1999, un anno fondamentale per Hiroyuki Okiura. Animatore prodigio fin dall'età di 16 anni, Okiura si fa conoscere per le sue animazioni in opere fondamentali come Akira o Patlabor, fino a venire scelto per curare il Character Design del capolavoro cinematografico di Mamoru Oshii: Ghost in the Shell. Il visionario regista di Uruseiyatsura, Patlabor e Ghost in the Shell sembra apprezzare l'abilità del giovane Okiura, tanto da affidargli le redini del suo successivo progetto animato. Jin-Roh, lungometraggio animato appartenente alla Kerberos Saga e realizzato da Production I.G, vede il debutto alla regia di Hiroyuki Okiura, con Oshii che si occupa di stendere il soggetto e la sceneggiatura.
Ad affiancare l'affiatata coppia maestro-allievo, importanti nomi come Tetsuya Nishio al Character Design, Hiromasa Ogura alla direzione artistica o Hajime Mizoguchi alle musiche.
Il film è disponibile in italiano grazie a Anime Factory.
 
Nel Giappone che lotta per uscire dal dopoguerra, le prime gemme del miracolo economico convivono con le ultime fiamme dell’agitazione sociale. Durante uno scontro nelle fogne di Tokyo, una giovane terrorista si lascia esplodere con una bomba davanti agli occhi di Kazuki Fuse, agente della polizia speciale DIME. Fuse è sottoposto a provvedimento disciplinare, ma il ricordo dell’accaduto continua a tormentarlo. Intanto, labirintici giochi di potere vorrebbero lo smantellamento della DIME, ma ai piani alti si mormora dell’esistenza di un’organizzazione parallela al suo interno chiamata Jin-Roh, gli Uomini-Lupo. Quale può essere il ruolo di Fuse in tutto ciò? L’obbediente cane agli ordini del potere? Il lupo sanguinario che riconosce solo i propri simili? Oppure, semplicemente, un essere umano?

Per l'occasione del ventenniale riportiamo dal sito del noto traduttore Yupa due interessanti interviste a Hiroyuki Okiura (regia) e Mamoru Oshii (soggetto e sceneggiatura) tramite cui approfondire l'opera e le motivazioni dietro alle scelte effettuate durante la realizzazione del film.
 

OKIURA HIROYUKI ‑ INTERVISTA

La seguente intervista è tratta dal seguente volume: AA.VV., Jinrō ManiaXX, Tōkyō, Kadokawa Shoten, 2000, pp. 70‑76.
La traduzione è stata realizzata da Yupa tra i giorni 4 e 29 Dicembre 2003, riveduta e corretta tra il 21 e il 23 Febbrajo 2004.
La traduzione con ha alcun fine di lucro, ma l'unico obiettivo di divulgare in lingua italiana informazioni sull'animazione giapponese altrimenti irraggiungibili.
Dizionarî adoperati:
- AA.VV., Dizionario Shogakukan Giapponese-Italiano, 1994, Shogakukan, Tōkyō.
- Nelson, Andrew Nathaniel, The modern Reader's Japanese-English Character Dictionarysecond revised edition, 1974, Tuttle Language Library, Rutland-Tōkyō.
- Matsumura Akira (a cura di), Daijirin, 1995 (seconda edizione), Sanseidō, Tōkyō.
Tutti gli errori e le omissioni, nonché le note contenute tra parentesi quadrate, sono da addebitarsi al traduttore. In caso di citazione si prega di non alterare il contenuto.
L'ordine cognome-nome rispetta l'originale giapponese e non è ribaltato come invece avviene di consueto (quindi Okiura Hiroyuki e non Hiroyuki Okiura).

 
Jinrō è il film con cui Okiura Hiroyuki debutta alla regia. Pur con soggetto e sceneggiatura dovuti a Oshii Mamori, il film, una volta completato, è senza alcun dubbio risultato un'opera di Okiura. La produzione è durata circa tre anni. Cosa ha cercato di rappresentare Okiura tramite Jinrō? Questa lunga intervista ha l'obiettivo di affrontare i segreti del film.

- Nonostante diversi elementi immaginarî, lo scenario di Jinrō alla fine corrisponde agli anni trenta dell'era Shōwa [l'era Shōwa corrisponde al periodo di regno dell'imperatore giapponese noto in occidente come Hirohito, il cui anno I è il 1926 e che termina nel 1989, anno I dell'era Heisei; gli anni trenta dell'era Shōwa vanno dunque dal 1955 al 1965. N.d.t.]. Lei è nato negli anni quaranta [dell'era Shōwa. N.d.t.], e ha quindi avuto a che fare con un mondo a lei precedente. Che tipo di approccio ha adottato per rappresentarlo?
Per quanto riguarda la documentazione, ho fatto tutte le ricerche possibili, anche se, ovviamente, ci sono sempre cose che non si riescono a recuperare. Certe cose, pagando, avrei potuto ottenerle, ma anche in questo ci sono dei limiti. In sostanza, come prima cosa mi sono procurato quello che potevo procurarmi perché era a portata di mano, e per il resto c'era anche l'abbondante documentazione usata da Oshii‑san, che ho preso a prestito. Anche questa, comunque, era inevitabilmente frammentaria, e quindi, alla fine, l'unica è stata arrangiarmi in qualche modo.

- Anche i personaggi danno l'impressione di essere persone del passato: si è trattato di un design scelto consapevolmente?
Non in senso stretto. Non è stato fatto troppo consapevolmente, non è stata una cosa fatta apposta. Anche perché, in fin dei conti, è qualcosa che è impossibile da rendere interamente tramite il disegno. Ovviamente anche se, per ipotesi, avessimo fatto delle riprese dal vero, gli attori sarebbero stati comunque persone dei nostri giorni. Alla fine il punto importante è stato capire su cosa concentrarsi, e non voler ricostruire quell'epoca in senso stretto.
Poi c'è il fatto che in animazione i vestiti, per quanto si provi a farli sembrare contemporanei, non appena vengono disegnati e colorati sui rodovetri, diventano inevitabilmente qualcosa di grossolano. Nel nostro caso abbiamo sfruttato questa cosa al contrario: l'idea di passato sarebbe risultata disegnando e colorando come si fa di solito. E poi c'è la questione delle tonalità di colore. Prima degli anni trenta [dell'era Shōwa. N.d.t.] non c'erano tecniche di colorazione come quelle attuali, e i colori dei vestiti dovevano essere più vicini a quelli primarî. Anche il tessuto immagino fosse più economico. Ma se avessimo riprodotto queste cose così come sono, il risultato sarebbe stato davvero "cartoonoso". Abbiamo quindi lasciato perdere come stessero le cose in realtà e abbiamo cercato di ricostruire quello che dovrebbe essere il ricordo, l'impressione dei colori sbiaditi, l'idea che si ha di foto nostalgiche dai toni seppiati.
Non si è trattato di ricostruire il vero anno 37 dell'era Shōwa [il 1962. N.d.t.], ma di come ricostruire quello immaginato, dando importanza, più che alla realtà, a quel che è rimasto nella memoria, come nelle immagini fotografiche. Dare un'impressione di vecchio usando le tonalità di quelle immagini. In modo che sia sufficiente guardare lo schermo per avere l'impressione che, anche se non viene spiegato, si tratta senza dubbio di una storia ambientata nel passato. Provare a realizzare ciò è stato l'obiettivo di base.


