Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
Per saperne di più continuate a leggere.

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Su "Samurai Champloo" grava il peso di una spada a doppio taglio. Il grosso vantaggio, ma anche il grosso neo, di questo anime è la sua leggerezza: da un lato risulta essere davvero molto scorrevole, io personalmente ci ho messo un niente a vedere questi ventisei episodi che scivolano via come olio sull'acqua; dall'altro, questa sua vaporosità sfuma in una inconsistenza di fondo che a tratti risulta indisponente.
Vedo di spiegarmi meglio. "Samurai Champloo" fa gioco forza su una complessiva levità: non è uno di quei panegirici animati cerebrali e riflessivi che già dopo due puntate ti fanno sentire il bisogno urgente di un'aspirina, e che alla quarta devi sospendere e ricominciare perché non ti ci raccapezzi. Tutt'altro, è una serie molto spiccia e franca, diretta come il protagonista Mugen, che non necessita di introspezione e grandi riflessioni personali per risultare gradevole.
Certamente questa sua caratteristica ha degli estimatori, attratti da un anime vivace, con buoni combattimenti, un mare di irriverenza e diverse situazioni comiche che sicuramente ci hanno fatto sorridere un po' tutti, anche chi in generale non ha apprezzato l'opera nella sua interezza. Ma altrettanto certamente c'è chi non riesce a digerire del tutto la sua leggerezza, soprattutto alla luce di quelle poche puntate in cui ci si addentra in temi e situazioni più mature e serie. Personalmente entro a far parte di questa cerchia dubbiosa: come può una serie capace di puntate davvero pregne di simbolismo e allegorie degne di un Kurosawa, di inquadrature alla Kubrik, di significati e di tematiche di livello (le sole sono gli episodi 7, 11, 16 e 17, 20 e 21) perdersi in tanta mediocrità di sottofondo? Perché è stato concesso così poco spazio a qualcosa di serio, per lasciarne tanto invece a puntate molto meno dense, molto meno valide tematicamente, evitabili e sbiadite, tanto da far pensare che, saltandole di piè pari, non sarebbe di certo successo il finimondo?

Alla fin dei conti "Samurai Champloo" mi ha deluso, perché non riesco a vedere di buon occhio una serie così intermittente, dove il valore medio è spostato decisamente verso il basso causa tanti episodi che verrebbe da considerare filler, se non fossero in numero predominante sui restanti. Apprezzo comunque tante cose di questa serie: l'irriverenza alla base del progetto; i diversi riferimenti a una cultura underground decisamente e volutamente in contrapposizione storica con il periodo Edo in cui si svolgono i fatti, quali il beat-boxing o il tagging graffitaro; la colonna sonora, per una volta differente dal solito j-pop o j-rock a mio parere sempre un po' dozzinale.
Ciononostante, non posso considerare l'anime il capolavoro che è per tanti. E' sicuramente una serie piacevole, che come ho detto precedentemente scorre molto bene e che comunque ha diverse buone caratteristiche, ma oggettivamente non trovo sia un masterpiece, una pietra miliare dell'animazione.


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“Alive - Evoluzione finale” è un manga ideato da Tadashi Kawashima e disegnato da Adachitoka, raccolto in ventuno volumi, e portato in Italia dalla GP Manga a partire dal settembre del 2009. Kanou Taisuke è un ragazzo come tanti altri e conduce un'esistenza normale e pacifica sino a quando il pianeta Terra non viene improvvisamente scosso da un fenomeno inspiegabile, che spinge i suoi abitanti al suicidio. Coloro che scelgono di togliersi la vita sembrano farlo felici e soddisfatti della propria scelta, ma sebbene Taisuke rischi di cadere in tentazione, riesce a resistere al forte impulso. In seguito, scopre di aver sviluppato dei poteri, ma si renderà presto conto, purtroppo, di non essere il solo. Una minaccia proveniente dallo spazio si insedia infatti fra gli esseri umani con l'intento di sterminarli.

