Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Oggi appuntamento libero, con Misono Universe, The King of Pigs e Stripperella.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


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Nato nel 1976 nella prefettura di Aichi, il regista Nobuhiro Yamashita debutta nel 1999 con "Hazy Life", premiato al Festival di Rotterdam nel 2000. Nel 2005 "Linda Linda Linda", film musicale con Bae Doone nei panni della cantante, è stato presentato al Festival di Toronto ricevendo un grande consenso di pubblico. Il 2015 è la volta del toccante "La La La at Rock Bottom", originale variazione sul tema dell'amnesia, condito con massicce dosi di rock e interpretato da due giovani astri nascenti del firmamento del cinema nipponico: Subaru Shibutani, cantante del gruppo musicale Kanjani Eight e attore nella serie "Eight Ranger", e Fumi Nikaido ("The World of Kanako", "Why Don't You Play in Hell? "), già vincitrice del Premio Marcello Mastroianni come miglior attrice al Festival Internazionale del Cinema di Venezia nel 2012 per "Himizu". Il palcoscenico è la città di Osaka con la variopinta umanità dei suoi abitanti. Il titolo giapponese "Misono Universe" si riferisce al Misono, storico edificio del '55 divenuto simbolo della città, all'interno del quale vi è il famoso club Universe che normalmente ospita band dal vivo e in cui sono girate numerose scene del film.

La storia esordisce durante un concerto di musicisti soul/rock di mezza età in una piazza di Osaka, quando un tipo dallo sguardo assente e dall'aspetto malconcio sale sul palco e afferra il microfono eseguendo una canzone a cappella con sorprendente trasporto. Subito dopo si accascia al suolo come un sacco di patate. Grazie alle cure di Kasumi, giovane manager della band, lo sconosciuto riprende conoscenza, ma sembra afflitto da totale amnesia, non ricorda nulla, nemmeno il suo nome, eccetto il testo della canzone che ha appena cantato. La ragazza, che ha notato il suo innato talento, lo invita a unirsi alla band come voce solista con il soprannome di Pooch e lo ospita a casa di suo nonno che soffre di demenza senile. Malgrado il suo talento, Pooch è un'anima inquieta e, quando il suo oscuro passato comincia ad affiorare, Kasumi si ritroverà tra le mani molto più di un solista inaffidabile.

Quando due diverse identità si incontrano, qualcosa di interessante accade sicuramente. Su questa tesi sembra basarsi la trama di "La La La at Rock Bottom". Come in quasi tutti i film precedenti del regista, nel ruolo principale abbiamo un eroe frustrato che vive ai margini della società. L'amnesia (e il conseguente reboot esistenziale) è usato come espediente narrativo per giungere a esiti per niente scontati. Ma la vera forza del film sta nel tocco del regista più che nelle pieghe inaspettate dello script. Il suo sguardo si sofferma spesso sui margini della società, con sprazzi di comicità teatrale e scanzonata nello spirito e nei modi caratteristici della gente di Osaka. Come nel suo cult generazionale "Linda Linda Linda", ancora una volta è il rock a fare da trait d'union per due esistenze parallele che altrimenti non si sarebbero mai incrociate. Impareggiabile narratore del mondo dei teenager, Yamashita usa la musica anche per esprimere tutto l'impeto e la passione giovanile.

Alcuni trovano i film di Yamashita estremamente lenti, senza particolari indizi su dove la trama andrà a parare. Altri sostengono che sia un brillante regista con una visione personale e un grande senso dell'umorismo. Sicuramente non è un tipo di regista da blockbuster, tuttavia in questo caso pare che abbia tentato una strizzatina d'occhio al grande pubblico, scegliendo come attore protagonista proprio quel Subaru Shibutani, cantante della popolare band giapponese dei Kanjani Eight, il gruppo di Osaka che ha attirato più di 780.000 spettatori con quaranta concerti solo nel 2013. Ad ogni buon conto il regista spoglia il suo attore della sua consueta immagine radiosa, creando un personaggio per sottrazione, scabro e privo di fascino appariscente, aiutato in questo dallo stesso Shibutani con la sua interpretazione introversa ed essenziale, lontana anni luce dall'esibizionismo della maggior parte dei pop idol. Fumi Nikaido non è da meno dando prova di grande duttilità e vestendo i panni dimessi e per niente glamour di Kasumi, personaggio complesso che unisce al contempo una sicurezza quasi materna alla fragilità tipica dell'adolescenza. La relazione al centro del film è sottile, complicata, descritta in modo minimalista, prevedibile negli esiti ma tutt'altro che stereotipata. La disperata malinconia dei due protagonisti non è mai data in pasto a scene patetiche e forzatamente lacrimevoli, è invece suggerita delicatamente attraverso i piccoli gesti della vita di tutti i giorni. Un silenzioso primo piano può rivelare lo stato emotivo di un personaggio più di mille espedienti. Questa è una delle cifre stilistiche di Yamashita, il suo personale modo di esprimere un romanticismo sussurrato, fatto di primi piani e lunghe inquadrature fisse, come quella che incornicia uno dei momenti più emblematici del film, quando i due protagonisti competono nello sputare semi di anguria con la giocosità e l'innocenza di due bambini.

