici per anni e anni, dai Pugni Atomici, ai Magli Perforanti degli anni settanta, fino ad arrivare al Mugen Punch di Aquarion e al Pugno di Shin Mazinger negli anni duemila. Il pugno di Saitama si inscrive in questa tradizione.

Che la forza di Saitama sia sconfinata si capisce benissimo fin dalla prima puntata, quando abbatte un gigante grande quanto una montagna. Nella quinta puntata, in cui Saitama si allena con Genos, ci viene detto esplicitamente che la potenza di Saitama è su di un livello completamente differente da quello di un qualunque eroe anche di classe S. Nella settima puntata il pugno di Saitama distrugge un meteorite, ma senza alcuno sforzo. Non si fa nessuna fatica a credere che il pugno di Saitama possa distruggere un intero pianeta, così come negli anni ottanta facevano le leggendarie Ideon Swords (che nonostante il nome non erano spade, ma semplici estensioni luminose dei pugni del robot gigante Ideon). Del resto nell'undicesima puntata il Dominatore dell'Universo dice esplicitamente che non è in grado di discernere alcun limite alla forza di Saitama.

"One Punch Man" costruisce su una tradizione consolidata, sul fascino irresistibile dell'eroe dal potere senza limiti: nel mondo dei comics occidentali viene in mente la figura dell'Incredibile Hulk, che più si arrabbia più diventa forte, motivo per cui non esiste un limite ufficiale alla forza dei sui pugni. Si potrebbe ascrivere la stessa assenza di limiti alla forza di Ercole, di origine divina (basti che l'eroe reciti la formula "Padre dammi la forza!" per avere tutta la potenza che gli serve). Nel caso di Saitama la genialità è stata quella di associare lo stesso senso dell'infinito che tanto solletica il bambino dentro lo spettatore con un approccio umoristico e dissacrante, per cui Saitama è detentore sì di tanto potere, ma senza ragione apparente (non ha nessuna qualità che lo distingua da innumerevoli altri eroi più meritevoli di lui), senza alcuno sforzo (il suo allenamento, descritto nella seconda puntata, è semplicemente ridicolo) e senza pagare alcun prezzo se non quello (umoristico) della perdita dei suoi capelli. Sembra che come per Sansone la forza sia legata ai suoi capelli, solo che per Saitama è la perdita dei capelli a garantirgli la forza. Chissà cosa gli succederebbe se gli ricrescessero i capelli?

La serie volge a suo vantaggio tutti gli stereotipi della narrativa di genere, primo fra tutti la ripetitività: si sa fin dalla prima puntata che Saitama è invincibile, eppure le sue inevitabili vittorie non annoiano mai, così come il fruitore di racconti gialli non si annoia mai per l'inevitabile vittoria del detective. Ma nel caso di "One Punch Man" ci si diverte di più, perché è impossibile prevedere i dettagli della vittoria, come quando Saitama si mangia il mostro-alga appena sconfitto (apparentemente le alghe sono indicate contro la calvizie!). Per non parlare del fatto che "One-Punch Man" sfotte alla grande tutti i power up e gli allenamenti che ci siamo sorbiti negli ultimi trent'anni, da "Dragonball" a "Naruto": Saitama è invincibile fin dall'inizio, è già l'eroe più forte dell'intero universo e non ho alcun dubbio che sconfiggerà il Dominatore dell'Universo con un sol pugno nella puntata finale.

Insomma, la serie funziona: non solo perché l'idea dei tanti sbruffoni di turno, pretenziosi e che si credono chissà quanto potenti, annientati da Saitama come zanzare, appaga lo spettatore, ma anche per l'occasionale presenza di scene più serie e a volte addirittura commoventi (Mumen Raider, sto parlando di te!). In mezzo a tutto questo la serie si presta anche a svariate interpretazioni di critica della società giapponese. Certamente il sistema dell'associazione degli eroi è qualcosa che può far sorgere più di una riflessione. Per questo e tanti altri motivi è indubbio che "One-Punch Man" sia la serie rivelazione dell'anno. Peccato che duri solo dodici puntate!