“Alive - Evoluzione finale” è un'opera decisamente particolare e difficile da inquadrare. È uno shounen piuttosto crudo e spietato che in mezzo ai mille combattimenti e colpi di scena approfondisce delle tematiche inusuali per il genere, indubbiamente più mature dello standard, e le esamina realisticamente, senza l'eccessiva dose di buonismo presente nella maggior parte dei suoi simili. La trama propone un incipit tutt'altro che originale, ma riesce a sfruttarlo bene, destando sin da subito l'interesse del lettore. Dopo un inizio scoppiettante e una prima fase più che buona, l'opera compie qualche passo falso nella sua parte centrale, dove il ritmo cala improvvisamente sino al compiersi dell'atto conclusivo. Qualche scena di vita quotidiana di troppo lascia al lettore il tempo di rifiatare, ma allo stesso tempo smorza drasticamente la tensione e rovina in parte l'eccellente atmosfera ricreata. Per quanto riguarda i personaggi, il "cast" è piuttosto ampio e variegato, e in generale gode di una caratterizzazione più che discreta.

Dal punto di vista stilistico, Adachitoka svolge un ottimo lavoro sia per quanto riguarda il design dei personaggi, sia per quanto riguarda la rappresentazione dei loro svariati poteri, che in alcuni casi mi sento di definire originali e intriganti. I combattimenti si lasciano seguire con piacere, le tavole sono sempre pulite e di facile comprensione, anche nei momenti più caotici. Seppur l'arco conclusivo sia ben orchestrato e accattivante, ho trovato il finale piuttosto scialbo e non all'altezza delle aspettative. Deludente il ruolo e l'incisività del nemico da tutti temuto, e forse anche un'eccessiva dose di buonismo che fino a quel momento era stata quasi completamente assente. In conclusione, “Alive - Evoluzione finale” si è rivelata essere un'ottima opera sotto molti punti di vista, uno shounen maturo e coinvolgente sin dalle prime battute. Nonostante la fase centrale non sia particolarmente esaltante, rimane un prodotto più che valido, del quale consiglio caldamente la lettura, soprattutto se cercate qualcosa che si distacchi dal classico.


9.0/10
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Era il 2004 quando un titolo passato quasi in sordina in patria, diretto da un regista di mezz'età sconosciuto ai più, fece le sue prime apparizioni nei festival nazionali. Come un vero e proprio pugno in faccia, il film sconvolse fin nelle fondamenta il cinema d'animazione giapponese: distanziandosi dagli ormai abusati tòpoi che monopolizzavano il mercato, l'allora trentanovenne Masaaki Yuasa (questo il nome del regista) e i produttori del vulcanico Studio 4°C decisero di calcare con forza il pedale dell'originalità, mettendo totalmente da parte la logica delle vendite per consegnare alla storia un prodotto quanto mai anarchico, unico e irripetibile, fondamentalmente diverso da qualsiasi altra opera fosse stata concepita in precedenza. Trasposizione dell'omonimo manga semi-autobiografico di Robin Nishi, serializzato sulle pagine di Comic Are! di Magazine House, Mind Game si dimostra fin dai primi fotogrammi un vero e proprio esperimento visionario e anticonvenzionale, capace di amalgamare codici e correnti artistiche differenti - tra cui psichedelia, pop art, surrealismo, avant-garde e materiale live action - come nessun altro lungometraggio cinematografico aveva mai osato prima. Il risultato è un'opera che al momento dell'uscita fu ovviamente ignorata dalle masse, ma che pervenne quasi subito allo status di cult movie celebrato parimenti da critica nazionale e internazionale, persino nei circuiti che fino ad allora avevano bellamente ignorato l'animazione giapponese: il film fu lodato apertamente da mostri sacri dell'industria occidentale come Bill Plympton (Idiots and Angels) e ottenne diverse candidature a rassegne di grande prestigio, arrivando a vincere il Grand Prize al Japan Media Arts Festival (superando, tra gli altri concorrenti, Il castello errante di Howl) e ben cinque premi al Fantasia International Film Festival di Montréal, tra cui miglior film, regista e sceneggiatura. La stessa Madhouse, del tutto estranea alla produzione dell'opera, fu colta da un tale entusiasmo nei suoi confronti che si mise a promuovere la pellicola a spese proprie; difatti non è un caso che quasi tutti i lavori successivi del regista - tra cui i celebratissimi Kaiba e The Tatami Galaxy - saranno prodotti e realizzati dal noto studio d'animazione fondato da Masao Maruyama.