- Si dice che, per raggiungerlo, si siano dovuti fare più tentativi.
Abbiamo fatto molte prove per capire come riuscire a trasmettere quest'impressione nostalgica. Abbiamo provato ogni sistema, dalle tecniche di sviluppo a quelle di ripresa, ma nessuna andava bene e alla fine abbiamo deciso di lasciar perdere, e di tornare alle basi, tentando di vincere la sfida grazie alle possibilità dei materiali di base. Credo tra l'altro che questo simboleggi lo stesso film: esistono sicuramente diverse tecniche, e ne abbiamo provate molte, ma la cosa migliore sono le possibilità date dai materiali usati. Si tratta di qualcosa che è legato al film stesso: alla fine quello che conta è se i disegni siano o meno buoni; e anche con le più fantastiche tecnologie, il disegno non funziona, se non è fatto bene. Perché un buon disegno è semplicemente la cosa più eloquente, anche senza usare alcuna tecnica.
Quando si va in un museo, si vedono dei dipinti tanto splendidi da non riuscire più a muoversi; è come si ti risucchiassero, come se possedessero una forza a cui non ci si può opporre. Se si guarda ora un film degli anni settanta [*non* dell'era Shōwa! N.d.t.], la pellicola potrà anche essere sbiadita ma le cose interessanti rimangono comunque interessanti. Oggi si vedono film belli e puliti ma nojosi e quindi penso abbia più valore spendere le stesse due ore di tempo per vedere un film vecchio e sporco ma più interessante. Credo sia un po' la stessa cosa.


- La pellicola stessa è quasi sempre filtrata e l'impressione di sbiadimento risalta efficacemente in ogni momento. Per ottenerlo si è cercato di non lasciare apparire il senso di nettezza dei rodovetri?
La questione è complessa, anche perché ci sono state parti in cui, al contrario, ho proprio voluto che apparisse questa impressione di nettezza. In altri termini, l'intenzione è stata quella di creare delle immagini con la premessa che sono dei disegni. E il risultato doveva essere buono non per il realismo di quanto si vedeva su schermo, ma proprio in quanto erano disegni. In altri termini, l'animazione è bella perché si tratta di immagini disegnate: mentre, anche quando diventa estremamente realistica e, sfruttando il digitale, si avvicina al cinema dal vero, è sufficiente che non piaccia, che ci si chieda se sia veramente bella, perché poi passi anche la voglia di guardarla. Quindi, se si vuole poter usare al meglio il fatto che si tratta di disegni, ci si deve interrogare sul modo di disegnare. Non serve nascondere che si tratta di rodovetri, basta soltanto creare le immagini sfruttandone le caratteristiche. Quindi abbiamo disegnato appositamente le immagini in modo netto e, al contempo, le abbiamo mosse in maniera tridimensionale. Abbiamo puntato a un realismo senza la necessità di usare immagini realistiche.
 
Jin-Roh - Copertine delle edizioni home video Yamato Video

- Ci può dire qualcosa sugli obiettivi di quest'opera dal punto di vista delle tematiche?
La sceneggiatura di Oshii si basava sul rapporto tra bestia e uomo, tra uomo e cane, sulla messa in scena di questo rapporto, era strutturata in modo da projettare quest'idea sui personaggi; la cosa, però, a me non interessava molto. Avrei potuto capirla se mi fosse stata spiegata, ma le spiegazioni non le ho avute, e nemmeno le ho chieste. Certo, alla fine sono molte le persone che vedendo il film hanno avvertito quel tipo di rapporto, e quindi credo sia rimasto molto di quello che Oshii voleva dire, anche se il film l'ho realizzato io. Ma non è stato qualcosa che è avvenuto per mia intenzione. Non è potuto essere questo il tema del film perché io non mi ci sono fissato. Quello che io mi sono chiesto è stato se non fosse possibile creare una tematica projettando sulle condizioni e sull'ambiente in cui vive l'essere umano Fuse le condizioni degli esseri umani che lavorano nell'animazione, le condizioni mie e di chi mi sta intorno.

- Dunque qualcosa di simile al rapporto tra l'individuo e le organizzazioni, e la società?
Sicuramente in un certo senso vien detto che non è possibile negare l'appartenenza a delle organizzazioni, ma non ho avuto nemmeno intenzione di dire che sono le organizzazioni a determinare i motivi delle azioni. Credo siano due cose diverse agire controvoglia agli ordini di un'organizzazione e scegliere di propria iniziativa di seguirli, anche se sono degli ordini.

- Il punto è cosa scegliere quando ci si trova in determinate condizioni, dal punto di vista del soggetto?
Certo. Alla fine è l'individuo che fa la sua scelta. E questo c'è chi può capirlo e chi no, dipende dal proprio modo di vivere. Dopotutto non è che tutti quelli che lavorano nell'animazione ci lavorano perché gli è stato richiesto. Ognuno la pensa modo suo, c'è chi pensa che sia un ambiente terribile, c'è chi pensa che, dopotutto, altri lavori così tranquilli non ce ne sono, e così via. Quindi, a conti fatti, anche se i rischî sono molti, si continua perché si può lavorare a qualcosa che si apprezza. O perché ormai ci si trova in quella situazione. Ci sono persone che vivono questo conflitto, anche se non lo esprimono a parole. Il punto è chiedersi cosa succede quanto un giorno ci si trova improvvisamente a contatto con il mondo esterno. Magari si arriverà a domandarsi se il mondo esterno non sia poi così male: ci sono persone che camminano per la strada, impiegati, studenti, e tutti sembra che vivano felici, sì, il mondo esterno dev'essere davvero divertente. E nel frattempo noi viviamo l'inferno dell'animazione, tutto il giorno seduti al tavolo senza sapere quando mai finirà! ^_^

- E intanto si pensa a quanto sembrano divertirsi quelli che alle cinque del pomeriggio hanno finito e possono andare a bere.
Sì, si pensa al fatto che c'è anche quel tipo di vita, si pensa che esistono davvero persone così. Ma anche continuando a pensarlo, si considera comunque che non basterebbe fare quel tipo di vita perché le cose poi vadano bene. Fare l'animatore è comodo e sarebbe bello farlo con dei tempi di lavoro decenti.

- Ovviamente tra gli impiegati delle aziende ci sono quelli che, quando vedono Fuse, pensano: "quello sono io".
Sì, ci saranno anche persone che lo pensano.