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Dopo questo fallimentare "Ranpo Kitan: Game of Laplace", il buon Laplace si starà rivoltando nella tomba. Pensare che il suo nome tanto prezioso per la matematica, la probabilità, l'astronomia e chi più ne ha più ne metta verrà ricordato anche per questo anime è veramente difficile da sopportare. Per di più, per oltre metà serie, non sarà nemmeno ben chiaro il motivo per cui venga citato nel titolo, ma il dubbio verrà scongiurato verso la fine, quando spunteranno deliri di determinismo e ostentate e pretenziose rappresentazioni di ciò che viene comunemente chiamato "demone di Laplace", con annessi superamenti, tramite equazione (ancora mi chiedo come sia possibile), dei problemi introdotti dalla teoria del caos, sfacciatamente citata più volte e raffigurata da farfalle che rimandano - sorpresa, sorpresa - all'effetto farfalla.
Forse gli autori erano convinti bastasse parlare in maniera estremamente approssimativa di simili argomenti e inserire due integrali su un pezzo di carta per far credere si trattasse di un anime geniale, e quindi accalappiare una buona fetta di pubblico. Non si sono affatto resi conto che, al contrario, questa superficialità ha oggettivamente peggiorato ancor più la qualità a priori infima del prodotto e lo ha reso uno dei più desolanti del 2015. Già, perché qui, da salvare, c'è solo qualche OST. Il resto è tutto sbagliato, persino il genere! Infatti, "Ranpo Kitan" vuole rientrare nella categoria giallo, ma l'unico giallo sono la sua esistenza e lo smarrimento della sceneggiatura. Si assiste al caso, solitamente un omicidio commesso dallo psicopatico scriteriato di turno, e si passa direttamente alla risoluzione di esso. Mancano quasi tutti gli elementi fondamentali del genere, come il dispiegarsi di idee e intuizioni e la progressiva ricerca di indizi, spesso utili ad aumentare la dose di coinvolgimento dello spettatore che, invece, qui si ritrova a seguire gli avvenimenti con l'entusiasmo di un elettroencefalogramma piatto.

I personaggi potrebbero generare dei sussulti, ma gli stati d'animo ad essi associati rispondono esclusivamente ai nomi di odio, fastidio, disgusto. Per provare tutto questo basterebbe solo il protagonista Kobayashi, il classico "maschio che sembra una femmina", annoiato dalla propria monotona vita, incosciente, ingenuo e sprezzante del pericolo, motivi che lo porteranno a fare domanda per collaborare alle indagini dei vari, si fa per dire, casi. Rischiare la vita per lui sarà un gioco, gli omicidi saranno un gioco, qualsiasi avvenimento verrà in realtà considerato un gioco. L'amico Hashiba proverà più volte a fargli notare l'errore, ma, essendo totalmente inutile nel corso dell'intera serie, ovviamente non ci riuscirà e sarà ricordato, nostro malgrado, per le solite famigerate scene indirizzate al fanservice yaoi. Il detective Akechi è un personaggio quasi accettabile, non si fa notare, si limita a fare il detective e imbottirsi di medicinali per qualche ragione. Poi c'è una serie di personaggi secondari superflui, tra i quali spicca Lucertola Nera, che dà guerra al temibile Kobayashi nella lotta tra titani per l'award di "personaggio più odioso del 2015". Le interazioni tra questo agglomerato di geni sono nulle, la loro evoluzione psicologica o emotiva non percepibile... Insomma, un disastro!

Anche a livello tecnico in "Ranpo Kitan" vige la mediocrità, manco fosse una regola prescritta. Se almeno nel reparto musicale è facilmente salvabile qualche OST, lo stesso non si può dire per quello artistico, dove, forse per dare un'impronta particolare, forse per problemi di low budget, è stato adottato uno stile insolito, o quantomeno non comune, e portato avanti con coerenza e costanza. Volendo essere più precisi, si può perciò dire che la realizzazione tecnica risulterà gradevole o sgradevole a seconda del soggetto, è difficile dare una valutazione oggettiva.

Per tutto il resto è assolutamente innegabile che "Ranpo Kitan" sia un anime davvero mal pensato e mal realizzato, nonché degno del minimo dei voti.