Nonostante sia l'esordio alla regia di Masaaki Yuasa, personaggio fino ad allora semi-sconosciuto e associato perlopiù alla direzione dell'animazione di opere come lo stravagante cortometraggio Nekojiru-sou e la serie di film Crayon Shin-chan, il film palesa una maturità artistica e contenutistica non comune; forte di uno staff di valore - che annovera tra gli altri il talentuoso Kōji Morimoto alla direzione delle animazioni, Tōru Hishiyama alla (straordinaria) direzione artistica e nientemeno che Shin'ichiro Watanabe come produttore della colonna sonora (composta dal poliedrico Seiichi Yamamoto) - Mind Game può dirsi a tutti gli effetti la vera e propria summa artistica di un autore che, più di chiunque altro, ha saputo dal principio definire un proprio stile originale e personalissimo, del tutto avulso alle logiche del mercato e della cultura otaku.

Fin dai primi minuti la spiazzante carica anticonformista dell'opera si respira a pieni polmoni: il film si apre con una breve sequenza onirica accompagnata da un montaggio frenetico, da videoclip, che catalizza l'attenzione dello spettatore su alcune scene di vita quotidiana sconnesse e sempre più vorticose. Ma la pellicola, tutt'a un tratto, cambia atmosfera.
Viene presentato il protagonista, Robin Nishi: ragazzo insicuro e completamente privo di fiducia in sé stesso, Nishi incontra casualmente in treno la bella e prosperosa Myon-chan, ex-compagna di scuola per la quale aveva una cotta adolescenziale. Soffocando fin da subito i suoi goffi tentativi di recuperare il tempo perduto, Myon lo invita a cena nel locale di famiglia: lì Nishi conosce il padre donnaiolo e ubriacone della ragazza, nonché il suo attuale fidanzato - un belloccio alto, abbronzato e raggiante. Ma nel momento in cui Nishi abbandona le speranze di riuscire a riconquistare la sua amata, irrompono improvvisamente nel locale due yakuza, giunti per riscuotere un debito con il padre.

Yuasa si dimostra immediatamente capace di giocare con i generi e con gli stili, esibendo nonostante la scarsa esperienza una padronanza del mezzo e una maturità artistica straordinariamente fuori dal comune: la palette di colori - fino ad ora tenue e misurata - vira sul rosso acceso, le inquadrature si fanno più estreme, la fotografia più claustrofobica e l'atmosfera assume toni quasi tarantiniani, tra spiazzanti scatti di ultra-violenza sempre in rima baciata con esilaranti incursioni nel grottesco.
Il povero Nishi, ritrovatosi in un improbabile Paradiso dopo essersi beccato una pallottola in corpo da uno dei due yakuza, incontra nientemeno che Dio - incarnato da un bislacco essere dalla forma spaventosamente mutevole - che subito gli indica la porta che conduce all'estinzione; ma Nishi, invece di accettare il proprio destino e scomparire, in un moto di attaccamento alla vita si getta a capofitto nella direzione opposta, ritrovandosi nuovamente vivo e vegeto nel ristorante di Myon, poco prima che l'energumeno armato di pistola lo spedisse all'altro mondo.
Attraverso l'espediente del reset the world - che sei anni dopo sarà maggiormente sviluppato dall'autore nel capolavoro The Tatami Galaxy - inizia dunque a prendere forma il leitmotiv che caratterizzerà l'intera opera: la vita, le scelte, e soprattutto l'inarrestabile tenacia (mista a un pizzico di follia) insita nel desiderio e nella speranza che caratterizzano l'uomo da sempre. Nel momento in cui Nishi rimette piede sulla Terra, ha inizio una rocambolesca e delirante fuga che lo porterà, insieme a Myon e a sua sorella Yan, a essere inghiottito da un'enorme balena, all'interno della quale, con loro sommo stupore, i tre giovani incapperanno in un arzillo vecchietto ivi intrappolato da oltre trent'anni.