- Ci sono anche quelli che pensano che sarebbe bello poter fare un lavoro grazie alle proprie capacità.
È per questo che Fuse è quello che è, e che ciò a cui non ci si può ribellare è, detto in parole povere, un destino inevitabile. E che non è possibile negare la realtà a cui si appartiene. La questione che io mi sono posto è se esista veramente qualcosa di simile. All'estero ho sentito spesso fare paragoni col fascismo [sempre riguardo a Jinrō, ovviamente. N.d.t.]. Qui da noi il termine fascismo di solito fa pensare a qualcosa di simile alla Germania nazista, ma all'estero mi sembra ci sia un modo di intederlo per cui il fascismo include anche cose minime, ad esempio i casi in cui, sul lavoro, gli ordini di un superiore minacciano la libertà dell'individuo. Pare ci sia anche chi vede la mia opera come un confronto tra questo fascismo e la libertà. Sì, capisco che sia possibile anche questo punto di vista, ma non è che sia stata una mia intenzione. Il discorso riguardava più che altro quegli individui che riescono vivere unicamente in quel determinato modo e che, quando si incontrano con qualcosa che non ne fa parte, allora ecco che ci sono sentimenti che ribollono e traboccano nel loro interiore, e alla fine si trovano a non saper più cosa fare. È questo che io ho cercato di esprimere con coerenza.

- Sta quindi dicendo che ognuno può interpretare il film secondo le proprie impressioni.
Dipende dalla situazione di chi lo guarda, e chi non lo capisce non lo capirà mai. Però, le persone che lavorano, qualunque lavoro facciano, e che si trovano in una posizione simile a quella del film, dovrebbero comunque capire qualcosa. Sono cose che dipendono dallo spettatore, queste.
 
I soldati Kerberos

- Ha dovuto concentrare tutto in un film di 98 minuti: ci sono stati dei punti difficili, dei punti che hanno richiesto una particolare attenzione?
La modulazione delle scene, cioè la successione di scene luminose e scene scure, si tratta di una cosa che ho costruito ponendoci molta consapevolezza.

- Si è trattato di alternare i due momenti?
Sì, anche se un'alternanza troppo ripetuta può comunque dare una pessima impressione. Ci deve essere un ritmo che faccia da base, e poi si può pensare a come variarlo per rendere scorrevole la visione. L'idea è questa.

- La realizzazione è avvenuta sulla base di questi calcoli?
Nei momenti iniziali sì. Poi, quando comincia il lavoro effettivo, allora sembra si possa solamente correre alla massima velocità fidandosi di quel che si era intuito e pensato all'inizio. Si arriva a pensare che basta il proprio sesto senso più che i calcoli in cui si aveva tanta fiducia.

- In pratica, in un certo senso già con lo storyboard il lavoro viene fatto avendo in mente come saranno le ultime rifiniture?
Certo. Quando si arriva allo storyboard a quel punto si devono pensare le singole scene tenendo conto di come diventeranno nei layout o del ritmo che assumeranno effettivamente dopo che saranno state fatti i key‑frame. Si arriva ad affrontare i problemi maggiormente pratici, tipo capire i punti che saranno difficili da realizzare, e dove e come sarà meglio evitare di fare cose impossibili. Si tratta del conflitto tra il voler fare certe immagini in un certo modo e la loro effettiva realizzabilità, si tratta di chiedersi cosa si deve fare, a livello pratico, per riuscire a concretizzarle.

- Dal punto di vista concreto, le scene effettive sono state progettate tenendo conto della posizione della macchina da presa in ogni sequenza?
Il punto era evitare di mettere la macchina da presa in posti impossibili. Evitare a tutti i costi cose come, ad esempio, posizionarla all'interno di una parete per riprendere una stanza.

- In modo da evitare un senso di innaturalezza?
In modo che non risultasse finto, se visto. Be', pero ci sono anche dei casi in cui abbiamo dovuto imbrogliare. Ma in pratica il massimo dell'impegno è stato messo nel disegno. Abbiamo provato a sistemare la macchina da presa da diverse angolazioni per ogni sequenza, vedendo le differenze, dove non andava bene, e cercando il modo migliore.

- I lavori di macchina ricercati sono comunque pochi.
Certo. E poi ci sono molte scene fisse, ho cercato il più possibile di fare in modo di non muovere la macchina da presa.

- È stato un obiettivo voluto concentrarsi sulle scene fisse?
Sì, per quanto si è potuto. Sicuramente si è cercato di costruire le scene per poterle lasciarle fisse. In questo modo il lavoro successivo [in special modo l'animazione dei personaggi. N.d.t.] non sarebbe stato affatto semplice, ma siamo riusciti a rientrare entro dei limiti apprezzabili. Una volta completato tutto, si è visto che il risultato è molto bello a vedersi. E poi, anche se si guardano i film di una volta, le riprese fisse erano molte. Intendo dire che, per un film, non è assolutamente un problema.

- Qual è stata la cosa più difficile, nell'animazione?
Ovviamente, la recitazione più quotidiana. Certo, sono state difficili anche le scene d'azione, ma quelle non sono impossibili, se assegnate a un buon animatore e con esperienza. Il problema è piuttosto riuscire a trovare gente in gamba, ma quando la si trova, basta affidargli il lavoro e si è a posto. La recitazione invece comprende diversi elementi, e anche trovando qualcuno incredibilmente in gamba che ci lavori non basta. Una buona animazione e una buona recitazione sono due cose diverse ed è terribilmente difficile ottenerle entrambe.
 

 - Da una parte c'è la scelta dei collaboratori, dall'altra il modo per discutere e comunicare con loro: sotto questi aspetti com'è stata portata avanti l'animazione di questa recitazione quotidiana?
Be', qui si tratta solamente di opinioni personali, ma sono relativamente tante, comunque, le persone convinte che i registi possano lasciare tutto quanto agli animatori, quando questi sono bravi. In altre parole, si pensa che quel che serve sia soltanto lo storyboard: una volta che lo s'è finito, viene passato a chi fa le animazioni principali e poi qualcosa salterà fuori. Lo stesso per il processo per cui quel che ne risultata viene verificato e quindi passato al direttore dell'animazione. Il problema è che molto spesso gli storyboard non lasciano capire le intenzioni di chi li realizza. Forse io ho queste idee particolari perché sono un animatore, ma quando si disegna la reazione di un uomo, non è la stessa cosa se quest'uomo, in quel momento, è veramente stupito o se invece conosce la situazione e quindi fa finta di essere stupito. E allo stesso modo dovrebbe esserci una grossa differenza se sta dicendo qualcosa ma dentro di lui sta pensando il contrario o se invece sta davvero parlando seriamente. Io credo che cose di questo genere, se non le stabilisce chi fa lo storyboard, poi, a conti fatti, rimane indeterminato quali espressioni debbano esserci in determinati momenti: qui è volontariamente inespressivo ma lo sta facendo apposta, qui sorride proprio per mostrare il suo sorriso a chi gli sta davanti mentre dentro di lui non sorride, e così via. Penso sia fondamentale che queste cose le pensi chi realizza lo storyboard. Se si costruiscono le scene su queste basi, anche se poi [nelle successive fasi di lavorazione. N.d.t.] non tutto va come dovrebbe andare, basta che rimanga un po' delle intenzioni di partenza per ottenere, nel lavoro finale, una recitazione che non è quella solita dell'animazione, quella stereotipata. Ovviamente anche la recitazione tipica dell'animazione ha i suoi lati positivi, e io non intendo negarla, ma è anche possibile esprimere una recitazione diversa usando sempre dei simboli ma cambiando il modo in cui li si usa. E io credo che la differenza la possa fare chi si occupa della regia, lavorando o meno con una certa coscienza.
Mi chiedo invece se, attualmente, non si dia un'attenzione eccessiva alle tecniche di animazione che vengono dopo questi processi. Si pensa che se l'animazione è fatta male allora la scena non è espressiva, mentre, al contrario, se l'animazione è fatta bene allora si è riusciti a esprimere l'ambigua psicologia umana; ma in questo modo sparisce completamente il lavoro di chi stabilisce come impostare le scene stesse. Sì, forse io penso così perché, fondamentalmente, sono un animatore ma costruire quel che si vede su schermo è compito dell'animatore mentre stabilire cosa creare in quanto insieme dovrebbe invece essere il lavoro del regista. E si dovrebbe avere consapevolezza sia di quelle parti che compajono su schermo sia di quelle che su schermo non vengono descritte. Se una di queste due parti è assente, si ottiene un'immagine bella solo in superficie, o anche semplicemente un'immagine che è un fallimento. Se invece esiste un'intenzione non solo nella superficie, ma nascosta anche al di sotto di essa, penso che allora, anche quando l'animazione ha qualche imperfezione, qualcosa sullo schermo rimane comunque.
Forse è inevitabile che mi metta, qui, a fare teorie sulla regia, ma il fatto è che, se per esempio si volesse trasmettere una sensazione di desolazione e tristezza, allora non ha senso se tutta la scena disegnata su schermo non contiene questa sensazione; il personaggio può avere un'espressione triste quanto si vuole, ma questo non basta.


