Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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9.0/10
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«L’Immortale» è una produzione Liden Films che traspone l’omonimo manga, serializzato fra il 1993 e il 2012, di Hiroaki Samura. La corposa opera di trenta volumi è stata condensata in ventiquattro episodi, impresa evidentemente non semplice e che ha costretto il team a operare delle scelte, privilegiando alcuni elementi e sacrificandone altri. Per me questa trasposizione è stata il primo approccio con quest’opera e, ammetto, mi è piaciuta enormemente, forse anche al di là dei suoi oggettivi pregi.

La serie, diretta da Hiroshi Hamasaki («Texhnolyze»; «Steins;Gate»), rinuncia a una solida coerenza narrativa (pur lasciando intuire che l’opera cartacea la possieda) e, con poche eccezioni, si presenta di fatto come un’antologia: sono delle “scene scelte” quelle sottoposte all'attenzione dello spettatore; ognuna significativa, ognuna in grado di tratteggiare i traumi che subiscono i diversi personaggi. Perché il mondo in cui è ambientata la storia della giovane Rin, della sua ricerca di vendetta, affiancata dalla guardia del corpo, il ronin immortale Manji, è quel terribile Giappone feudale in cui la vita umana non ha alcun valore e in cui la condizione delle donne è miserrima. Il tema si presta a una corposa profusione di scene piene di sangue e di violenza, un compiacimento nel mostrare smembramenti e nel tratteggiare stupri è innegabile, ed è un fattore da valutare prima di iniziarne la visione.

Il primo degli elementi che mi ha fatto innamorare della serie è la presenza pervasiva di focus su minuti particolari del paesaggio naturale, sulla vegetazione (ritratta con la cura che consente di identificare la specie al primo sguardo) o sugli insetti (dei gerridi sul pelo dell’acqua, le libellule in volo, le cicale nel calore estivo, una farfalla che si abbevera nel sangue versato): è la Natura indifferente di Leopardi, concetto reso con grandissima efficacia, struggente.

Il secondo elemento è la ricerca della soddisfazione visiva: c’è una grande cura per rendere il tutto una gioia per gli occhi. A partire dal character design di Shingo Ogiso che riesce a portare sullo schermo la bellezza, sporca e malinconica, del tratto di Samura; per proseguire con l’attenzione alla palette cromatica che, se da un lato ha un’unità in tutta la serie, dall’altro muta nei singoli episodi per sottolineare alcuni momenti (come l’episodio 20 giocato su tre soli colori: nero, bianco, rosso). Senza entrare nei dettagli, ma l’episodio finale ha immagini così evocative e potenti che può sostenere la narrazione facendo a meno dei dialoghi per una metà del tempo. Anche la OST, azzeccatissima, contribuisce all’immersione in questo mondo fulgido e atroce.

Il terzo atout sono i personaggi femminili: se i tanti personaggi principali («L’Immortale» è anche una storia corale) sono ritratti tutti con efficacia, ben evidenziando la difficoltà di incasellarli in categorie quali “male” e “bene” (ad esclusione di pochi personaggi del tutto negativi, come Shira), quelli femminili si fanno notare ancora di più perché hanno una forza inusuale in questo tipo di storia. È difficile non amare queste ragazze e queste donne: Rin, Makie, Hyakurin, Doa, la figlia di Habaki, ma anche quelle che compaiono fugacemente; ognuna con la propria indole, cupa o allegra, cinica o amorevole, sono immerse in un mondo violento, senza prospettive accettabili dall'odierno punto di vista, ma non sono mai meschine, mai dome, tutte dotate di grande forza.

Due i principali difetti: la sceneggiatura di Makoto Fukami (che ha curato gli ultimi prodotti, non così felici di «Psycho Pass») è comunque inefficace e può infastidire. E poi le animazioni: per quanto il prodotto sia graficamente d’impatto, le animazioni non sono di livello: è bellissimo, ma più “nonostante” le animazioni che “grazie” ad esse. Due difetti importanti, eppure io mi sentirei di consigliare la visione di quest’opera che affianca momenti di realismo e momenti espressionisti.

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“Katsute Kami Datta Kemono-tachi e” (“To the Abandoned Sacred Beasts”) è un anime di dodici episodi andato in onda da luglio a settembre del 2019.

Durante la guerra civile fra il Nord e il Sud di Patria, il Nord decide di usare una particolare tecnologia che permette a un gruppo di soldati selezionati di trasformarsi in bestie, diventando così potenti da essere paragonati a degli dei sul campo di battaglia. Questi poteri, però, hanno un costo, e i soldati pian piano cominciano ad abbandonare la propria umanità e ad attaccare gli stessi umani che hanno giurato di proteggere.
Dopo la fine della guerra e un profondo tradimento, Hank Henriette, comandante dello squadrone, sarà costretto a dare la caccia ai suoi vecchi commilitoni, per mantenere la promessa di ucciderli prima che perdano completamente la loro umanità.