Facente dunque della carica eversiva il proprio cardine, Mind Game affianca alla creatività della sceneggiatura - del tutto svincolata dai canoni classici dell'appartenenza ai generi e spesso inframezzata da interludi onirici e volutamente nonsense - un comparto grafico visionario e creativo, che si distacca con coraggio da tutto quanto era stato fino ad allora prodotto, assumendo quasi i connotati di un divertissement psicanalitico.
Il character design grezzo e vagamente geometrico si sposa con una scenografia minimalista e psichedelica, composta da figure distorte e stilizzate, studiate per avvolgere i personaggi in un unicum compositivo che diviene parte integrante della narrazione; le inquadrature grandangolari e dinamiche, spesso portate all'estremo e tempestate da impressionanti movimenti di macchina, spremono il medium dell'animazione fino alla buccia, in un vorticoso gioco iper-cinetico che non lascia tempo di tirare il fiato. Yuasa sperimenta con il colore, con la comunicazione visiva, con il simbolismo e con i registri stilistici, pescando a piene mani tanto da Salvador Dalì quanto dalle derive postmoderne del nuovo millennio - prima tra tutte l'estetica superflat di Takashi Murakami; il suo genio creativo si palesa inoltre nella grande varietà di tecniche d'animazione utilizzate, che abbracciano disegno tradizionale, computer graphics, fotografia e materiale live action animato in rotoscoping.

In particolar modo colpiscono le (brevi) sequenze realizzate con materiale filmato, che si sovrappongono alle scene animate a mano in un bizzarro gioco diegetico di puro sperimentalismo visivo; queste sovrapposizioni, perfettamente integrate nel contesto, per la loro "unicità" arricchiscono le scene di una sottile atmosfera assurda e innaturale; esse sono inoltre state girate da Yuasa in persona, che ha impiegato come attori gli stessi interpreti dei personaggi.

«Al giorno d'oggi le persone sono piuttosto abituate a questo genere di cose, non ne sono più così sconvolte: è per questo motivo che ho deciso di inserire qualche parte in live action e alcune foto. La mia speranza è che queste scene arrivino allo spettatore quasi come "impreviste" e improvvisate. [...] Abbiamo assunto uno staff specializzato per il live action, e io stesso sono stato presente durante le riprese per dare le direttive; però all'epoca non sapevo nulla di riprese dal vivo, quindi per me è stato un vero e proprio processo di apprendimento. [...] All'inizio pensavamo di utilizzare dei doppiatori differenti, ma per vari motivi ho infine optato per lavorare con le stesse persone. La mia scelta dei doppiatori è stata infatti influenzata dalla consapevolezza che loro stessi sarebbero dovuti apparire nel film. Credo che i risultati si siano rivelati migliori rispetto all'utilizzo di due persone diverse per fare i volti e il resto del doppiaggio.» (Masaaki Yuasa)