- L'espressività deve attraversare ogni aspetto, dunque, dai layout sino a quel che compare su schermo. Non è questione di far soltanto abbassare le sopracciglia ai personaggi, o cose del genere.
Certamente. Molto tempo fa ho partecipato alla messa in scena del Romanzo dei tre regni, con le bambole di Kawamoto Kihachirō, e mi è piaciuto tantissimo [Il Romanzo dei tre regni è un'antica opera cinese molto nota in Cina e Giappone, di cui esiste anche una versione animata giapponese. Le bambole cui fa riferimento Okiura vengono usate per creare animazione in stop motion, quasi sempre d'ambientazione storica; non si tratta, come si potrebbe pensare, di burattini o marionette. N.d.t.]. Trattandosi di bambole tutto quel che possono fare è muovere le sopracciglia, eppure erano estremamente espressive. E questa espressività veniva resa usando l'angolazione dei volti, tramite le luci e la struttura generale della scena.

- Certamente veniva fatto sembrare che le bambole interpretassero le loro emozioni, come quelle di sforzo e così via.
Sì, bastava che le bambole abbassassero un po' il capo. E credo che l'animazione, fondamentalmente, sia la stessa cosa, che le espressioni siano solamente dei simboli e il punto stia nel modo in cui i simboli vengono usati. Si può usarli per quello che sono, oppure sfruttarli in senso inverso. Anche quando a recitare sono le bambole, queste sono prive di espressioni eppure si possono costruire tantissime immagini estremamente eloquenti. Si può provare a rendere i dettagli psicologici tramite campi lunghi o trasmettere con i paesaggi ciò che una bambola priva di espressioni non può mostrare. E in certi casi mi chiedo se non sia quello che si dovrebbe fare anche con l'animazione. Poi, che io sia o meno riuscito a fare una cosa del genere, questo è un altro discorso.

- È per questo quindi che la cosa migliore sarebbe che il regista comunicasse con tutto lo staff usando lo storyboard come punto di partenza?
Be', queste sono cose che dipendono dagli individui. Certamente chi sa parlare bene fa così durante gli incontri che precedono i lavori per l'animazione, anche se lo storyboard è solamente schizzato. Ma io non sono molto bravo a parlare e quindi, intanto, cerco di realizzare al meglio le immagini [dello storyboard. N.d.r.]. Anche perché se quando preparo lo storyboard lascio qualche parte indecisa perché non so come risolverla, poi il problema ritorna sicuramente. Invece se decido tutto per bene già a quel punto, quando ci sono dei problemi nelle fasi successive posso tornare allo storyboard per verificare quale fosse l'intenzione di partenza. Quindi, nel mio caso, la prima cosa da fare è preparare lo storyboard in tutti i suoi dettagli.

- In questa occasione è dovuto passare dalla parte di chi disegna a quella di chi fa disegnare. Vedendo il risultato effettivo, quale pensa sia la percentuale di successo?
No, questa è una cosa che io non posso proprio capire. Per quanto riguarda il lavoro dello staff, me escluso, ne sono soddisfatto al cento per cento, ma per quanto riguarda le mie capacità, questo rimane un eterno punto interrogativo. Forse è qualcosa che solo lo spettatore può giudicare.
 
Fuse, il protagonista di Jin-Roh

- Si dice che la scelta dei doppiatori ha comportato diverse difficoltà: in pratica non c'erano persone che corrispondessero alle sue aspettative.
Sì, è andata così. Be', alla fine mi sono rivolto a Fujiki [il doppiatore di Fuse. N.d.t.], ma prima ho fatto fare diverse audizioni. Be', molti davano l'impressione che avrebbero fatto un buon lavoro, ma erano comunque troppo sicuri rispetto all'età [del protagonista di Jinrō. N.d.t.] e il problema stava proprio nella recitazione eccessivamente buona. Intendo dire che Fuse non è un tipo molto bravo a parlare. Non parla quasi mai, ma se le volte in cui lo fa usasse una buona voce, darebbe una strana impressione. Di solito le persone che non parlano molto, se quando parlano non sono goffe, non sono nemmeno plausibili. Quindi sarebbe andata meglio una voce che sembrasse giovane e bassa di tono. È così che, alla fine, sono arrivato a Fujiki.

- E la cosa non ha alcun legame con la sua recitazione nel film Keruberosu? [Keruberosu è un film non d'animazione diretto da Oshii nel 1991, basato sullo stesso mondo narrativo di Jinrō. Il protagonista è interpretato da Fujiki Yoshikatsu, che poi è appunto diventato il doppiatore del protagonista di Jinrō. N.d.t.]
No, non ha alcun legame. È che quando non sapevo più come fare ho improvvisamente pensato a Fujiki. È stata anche un'occasione per rivedere Keruberosu e riconsiderarlo.

- E per quanto riguarda Mutō, l'interprete di Kei?
Avevo una mia immagine di Kei, fin da quando era stata creata. La storia, ho voluto strutturarla con il racconto di Cappuccetto Rosso come asse portante, e mi son trovato a pensare a quale voce potesse andar bene. Mi immaginavo qualcuno che fosse in grado di leggere bene, ma non quel tipo di lettura corretta che si può sentire in radio. Piuttosto, mi immaginavo l'impressione data da una lettura incerta, da una ragazza che sta leggendo un libro in maniera insicura, più che da una lettura corretta. E allora ho fatto fare delle ricerche in tal senso. Be', mi sembra proprio che il risultato è stato conforme alla mia intenzione. Forse si tratta della cosa che più è andata come avevo pensato.