Ricordarsi di non avere niente di cui essere orgogliosi nella vita è una delle cose più difficili che un uomo possa affrontare.



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Un coltello è quello che distingue gli esseri umani dagli animali.
Non è una parte del mio corpo, ma mi dà comunque forza.
Ma quando gli uomini crearono i coltelli, anche qualcos'altro di inaspettato fu creato.
Il male.
Come gli artigli affilati di quel gatto, così è il rifiuto di lasciar andare il coltello, che non è una parte del nostro corpo.
Ciò che ci rende umani è il male stesso.
Ma allora, cosa possiamo fare per ottenere il potere? Forse delle buone azioni?
No. Per ottenere il potere dobbiamo diventare il male.
Se non vuoi essere una nullità devi diventare un mostro. Capito?


Un giorno, dopo aver brutalmente ucciso la moglie, Hwang Kyun-min, un amministratore delegato pieno di debiti, chiama il suo amico d'infanzia Jung Jong-Suk, uno scrittore fallito prigioniero di una vita piena di delusioni e frustrazioni. L'incontro tra i due diventa un pretesto per ricordare i giorni in cui andavano a scuola, un'istituzione non molto diversa dalla società in cui ora vivono, da adulti; tra un frammento di memoria e l'altro, emerge il ricordo dello scaltro Re dei Porci, un disadattato armato di coltello che li proteggeva dagli atti di bullismo quotidiani perpetuati dall'élite della classe, un ristretto gruppo di ragazzi provenienti da famiglie potenti e agiate, i quali potevano permettersi di infliggere ogni tipo di umiliazione ai meno fortunati restando impuniti e protetti dalle istituzioni.

Si intuisce subito dove il regista coreano Yeun Sang-ho voglia andare a parare con il suo tetro film d'esordio; non serve neanche citare la ricerca del realismo più nauseante e allucinato che traspare da ogni singolo fotogramma dell'opera, in cui ogni cosa è orrenda proprio perché è così, e non può essere altrimenti. Il ritratto dell'attuale società coreana che ne scaturisce è paragonabile a quello del Giappone postbellico, in cui il divario sociale e la violenza dominavano incontrastati; non per nulla, "The King of Pigs" ha molto in comune col gekiga giapponese degli anni sessanta e settanta, una corrente di pensiero adulta e disillusa che culminava quasi sempre in una feroce negatività senza alcuna speranza di redenzione.

L'allegorico ambiente scolastico, nell'immaginario del sociopatico protagonista Jung Jong-suk, viene suddiviso - in un modo che ricorda molto "La Fattoria degli Animali" di Orwell - tra cani e porci; ci sono quelli che ringhiano aggressivi con la bava alla bocca, pronti ad azzannare i membri della casta inferiore: gli sporchi, arrivisti e codardi maiali dalle carni tenere e succulente. Inutile dire che i porci sono destinati a rimanere per sempre porci, non è possibile che possano trasformarsi in cani: la struttura stessa dell'ambiente esterno non lo permetterebbe mai, è una fredda e imperturbabile legge della natura che non potrà mai essere modificata. Come direbbe Golding, l'uomo produce il male come le api producono il miele; il Re dei Porci è in un certo senso un'equivalente del Signore delle Mosche, un'ossessione da incubo la quale tormenta gli eterni perdenti che non riescono ad accettare la loro miserabile condizione e che si agitano come porci nel fango, scaricando sui più deboli le loro ansie e frustrazioni, tentando di emulare i cani in modo rituale - la raccapricciante scena in cui i tre protagonisti torturano un gatto indifeso con un coltello.

Il carburante che mette in moto la macchina della follia da sempre latente nell'uomo è un dio ben noto a tutti: il dio denaro. Nel film emerge una pesante critica allo sfrenato consumismo della Corea del Sud, dove un paio di pantaloni di marca ed un innocuo smartphone - dei capziosi e vani status symbol che in quei lidi sono privilegi di ben pochi eletti - possono diventare dei veri e propri strumenti di prevaricazione del più debole; la scena chiave in cui il protagonista ruba dei jeans Guess alla sorella - ignaro che siano da donna, soltanto per emulare il tanto invidiato establishment scolastico - con il suo sfociare in un macabro, impunito atto di bullismo denso di pura cattiveria, ricorda molto quello che in Italia disse parecchi anni fa Frankie HI-NRG MC con il suo brano "Quelli che Benpensano": gli ultimi saranno sempre gli ultimi, se i primi sono irraggiungibili.