La storia è in realtà un po’ più complicata di così, ma, per evitare spoiler, ho deciso di non rivelare ulteriori dettagli. Per me, questa serie, iniziata con un ottimo primo episodio, è stata davvero deludente.

Partiamo dalla trama, davvero ripetitiva. Hank è alla ricerca della Bestia di turno, tre secondi di flashback, scontro, Hank vince, la Bestia muore. Ripeti.
A parte qualche puntata sporadica, la maggior parte degli episodi segue questo schema e, a lungo andare, diventa pesante e prevedibile. Prima di tutto, i flashback secondo me potevano essere molto più lunghi, dando allo spettatore un’idea dei sogni e delle speranze del soldato che verrà ucciso a fine puntata, permettendo così di instaurare un, seppur minimo, legame emotivo. La tragicità della storia, il comandante che deve uccidere i suoi compagni e il dolore provato da Hank nel compiere la sua missione sono la parte più bella e poetica dell’anime, ma, poiché ci vengono mostrati solo come Bestie impazzite e poco e niente nella loro forma umana, è difficile provare pena per queste creature.
I combattimenti sono in generale molto brevi e senza particolari colpi di scena, per cui non posso dire che il reparto tecnico aiuti, anzi, l’ho trovato particolarmente anonimo.
A ciò si aggiungono, infine, i seri problemi della serie nel mantenere un ritmo costante soprattutto nella parte centrale dell’anime, spezzando quel piccolo crescendo negli eventi che si era andato a creare.

Per quanto riguarda i personaggi, li ho trovati molto piatti.
Hank è il solito eroe tragico, anche se devo dire che il dolore che prova per la morte di quelli che una volta erano i suoi amici e fratelli è reso molto bene. Sfortunatamente non sono riuscita a sviluppare nessun legame emotivo con questo personaggio, costantemente triste e arrabbiato, che cammina su un sentiero di morte che lo porterà, alla fine, verso la futura e inevitabile perdita della propria coscienza.
La controparte femminile, Schaal, figlia di una della Bestie, dopo aver cercato di uccidere Hank per vendicare la morte del padre, decide di unirsi a lui, per capire perché il padre dovesse morire, dubbio che le rimarrà per quasi tutta la serie. Sinceramente non mi è chiaro cosa le sfugga, vanno uccisi per evitare stermini di massa, non è fisica quantistica. In generale, però, Schaal si dimostra non completamente inutile e non totalmente irritante, quindi mi sento di darle una sufficienza.
Infine, i militari dell’Unità per lo sterminio delle Bestie: Liza Renecastle, incapace di trovare vestiti della sua taglia, e Claude Withers, con l’irritante abitudine di rivolgersi alle persone con il loro grado e nome completo. Entrambi sono davvero insipidi e stereotipati, e aggiungono poco e niente alla trama.
Il cattivo di turno, di cui non farò il nome per evitare spoiler, con il suo “Conquisterò il mondo!” ci regala una motivazione fresca, nuova e moderna sul perché tutti dovrebbero stare dalla sua parte.

In conclusione, quest'anime si è rivelato davvero mediocre. Se ci si fosse concentrati di più sull'approfondimento dei personaggi e del worldbuilding, sarebbe potuta essere una serie tragica e coinvolgente. Il finale rimane aperto per una possibile seconda stagione, ma non penso che la guarderei.

Riassumendolo in una frase o meno: “I soprannomi e i poteri della Bestie sono più interessanti di tutti gli eventi della storia messi insieme.”

9.0/10
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La recensione prende in esame l'opera come presentata negli albi editi da Granata Press nel lontano 1991, quindi non le versioni riviste e corrette che hanno visto la luce recentemente.

Quattordici intensi numeri che, nonostante la trama articolata e complessa, volano via a una velocità impressionante. Ancora una volta, grazie all'espediente del "Cinema su carta" inventato da Tezuka. Vale a dire la controparte su carta stampata della cosiddetta "Limited animation" per il piccolo schermo: disegni poco realistici, fondali appena abbozzati, uso preponderante di prospettive e linee cinetiche con l'aggiunta di onomatopee graffianti.

Il birichino Go Nagai era considerato ancora un autore di commedie scolastiche un po' spinte, ma agli albori degli anni settanta, per la cronaca correva l'anno di grazia 1972, ebbe due considerevoli genialate. Una mentre era imbottigliato nel traffico di Tokyo, dove desiderava un robot gigante a disposizione per spostare gli automezzi in colonna davanti a lui - e nacque Mazinger Z. L'altra, non meno importante, derivata nientemeno che da una fugace visione de "la Divina Commedia" del Sommo Vate. Nella sua mente cominciano a riaffiorare uno dopo l'altro ricordi legati all'Inferno di Dante. Su tutti i diavoli immondi incontrati nel lungo percorso verso l'uscita, che fustigavano i potenti della Terra distribuiti tra i vari gironi. Le possenti immagini di Doré con Lucifero caduto e incastonato tra i ghiacci hanno fatto il resto, solo che qui di comico non c'è proprio un bel niente.