- E per quanto riguarda i personaggi secondarî?
L'unico per cui c'è stata una mia richiesta è stato Sakaguchi, il doppiatore di Tōbe. Avevo deciso fin dall'inizio che mi sarei rivolto a lui, e anche di farne la voce narrante. Anche quando avevo lavorato a Hashire Merosu [Hashire Merosu parla della battaglia di Maratona tra greci e persiani ed è inedito in Italia; Okiura fu character designer e direttore delle animazioni. N.d.t.] Sakaguchi aveva fatto la parte del narratore e del cantore. Il ruolo, dunque, era lo stesso anche questa volta e per questo mi è potuta venire in mente soltanto la sua voce. E, be', se c'è qualcuno che si è accorto della connessione, mi farebbe soltanto piacere! ^_^

- Non si tratta soltanto di Sakaguchi: sono stati usati non solo doppiatori professionisti, ma molti di loro hanno lavorato nel teatro o nel doppiaggio di film stranieri.
Certamente ci sono momenti in cui si può avvertire che non si tratta di semplici doppiatori. Dà un senso di freschezza molto buono, e lo apprezzo perché si tratta di un realismo di tipo molto singolare.
 
La recente edizione Blu-Ray Yamato Video di Jin-Roh

L'epoca attuale, non riesco a vederla se non come una grande bugia. Credo invece che in quell'epoca ci fosse sicuramente qualcosa.

La seguente intervista è tratta dal seguente volume: AA.VV., Jinrō ManiaXX, Tōkyō, Kadokawa Shoten, 2000, pp. 84-87.
La traduzione è stata realizzata da Yupa tra i giorni 14 e 23 Settembre 2003, riveduta e corretta tra il 24 e il 30 Novembre 2003.
La traduzione con ha alcun fine di lucro, ma l'unico obiettivo di divulgare in lingua italiana informazioni sull'animazione giapponese altrimenti irraggiungibili.
Dizionarî adoperati:
- AA.VV., Dizionario Shogakukan Giapponese-Italiano, 1994, Shogakukan, Tōkyō.
- Nelson, Andrew Nathaniel, The modern Reader's Japanese-English Character Dictionarysecond revised edition, 1974, Tuttle Language Library, Rutland-Tōkyō.
- Matsumura Akira (a cura di), Daijirin, 1995 (seconda edizione), Sanseidō, Tōkyō.
Tutti gli errori e le omissioni, nonché le note contenute tra parentesi quadrate, sono da addebitarsi al traduttore. In caso di citazione si prega di non alterare il contenuto.
L'ordine cognome-nome rispetta l'originale giapponese e non è ribaltato come invece avviene di consueto (quindi Oshii Mamoru e non Mamoru Oshii).

 
Il mondo di Jinrō affonda le sue radici nel cosiddetto ciclo dei "cani‑lupo", che si snoda in Akai megane, Keruberosu e Kenrō densetsu. Sullo sfondo ci sono gli anni trenta dell'era Shōwa, quelli che Oshii stesso ha vissuto; ma per quale motivo ne è emersa una storia alternativa del dopoguerra, diversa da quella reale? Proveremo ad approfondire le idee racchiuse in quel periodo e le radici del cico dei "cani‑lupo" che lì hanno la loro nascita.
[l'era Shōwa corrisponde al periodo di regno dell'imperatore giapponese noto in occidente come Hirohito, il cui anno I è il 1926 e che termina nel 1989, anno I dell'era Heisei; gli anni trenta dell'era Shōwa vanno dunque dal 1955 al 1965. N.d.t.]

- Per prima cosa vorremmo farle delle domande sulla visione del mondo che fa da sfondo a Jinrō. Fino ad ora il ciclo dei "kerberos" ha preso forma nei film Akai megane e Keruberosu e nel fumetto Kenrō densetsu, ma quand'è stato che è sorta un'immagine effettiva di questo mondo? [Akai megane e Keruberosu sono due film dal vero girati da Oshii nel 1987 e nel 1991, più noti in Occidente con i rispettivi titoli di The red Spectacles e Kerberos Panzer Cops. N.d.t.]
È stato con l'inizio della pubblicazione di Kenrō densetsu [il 1988. N.d.t.]. Akai megane lo considero come completamente fantastico, anche se non so quanti lo vedano come tale ^_^. È stato con Keruberosu che mi sono chiesto come sarebbe stato rendere la cosa un po' più vicina al mondo reale, cercando come punto di contatto con la realtà l'ambientazione a Taiwan; anche perché dall'altra parte c'era il fumetto Kenrō densetsu, che avevo visualizzato chiaramente come un unico grande mondo. In quel caso avevo dovuto costruire un background per l'opera, altrimenti una serializzazione del genere non sarebbe stata possibile [il riferimento è alla serializzazione del fumetto, pubblicato in diversi episodî su diverse riviste. N.d.t.]. Quindi si può dire che quando cominciò la pubblicazione, la visione del mondo aveva già assunto una sua forma piuttosto definitiva. Alla fine, è stato a quel punto che avevo più o meno stabilito tutto, compreso il perché si usassero armi e mezzi da guerra tedeschi.

- L'ambientazione è il Giappone degli anni trenta dell'era Shōwa: c'era sin dall'inizio questa intenzione?
È una cosa che ho pensato chiaramente da Keruberosu in poi. Be', se devo dire il vero, sarebbero anche potuti non essere gli anni trenta; è che quegli anni, quelli che precedono le Olimpiadi di Tōkyō, sono i più facili da rappresentare [Le Olimpiadi di Tōkyō si sono svolte nel 1964. N.d.r.]. Io sono nato nell'anno 26 dell'era Shōwa [Il 1951. N.d.r.], e quando cominciai le scuole medie era in corso il boom economico, ed era evidente che il mondo fosse cambiato. Per le generazioni che ci precedevano, poi, c'era qualcosa che era cambiato con ancor più evidenza, e cioè il dopoguerra. Nella letteratura, nel cinema, nel teatro, in ogni campo della cultura si era continuato ininterrottamente a parlare del dopoguerra, ma ora non ce ne era più traccia. Quello che potremmo chiamare il colpo di grazia al dopoguerra, cioè il fatto che non se ne parlava più, successe durante il boom economico: si pose come linea di demarcazione le Olimpiadi di Tōkyō, decidendo che quel Giappone ormai non esisteva più. Be', forse sto generalizzando troppo, ma l'impressione era questa.

- Sta quindi dicendo che il suo interesse si rivolgeva al periodo che ha preceduto questo evidente cambiamento?
Dopotutto, per fare un film, che sia o meno d'animazione, si deve avere una base per rappresentare un proprio mondo: e per base intendo semplicemente quale mondo scegliere di rappresentare per far sorgere il desiderio e la volontà di creare qualcosa di proprio. E avere a che fare con elementi di cui non si sa nulla è veramente difficile. Nel mio caso, io sono un tipico abitante originario di Tōkyō, e le mie basi sono il mondo in cui ho vissuto, l'epoca in cui ho vissuto, che comprendono appunto anche il mio essere originario di Tōkyō. E anche se Tōkyō è ormai diventata un caos, è comunque difficile staccarsi dall'era Shōwa, e in particolare il periodo che precede le Olimpiadi. Il Giappone che venne in seguito è come se fosse terribilmente vuoto, come se non riuscissi a farne parte, qualunque cosa non riesco a vederla se non come una grande bugia.