Sono quindi mattonate sui denti dal ferreo realismo, quelle che questo misconosciuto film d'animazione coreano fa arrivare in faccia all'occasionale spettatore occidentale. Il punto culminante dell'angoscioso cammino orchestrato con maestria da un autore decisamente incazzato con la razza umana è il simbolico finale, con le sue tragiche immolazioni che fanno finire il tutto nel peggiore dei modi possibili, giusto per confermare in modo agghiacciante, con una profonda sottolineatura rosso sangue, quanto l'uomo sia debole, inetto ed egoista - un misero animaletto condannato alla disperazione, all'irrazionalità e alla mediocrità, e assolutamente incapace di diventare l'onnipotente mostro che vorrebbe essere.

Dal punto di vista tecnico l'opera risente del basso budget che le è stato destinato; sebbene la regia e la sceneggiatura siano ottime, le animazioni risultano assai grossolane e scattanti e talvolta penalizzano parecchio la resa del prodotto finale. Interessante notare la scelta dello stile grafico, che si dimostra rozzo, disturbante, efficace nel descrivere i deliri del gruppo di inetti a cui dà forma. Detto ciò, come prova d'esordio, questo "The King of Pigs" si dimostra assai maturo, lucido e spietato; nondimeno, con il successivo "The Fake" il regista avrà modo di aggiornare le tematiche sviluppate in questo film, migliorando ulteriormente la sua truce, violenta e disillusa poetica.



7.0/10
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Tra i tanti supereroi creati dalla mente di Stan Lee, storico creatore di Hulk, Spider-Man e centinaia di altri eroi che ora non sto a scrivere perché altrimenti non la finisco più, c'è ne pure una un po' zoccola che non sono in molti a conoscere: il suo nome è Stripperella.
Il personaggio è basato sull'attrice Pamela Anderson, nota ai maschi ex adolescenti negli anni '90 per il ruolo di C. J. Parker nel lungo telefilm "Baywatch". La Anderson è anche la doppiatrice del personaggio per tutti gli episodi.

Stripperella è un super eroina che lavora per una agenzia governativa segreta, affrontando varie minacce e criminali. Il suo nome in codice è Agente 69 ed è l'alter ego di Erotica Jones, una bellissima spogliarellista e ballerina di lap dance. Quando il piercing ombelicale di Erotica vibra, vuol dire che è il momento per Stripperella di entrare in scena.
La serie lunga tredici episodi non ha una vera trama o una storia che prosegue nei vari episodi, al contrario si tratta sempre di storie autoconclusive dove di volta in volta Erotica/Stripperella affronta sempre nuovi criminali e pericoli; solo in due episodi ci sono dei nemici che ritornano.

Il cartoon non è da prendere sul serio, si tratta di una serie comica, con un umorismo un po' volgare, che gioca molto sui doppi sensi sessuali, sia nel parlato che in quello che viene mostrato. Ad esempio c'è una nemica che si chiama Queen Clitoride e con lei si sprecano le battute sul stimolarla/trovarla/accarezzarla, ecc. C'è anche qualche scena di nudo, solo tette comunque, quando viene mostrato il luogo di lavoro di Erotica, il Tender Loins, con le sue colleghe intente a ballare la lap dance.
Oltre all'umorismo a sfondo sessuale, la serie gioca molto sui vari cliché di questo tipo di opere, come la difficoltà di Erotica nel riuscire a mantenere una doppia vita o i vari "super" cattivi che elaborano piani assurdamente complicati.

Tecnicamente, per essere un cartoon made in USA, non si può dire che sul lato grafico la qualità sia altissima, ma lo standard di disegni e animazioni è nella media. C'è un solo grosso difetto che inficia molto sulla qualità complessiva della produzione: a meta serie, cioè dall'episodio 7, lo stile grafico cambia completamente. Tutti i personaggi vengono ridisegnati, a Stripperella viene cambiato il costume, e nel complesso la serie cala anche in sceneggiatura, con battute e storie un po' più fiacche.

Il cartoon è stato trasmesso anche in Italia sul canale FX, con un buon doppiaggio, la cui unica pecca è la poca varietà di voci, con diversi doppiatori che doppiano diversi personaggi anche nello stesso episodio camuffando la voce, alzando o abbassando le tonalità.

Se devo esprimere un giudizio sincero, devo dire che la serie mi ha sorpreso molto e lo ha fatto in modo positivo. Ho guardato la serie solo per il coinvolgimento di Stan Lee e di Pamela Anderson, ma mi aspettavo una mezza cavolata o anche peggio, invece la serie si è rivelata inaspettatamente gradevole e molto divertente. E' una serie stupida, quello sì, ma qualche battuta è davvero sorprendente e nel complesso fa bene quello che deve fare: intrattenere e divertire.
Peccato che la serie sia durata una sola stagione e che non abbia un vero finale. Sembra pure che tra i motivi del mancato rinnovo ci siano dei problemi legali: sembra infatti che un ex spogliarellista abbia fatto causa a Stan Lee con l'accusa di avergli rubato il nome d'arte o qualcosa del genere.

Per quel che vale, comunque, pure senza finale, i tredici episodi che compongono il cartoon vale la pena vederli per farsi due risate.