Ma oltre all'intesa perfetta di stili differenti, Mind Game - come tutte le altre opere del regista - presenta anche un'eccezionale utilizzo del ruolo dell'ambientazione: il setting è sempre dinamico, assume una sua profondità e interagisce continuamente con i soggetti in primo piano; le prospettive spesso distorte e mutevoli mettono i teatranti a stretto contatto con la tridimensionalità del mondo in cui si muovono, favorendone un'esplorazione continua anche da parte dello spettatore. Emblematica a tal proposito è la scena dell'inseguimento in auto, in cui un Nishi particolarmente entusiasta fugge insieme alle due sorelle da un vero e proprio esercito di yakuza agguerriti: a un certo punto la "macchina da presa" compie una serie di rotazioni circolari di 360° all'interno dell'automobile del protagonista, mettendo in evidenza una cura fuori dal comune - oltre che nella background animation - nell'ambiente e nel contesto scenografico, che non funge da semplice "contorno" dell'azione, ma che ne diviene altresì parte integrante e attiva.
Questa commistione tra azione e contesto è ammirabile anche e soprattutto in una delle sequenze più ispirate della pellicola, ovvero la straordinaria scena d'amore: senza proferire una parola i due protagonisti si uniscono, si deformano e si fondono in un'esplosione di colori, stagliandosi su di un vivace sfondo che va a comporre un vero e proprio dipinto astrattista in movimento, ironicamente accompagnato da roboanti figure che richiamano simboli fallici - un treno in corsa - e altri (neanche troppo) velati riferimenti alla sessualità. Una scena da antologia, che attraverso la più semplice associazione di immagini e musica suggerisce un sussurrato e sensuale mix di vitalità, intimità e romanticismo.

Ma al di fuori della ricercatezza formale, il film pone un'interessante chiave di lettura sulla vita come risultato delle proprie scelte e della volontà individuale, incarnate dal protagonista Nishi soprattutto nella seconda parte dell'opera. L'incontro - da trip lisergico - con il bizzarro Dio è infatti il punto di rottura con il passato, che viene atrofizzato e superato: la consapevolezza acquisita dopo il ritorno sarà infatti il pretesto per un percorso liberatorio, una crescita interiore che solo nella pienezza dell'esistenza trova la sua raison d’etre.

«Il manga originale diceva: "Prova! Tentaci! Non lasciare che nulla ti fermi! Si può fare ciò che si vuole se si tenta!". Be', io personalmente non avevo una fiducia tale da spingermi così in là, e pertanto ho deciso di modificare un po' il messaggio. Possiamo dire che è ancora un "si può fare ciò che si vuole se si tenta", ma leggermente "smussato". [...] Anche se non si ottiene ciò che si vuole, la cosa importante è tentare. Il risultato non è importante. La cosa importante è godersi il percorso, il processo dei propri sforzi.» (Masaaki Yuasa)

Nell'iperbolica - e metaforica - corsa finale, questa ricerca sarà difatti vista come un folle e atavico precipitarsi verso la propria felicità; una spinta catartica che vede gli uomini - simbolicamente nudi e purificati - impegnati a correre affannosamente sulle proprie gambe verso l'oggetto delle loro pulsioni, stramazzando al suolo e risollevandosi, afferrando ogni appiglio e trascinandosi l'un l'altro, con una caparbietà tanto animalesca quanto commovente. La riflessione sulla vita sarà peraltro uno dei temi più cari a Yuasa anche negli anni a venire, tanto da essere trattato in maniera più o meno incisiva in tutti i suoi lavori, compreso lo spokon Ping Pong the Animation.
Una carrellata di immagini vorticose, stavolta contestualizzata e perfettamente comprensibile, completa tutti i tasselli della trama e chiude il cerchio.
Il talento iconoclasta di Masaaki Yuasa pone in tal modo la firma su un'opera destinata a rimanere una stella isolata nel firmamento dell'animazione giapponese, simile solo a sé stessa e forse massima espressione artistica di un certo tipo di cinema sperimentale di natura maggiormente "commerciale", che meritatamente consacra il suo autore tra i massimi esponenti dell'animazione giapponese "alternativa" negli anni a venire.