Talvolta i virtuosismi andrebbero centellinati per poterli apprezzare appieno. Ma Go Nagai, in preda a una vera e propria estasi creativa fulminante, non ne fece risparmio all'epoca e a tutt'oggi si vede lontano un miglio che i primi capitoli sono stati buttati giù per lo più come uno sfogo, una feroce allegoria della società moderna, oramai deviata e allo sbando. La sua generazione cresce tra le rovine della guerra, e vede sì la fulminea ricostruzione, i primi segnali del boom economico, l'apertura verso l'Occidente, ma nel contempo ha a che fare con corruzione, coercizione, arresti per tangenti e appalti truccati, la scalata delle organizzazioni criminali nazionali e internazionali etc etc; insomma, i giovani mangaka del periodo, poco più che ventenni, vedevano già tutto nero! E questo malumore si riperquoterà altresì sulle pagine di "Devilman": difatti, sia le matite che le linee ritracciate in un secondo tempo con il pennino a china sono grevi e calcate, gli angoli acuti fan pensare a schizzi preparatori improvvisati, il che denota impulsività, sregolatezza, ma anche agilità, vivacità, stravaganza e fantasia senza limiti. A detta di molti il fondatore della Dynamic Planning non è, come sarebbe logico pensare, il solito artista diffidente e solitario, chiuso nel suo studio a denigrare la vita sociale, ma una persona solare, affabile, estroversa, sempre pronto a firmare autografi o a fare una foto ricordo con i fan; era avanti anni luce rispetto ad altri suoi colleghi più celebri.

In "Devilman" non c'era stato nemmeno il tempo materiale di arrotondare i volti o di smussare le folte chiome dei protagonisti, tanti erano gli intrecci, i miti, le leggende, i cenni storici, e gli innumerevoli colpi di scena (forse fin troppi!) da trasferire su carta, certo ormai di avere per le mani quella che oggidì si può definire l'intuizione giusta, arrivata al momento giusto, nel posto giusto. Una volta conclusosi l'inquietante antefatto e i relativi truci risvolti - e sarà lo stesso Akira Fudo, nel frattempo divenuto adulto, a avvertire il lettore del passaggio all'atto finale -, il tratto ebbe un notevole salto di qualità. L'apocalittico epilogo, già delineato e al sicuro nei meandri della testa dell'autore, aveva permesso di dedicarsi con maggiore impegno all'affinamento dello stile, più curato e dettagliato, senza rinunziare però a scene di forte impatto visivo alternate ad altre di stampo pittorico, segnando così la sua definitiva maturità artistica. E questo si può affermare anche e soprattutto dalle forme più aggraziate rispetto a quelle irregolari degli esordi, tipiche di una persona che vuole conoscere e imparare, amante dei viaggi, fervido divoratore di libri e curioso per natura.

Come nella tradizione della letteratura e del cinema del terrore, con l'arrivo delle tenebre le forze del male risvegliano in loro gli istinti piu crudeli e le tavole truculente giganteggiano, grondando sangue da ogni vignetta. La vicenda della piccola che torna a casa dai genitori, ora posseduti da spiriti maligni con sembianze di feroci cerberi, è una di quelle che difficilmente si scordano, sebbene l'impronta shounen la renda meno disturbante. Secondo Nagai gli inviati di Zenon non fanno troppa fatica a subentrare nell'inconscio degli esseri umani, visto che gran parte, anzi la quasi totalità di loro non ha la benché minima purezza d'animo né tantomeno un briciolo di buon senso. Talvolta sono vieppiù spietati ed efferati dei demoni stessi: di conseguenza intere città vengono isolate e distrutte dall'atomica dai propri consimili (situazioni già viste in cult movie degli anni '50 come "Il villaggio dei dannati" e "L'invasione degli ultracorpi").

Anche a livello di dialoghi Nagai rompe subito il ghiaccio usando termini scurrili 'vietati' (e in questo è un vero virtuoso) e neologismi dello slang giovanile, e in certi casi, oltre al sempre apprezzato tema splatter, non c'è modo migliore di attirarsi le simpatie dei "mangofili" di razza e di prender confidenza con gli avventori più restii. Gli stessi detrattori che, guarda caso, non esitavano a definirlo trash, oggi lo definiscono all'unanimità un capolavoro inarrivabile, una colonna portante insostituibile, una pietra miliare incommensurabile. Detto questo, e concludo, sono abbastanza sicuro che non avremmo avuto quella scorrevolezza e quella dinamicità se al posto di Nagai ci fosse stato uno dei tanti (seppur abili e usciti dalle più prestigiose accademie di belle arti) esponenti del fumetto popolare nostrano o un disegnatore a caso delle fila Marvel o DC-Comics.