- E ha fatto in modo che questo si riflettesse nella sua opera.
Ci sono stati momenti in cui avevo il desiderio di fare animazione ambientata effettivamente nella città in cui vivo, nel mondo che conosco. Durante la realizzazione dell'O.V.A. Meikyū bukken, anche perché mancavano i fondi, io stesso prendevo in mano la macchina fotografica per fare le foto che sono state usate come fondali. In quel periodo ero davvero entusiasta all'idea di fare dell'animazione in quel modo. [Meikyū Bukken è un criptico O.V.A. girato da Oshii nel 1987, ancora inedito in Occidente e purtroppo mai più ristampato nemmeno in patria. N.d.t.]
 
Fuse e Kei, la coppia protagonista di Jin-Roh

- Di Meikyū bukken restano particolarmente impresse le scene delle rovine.
A quel tempo, non so perché, ero attratto dalle aree non edificate, dalle umetatechi [le umetatechi sono isolette strappate al mare che costellano la baja di Tōkyō, solitamente adibite a discariche; un ambiente che compare spesso nelle opere di Oshii. N.d.t.]. Se rifletto razionalmente per trovare un motivo, direi si tratta di attaccamento a quello che ho vissuto prima delle Olimpiadi. Ci si può chiedere se si tratti semplicemente di nostalgia, ma io ho l'impressione sia una cosa un po' diversa. Ho pensato molto a lungo, tempo fa, su quale significato ci possa essere, ho anche letto diversi libri, guardato raccolte di fotografie. Be', se si tratta di ricercare un qualche significato esterno in un sentimento tanto personale, alla fine arrivo comunque a chiedermi: in quale mondo si può credere, quale mondo può fare da base per realizzare un film nel Giappone attuale? O viceversa: perché non è possibile credere in quest'epoca? L'epoca attuale, da qualunque punto di vista, non riesco a vederla se non come una grande bugia, ci sono momenti in cui la sento soltanto come una specie di copione scritto. Il fatto è che chi lavora nel cinema e nell'animazione deve indicare concretamente, attraverso le immagini, in quale mondo dunque sia possibile credere.
Nel mio caso si tratta della Tōkyō che precede le Olimpiadi. A me sembra che così stiano le cose, ho l'impressione che in quell'epoca ci fosse sicuramente qualcosa, anche se, ancora adesso, non capisco di cosa si tratti realmente. Anche perché ognuno, poi, dice la sua: ci sono degli aspetti su cui si è daccordo, e anche altri su cui discordare. Sarebbe bello poter dire: "Sì, le cose stavano così", ma non è che ci sia qualcosa di chiaramente definito.


- Questa non è nostalgia.
Se la nostalgia è quella verso quel mondo vissuto durante l'infanzia, allora non è che non sia nostalgia; ma più che altro si tratta di una reazione che nasce dal rifiuto, dall'odio per l'epoca attuale. Per esempio, per quelle che sono le mie esperienze, quando ero alle scuole superiori, in quel momento il mondo era diventato quello che era il mito della nostra infanzia: il Giappone era diventato ricco, in ogni casa erano entrati televisore e frigorifero, ogni bambino aveva ottenuto una camera tutta per sé. Ma allora pensai che tutto questo non era divertente, era piuttosto inaspettatamente nojoso. I drammi familiari dei film americani che guardavamo da bambini, per la nostra generazione quello era un vero sogno. Facevamo il confronto e ci domandavamo perché il Giappone fosse così povero. Poi, finalmente, potemmo avvicinarci a quel sogno; ma una volta che fu realizzato, pensai che a conti fatti era nojoso. Mi domandavo se fosse tutto lì e, nel contempo, riflettevo su quale fosse stato il senso degli anni trenta dell'era Shōwa.
Poco dopo cominciai le scuole superiori: era giusto il 1970 (anno 44 dell'era Shōwa) e c'era l'impressione che quel momento fosse l'ultima occasione per poter cambiare il Giappone. Era un'impressione priva di alcun fondamento anche se a quel tempo pensavo ce ne fosse uno. Riflettendoci ora vedo che non c'era, ma allora si era presi da questa specie di convinzione: era un momento in cui tutto il Giappone ne era prigioniero. Forse è un'esagerazione dire tutto il Giappone, ma in particolare per quelli di una certa generazione si doveva fare qualcosa, era necessario cambiare il Giappone, se non fosse cambiato non ci si sarebbe stato alcun posto in cui poter vivere.
È facile fraintendere per chi non conosce quei tempi, ma non è che gli studenti delle scuole superiori invocassero la rivoluzione infiammati dagli ideali. Facevano quel che facevano soltanto perché non avevano altro posto dove andare, quella era l'unica società in cui potevano respirare. Ovviamente anch'io ero uno di quelli che non volevano andare a scuola, e che ancor più odiavano restare in casa. Siccome non avevo più un posto in cui stare, in breve l'unica era uscire, andare fuori. E ovviamente c'era anche chi non poteva unirsi a quelli che oggi verrebbero chiamati bōsōzoku, o entrare nella delinquenza giovanile in senso stretto [i bōsōzoku sono le bande giovanili motorizzate, particolarmente diffusesi in Giappone con l'inizio degli anni ottanta. N.d.t.]. Quindi se si andava in giro in città, le ultime scelte che rimanevano erano il cinema o la lotta politica. Be', io facevo entrambe le cose. Non voglio però dire si trattasse di una fuga, si era attratti da quelli che, più o meno, sembravano nobili ideali.
Pensandoci ora potrei dire che ci si infilava in quei gruppi per sfuggire da una realtà in cui si soffriva troppo a viverci. Era fatta così, quell'epoca. Però a volte sembra che anche adesso le cose non siano cambiate. Anzi, ho persino l'impressione siano andate via via peggiorando, e non lo penso solo del Giappone, ma di tutto il mondo; le situazioni si muovono con sempre maggior difficoltà. Ovviamente ci sono anche delle parti dinamiche, che non si può dire in che modo si evolveranno, ma il Giappone in particolare si trova in una situazione in cui il movimento è diventato impossibile. E se mai qualcosa dovesse cambiare, probabilmente cambierà in una direzione poco desiderabile e a causa di un intervento dal mondo esterno. Non ho affatto l'impressione che le cose possano finire in una buona direzione.
Quindi credo non siano pochi quelli che, compresi studenti delle scuole medie e superiori, si chiedano come mai sono nati in un periodo simile. E non penso che questo significhi che vorrebbero essere nati in un'altra epoca. Resta il fatto che il mondo non dovrebbe essere così com'è adesso. È quindi ovvio che si vada alla ricerca di realtà fittizie, costruite, e il nostro lavoro è quello di dare una risposta a questo ricerca. Adesso o trent'anni fa, penso che l'atmosfera fosse essenzialmente la stessa ma, per quanto possa sembrare strano, prima delle olimpiadi di Tōkyō non era così forte questa impressione [l'impressione di alienazione rispetto alla propria epoca. N.d.t.]. Forse si potrebbe dire che fosse così semplicemente perché eravamo bambini, ma si viveva effettivamente l'impressione che le cose sarebbero andate sempre meglio. Il mondo disegnato da Osamu Tezuka si stava avvicinando regolarmente: non è già arrivata la televisione? Abbiamo anche costruito la Tōkyō Tower. Si diceva che ormai stavano arrivando le meravigliose città del futuro, perché la tecnologia scientifica era onnipotente. Televisori, frigoriferi, onde radio: c'era l'impressione concreta che la vita si stesse muovendo verso la direzione voluta.
Poi arrivò l'idea che, in qualche punto del percorso, le cose fossero andate diversamente. Se ci si chiede cosa e dove si fosse sbagliato, fondamentalmente era la superficialità del sogno con cui si era partiti. E questo, nel mio vissuto, è diventato la base su cui riflettere sul perché ora mi trovo ad essere come sono. È per questo che penso che la Tōkyō che ha preceduto le Olimpiadi, e il successivo periodo degli anni settanta abbiano per me un qualche significato speciale. La mia tendenza è sempre quella di pensare alle cose rapportandole a quel periodo. Perché è in questo modo che riesco ad avere quella convinzione che serve per dare una forma visiva a qualcosa.

 
Jin-Roh

- Nel ciclo dei "cani-lupo" risalta il fatto che dettagli e design varîno leggermente a seconda delle diverse opere.
È una cosa a cui ho pensato molto, ultimamente, e credo che la visione di un mondo e i dettagli con cui questo viene costruito siano due cose molto diverse. Forse mi verrà detto che dovrei smettere di criticare troppo le altrui opere... ^_^ il fatto è che penso si tratti di due cose diverse proprio perché ci sono tante opere in cui, a paragone con l'abbondanza di dettagli nei particolari, non si riesce a vedere affatto una visione del mondo; opere in cui non si capisce che tipo di mondo si desiderasse creare. Penso che la visione del mondo non sia qualcosa da capire solo guardando tutti gli episodî di una serie tv: se non si capisce con un solo episodio, allora non funziona. È questo che intendo con visione del mondo. I dettagli possono essere capiti seguendo le diverse puntate, ma la visione del mondo deve essere compresa in un solo istante: qui sta la differenza. Ho l'impressione che a volte ci si confonda, credendo che stabilire minuziosamente i dettagli significhi costruire una visione del mondo.
Ovviamente i particolari sono importanti, ma il punto non è stabilire minuziosamente tutti i dettagli. Come prima cosa si deve stabilire quello che si vuole esprimere; poi, alla fine, che si tratti dell'intuito di quell'essere umano che è il regista, o dei suoi sentimenti personali, va bene qualunque cosa. E non importa se ci siano o meno contraddizioni. Ma questa è una questione molto ambigua, e allora ci si immagina che le cose possano andar bene in qualunque maniera, l'importante è che i dettagli siano più minuziosi possibile. Be', forse si tratta di una cattiva influenza venuta da Gundam, ma comunque io sono davvero convinto che mettere assieme montagne enormi di dettagli non abbia alcun senso.
Nel caso del ciclo dei "cani‑lupo" i dettagli sono continuamente cambiati, è cambiato ogni volta il design delle armature, o i personaggi principali. Anche i nomi delle organizzazioni, sono ogni volta diversi. Eppure io credo che di aver fatto sempre la stessa cosa, ho avuto la certezza che la visione del mondo sia stata la stessa. Sentivo che era la stessa e che questo sarebbe bastato perché la storia, poi, si risolvesse in qualche modo. Rovesciando il discorso, si può dire che non ha importanza come siano i dettagli, l'importante è che la visione del mondo sia salda. I mondi in animazione sono fondamentalmente dei mondi assurdi, ma è proprio per questo che hanno bisogno di una solida visione del mondo.


- Le opere cui ha lavorato finora, come Patlabor o Ghost in the Shell, hanno come ambientazione un futuro prossimo, mentre, al contrario, quella di Jinrō è un vicino passato.
Detto in breve, quando ci si allontana dalla realtà, il problema è solamente se rivolgersi al passato o al futuro. È una questione comoda e facile, e lo penso da quando mi sono reso conto che in entrambi casi è l'allontamento dalla realtà a diventare un possibile punto di partenza per poter cominciare a costruire un mondo. Jinrō è la prima opera in cui ho provato ad affrontare seriamente un vicino passato invece di un prossimo futuro, ma l'intenzione non è stata quella di far rinascere quell'epoca; al contrario, mi sono chiesto fino a che punto fosse fattibile raffigurare in modo realistico il fatto che anche un Giappone del genere sarebbe stato possibile.
Se ci si chiede il motivo per cui ho scelto un dopoguerra alternativo, penso che la risposta stia tutta qui. Il coraggio di Jinrō è chiedersi come mai si sia dovuta costruire una storia alternativa del dopoguerra.


- Intende che si tratta di un passato che avrebbe anche potuto esistere.
Il fatto è che, dovendo dar forma al Giappone degli anni trenta dell'era Shōwa, o comunque precedente alle Olimpiadi, se non posso dire qualche bugia non mi viene voglia di farlo. E disegnare il vero dopoguerra, il vero periodo Shōwa è molto duro, e l'impressione finale non sarà quella di una grande fedeltà. Molta gente si arrabbierà per quello che dico, ma io preferisco evitare la fedeltà. Le cose possono invece diventare relativamente più semplici se, viceversa, si ha a che fare con uno Shōwa alternativo.
Forse si tratterà di un'ossessione di chi fa cinema d'animazione, ma io credo che sia possibile creare un "mondo reale" anche tramite un mondo completamente falso. È per questo che quando ho pensato a un dopoguerra alternativo rispetto a quello effettivamente accaduto mi sono sentito molto più tranquillo, ho sentito che così avrei potuto fare qualunque cosa.
Inoltre un dopoguerra che parte con l'occupazione dell'esercito tedesco, guarda caso, si accordava perfettamente con il design che già era stato fatto [si riferisce a quello per i film dal vero e per il fumetto. N.d.r.]. Le armature, da qualunque punto di vista, si potevano vedere solo come delle uniformi dell'esercito tedesco. E tra l'altro a me le armi tedesche piacciono, e mi piace in particolar modo il design delle uniformi. Poi anche Izubuchi Yutaka, che aveva disegnato le armature, era evidentemente un maniaco delle armi tedesche. Quindi, per razionalizzare quello che avevamo fatto, si poteva partire unicamente da un dopoguerra in cui l'occupazione non l'avevano fatta gli americani ma i tedeschi. E procedendo a rovescio ho allargato la visione del mondo, costruendo questo dopoguerra immaginario. Lo scenario retrostante è questo.

 
La polizia in Jin-Roh

- Però nel film non emerge chiaramente questa immagine del mondo.
È un mondo in cui per le strade corrono motocarri a tre ruote, le automobili straniere sono tutte Volkswagen o Bentz, e le parole straniere usate ogni tanto sono tedesche. È giusto però che la cosa rimanga a livello di impressione epidermica, l'obiettivo non era mostrare in tutto e per tutto l'immagine del mondo. Siccome la cosa è rimasta sempre a livello di sfondo, posso anche trattarla dettagliatamente in una versione a romanzo, che magari mi metterò a scrivere. Si tratta di un problema di realismo: in un fumetto o in animazione non è possibile mostrare fino in fondo l'immagine di un mondo. In un romanzo, invece, è utile chiarire tutto: nel nostro caso, i motivi della presenza di armi tedesche; si può pensare a una Seconda Guerra Mondiale senza l'entrata in guerra dell'America... l'America si arrocca nella dottrina Monroe e la guerra finisce senza la sua partecipazione, le potenze dell'Asse si avviano verso la vittoria mentre il Giappone, che non ha abbandonato l'allenza nippo‑britannica, finisce tra gli sconfitti.
[L'allenza nippo‑britannica fu stretta tra i due paesi nel 1902 per contenere le mire russe nell'Asia Orientale; fu sciolta nel 1921. N.d.r.]
Come scenario retrostante ho elaborato a grandi linee questa Seconda Guerra Mondiale immaginaria. Si potrebbe definirla di una storia bellica immaginaria, un genere che di recente non sembra vendere molto, ma che io apprezzo davvero tanto. Mettere in piedi delle grandi falsità partendo dalla realtà per me è davvero piacevole; probabilmente perché mi sembra di poter in qualche modo tradire la realtà, di poter dire di averla fregata!

 
- Fuse, il protagonista, è un uomo silenzioso e laconico se paragonato ai loquaci personaggi che ci sono stati fin'ora nelle sue opere. Ci può dire qual è il motivo di questa decisione?
Fuse non è che non parli: non è in grado parlare. Durante il film, anche quando Kei, la ragazza, gli dice di scappare assieme a lei, lui risponde solamente: "Perdonami" [sottinteso: "non posso scappare". N.d.r.]. Per quale motivo risponda così, Fuse non è che non lo dice, non è in grado di dirlo. Questo perché, come dice Tōbe, Fuse è un lupo che indossa una pelle umana, e i lupi non raccontano mai la propria storia; anche se gli uomini raccontano storie sui lupi. È questo che intendo quando dico che lui non è che non parli ma non è in grado di parlare. Potrebbe farlo solo levandosi la pelle umana, ma in questo caso non parlerebbe, morderebbe e basta. È così che ho inteso Fuse. Il punto importante è stato come far parlare gli uomini che lo circondano, ed è per questo che ho inserito gli altri personaggi, quelli più anziani di lui, e Tōbe ne è un esempio: è uno dei lupi, ma è anche il narratore di questa storia. L'importante è che si comprenda attraverso i personaggi di contorno i motivi per cui Fuse non parla, per cui non può parlare; anche perché un personaggio unicamente laconico non è per nulla attraente.

- Ci può spiegare come è nato il personaggio di Fuse?
Il fatto che in questa occasione abbia scelto questo tipo di personaggio è dovuto a una richiesta di Okiura. Diceva di voler fare qualcosa di hard boiled, e io ho scritto la sceneggiatura in stile, uno stile che anche a me non spiace. Però di solito film così diventano inevitabilmente molto cupi, e non sono accolti troppo bene. ^_^ Sicuramente un personaggio che non parla fa la sua bella figura quando la deve fare, ma non è il caso di Fuse. E questo vale anche per le scene d'azione, dove si tratta solamente di massacri: si spara e si uccide senza alcuna emozione. Anzi, in realtà forse di emozioni ce ne sono, ma noi non possiamo vederle in faccia. È quindi evidente che si tratti di un mondo fondamentalmente molto cupo. Penso però che siano proprio queste cose che si possono mettere in scena in un contesto cupo, o, meglio, la cupezza in sé ad essere il lato interessante del film, e quindi mi chiedo se ci sia effettivamente qualcosa che non va.
Solitamente i protagonisti dei miei film parlano molto. E sicuramente parlano sempre di più, e quindi forse ho voluto mirare a un'opera che fosse chiaramente diversa. Non so però, se l'avessi fatta interamente io, come sarebbe venuta, ma forse, trovandomici dentro, ce l'avrei potuta fare. Il fatto è che senza un protagonista laconico la storia non sarebbe stata in piedi. Perché un cane non parla, e qualunque cosa dica non viene capito. In questo senso la natura di un protagonista di questo tipo deriva inevitabilmente dal contenuto della storia.


- Cosa ne pensa del film, ora che è stato completato?
È stato definito molto sobrio, ma è veramente così? Ci sono parti che mi hanno fatto rabbrividire e ho pensato che, se l'avessi fatto io, non sarei riuscito a farlo così. Non lo dico in senso assoluto, ma è risultato un film sensuale. C'era questa possibilità, dato che la favola da cui si è partiti, Cappuccetto rosso, ha una fortissima valenza sessuale, ma non pensavo si sarebbe arrivati così in là. Si uccide e si divora, sia in senso sessuale che in senso criminale e in senso di aggressività: è questo il tipo di libido che ho avvertito. E non si è trattata di una mia intenzione, anche se il fatto che lo dica ora può sembrare una scusa. È stato Okiura. La stessa Kei, la ragazza, ha sin dall'inizio degli elementi che la fanno sembrare una vittima sacrificale. E questo probabilmente si lega a Cappuccetto rosso.
 

- Si dice che lei non abbia dato alcuna indicazione particolare a Okiura.
Sì, ho pensato che sarebbe andato bene se avesse fatto come desiderava. Però ho voluto che almeno rimanesse nei limiti dell'immagine del mondo che attraversa l'intero ciclo. In caso contrario mi sarei arrabbiato! Il lavoro di regista è uno di quelli in cui è importante comprendere le immagini del mondo che altri hanno costruito. Non si può fare tutto secondo i proprî capricci. Le cose sono comunque andate bene, e questo mi ha fatto sentire sollevato. Penso abbia fatto un lavoro molto buono. Ovviamente non è che Okiura l'abbia fatto per fare un piacere a me, l'ha fatto per se stesso e come piaceva a lui. Quindi, dal punto di vista dell'autore dell'opera originaria, mi ritengo pienamente soddisfatto, il risultato è stato buono oltre le mie aspettative. Inoltre avevo pensato fin dall'inizio che c'erano degli aspetti molti interessanti nel far girare a qualcun altro una mia sceneggiatura. Be', consideravo anche di avere a che fare con una persona in gamba.

- Ci sono diverse cose straordinarie nelle tecniche e nei modi con cui ogni scena è stata espressa.
Detto in breve, non si nota alcun tentativo di scappare. Forse è qualcosa di poco chiaro per chi non fa animazione, ma Okiura ha fatto cose che lasciano di sasso. Magari sono cose che sembrano ovvie, ma prendiamo ad esempio la scena in cui i personaggi salgono la scala a chiocciola che porta al terrazzo del grande magazzino: quella, io non sarei riuscito a farla... non l'avrei fatta fare. È qualcosa che fa paura. Il ritmo sarebbe sicuramente andato a pezzi. È stupefacente invece che Okiura non sia scappato di fronte a una cosa del genere, ne sono rimasto sbalordito. Non lo dico certo per far complimenti, ma credo che questa sia un'opera che sta al vertice del cosiddetto realismo animato giapponese, credo che sia senza dubbio un punto culminante. È anche in questo senso che dico di essere pienamente soddisfatto, come autore dell'opera originaria.
Purtroppo, l'impressione che dà è molto sobria! ^_^ E questo nonostante il contenuto non lo sia affatto. Credo però che, se lo si guarda superando in qualche modo questa sobrietà, ci siano diverse cose che chiunque possa capire.