Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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In tempi recenti il cinema, inteso come sala cinematografica, non vive un momento di ottima salute, dovuto sicuramente alla pandemia globale di Covid19 che ne ha colpito le funzionalità per più di due anni ma che, soprattutto, ha velocizzato un processo, già cominciato da anni, che vede la distribuzione del grande cinema spostarsi molto più facilmente dalla sala alle piattaforme streaming, ormai sempre più numerose e con un’offerta ogni volta più valida e ampia, a prezzi concorrenziali. Proprio per questo l’arrivo di un film (ahimè ironicamente non in sala nel nostro Paese) come “Eiga Daisuki Pompo-san” rischia di rappresentare un toccasana per tutti i cinefili, dai più incalliti agli appassionati moderati, visto il suo carico di passione e coraggio che trasmette nei confronti della settima arte e delle potenzialità che ancora ha, adesso come un secolo fa, di influenzare e ispirare (in)direttamente la vita di chi la guarda.

“Eiga Daisuki Pompo-san” (lett. “Pompo che ama i film”, conosciuto anche col titolo “Pompo: The Cinéphile”) è di base la storia della produzione di un film, un lungometraggio scritto e prodotto da Joel D. Pomponette (detta Pompo), giovane rampolla di un famoso produttore di Nyallywood (località chiaramente ispirata alla ben nota Hollywood) che è una grandissima appassionata e intenditrice di cinematografia in ogni suo aspetto, tanto che spende tempo e passione anche nella produzione di B-movie dalla facile resa di pubblico nonostante la scarna valenza artistica. Oltre questo è anche un’ abile talent scout, tanto che affida la regia di questo film e il ruolo di protagonista femminile a due esordienti assoluti, Gene Fini, giovane assistente di scena la cui vita è completamente votata al cinema, e Natahlie Woodward, ragazza sognatrice desiderosa di diventare un attrice per affrancarsi dalla realtà rurale che ha sempre conosciuto, e l’intero film segue il laborioso e tormentato processo di lavorazione di “Meister”, una pellicola incentrata su un direttore d’orchestra talmente oppresso dalla ricerca della perfezione delle sue esecuzioni da necessitare un ritorno alla natura e un ridimensionamento delle sue aspettative per raggiungere la vera grandezza.

Non è un caso che citi la trama del film presentato in questo film perché il sovrapporsi delle figure del protagonista e del regista Gene, entrambi ossessionati dalla perfezione da raggiungere nel loro lavoro, è uno dei leitmotiv del film visto che, nella loro esasperazione, entrambi i personaggi ci ‘investono’ di ciò che muove ogni loro passo, e cioè una smisurata passione; Gene non è un mestierante del cinema, Gene vive di cinema, è letteralmente la cosa che gli ha riempito la vita e proprio questo suo desiderio ardente di condividere tanto amore, nella speranza magari che finisca per influenzare anche altre persone come è capitato a lui, lo metterà in luce agli occhi di Pompo, convinta che solo lui sia in grado di rendere realtà ciò che lei aveva immaginato. In questa grande retorica del sogno da conquistare a tutti i costi, ‘nyallywoodiana’ verrebbe da dire a questo punto, è comprensibile immaginare una certa faciloneria nella costruzione di questa storia tanto bella e romantica quanto difficile da realizzare, ma nella sua ovvia e, giustamente, caricata finzione devo dire che il film non lesina di soffermarsi su dettagli ben poco immaginifici e molto più materiali quali sponsor da reperire, troupe e attrezzature da allestire con conseguenti fondi persi e la difficoltà nel girare e montare una pellicola troppo lunga che non sia il semplice specchio della vanità del regista, ma un prodotto in grado di reggere anche dal punto di vista commerciale riuscendo a catturare l’attenzione di un pubblico sempre più assuefatto a stili di vita veloci e mutevoli e incapace di appassionarsi a film troppo lunghi e prolissi. Il risultato è una storia che gronda amore per il cinema, il più genuino e ingenuo possibile, un produttore appassionato e desideroso di sperimentare, un regista completamente votato al suo lavoro, una giovane attrice capace e volenterosa e un cast di professionisti sempre seri e disponibili nel mettere al servizio di un giovane sconosciuto la propria arte, tutto troppo bello per essere vero, ma proprio per questo in grado d far sognare come solo il cinema è in grado di fare.

Tutto questo è possibile grazie anche allo splendido comparto tecnico di cui può godere “Eiga daisuki Pompo-san”, che è un adattamento dell’omonimo web-comic di Shogo Sugitani. Prodotto dallo studio CLAP (ma alla sua lavorazione hanno collaborato anche altri studi di animazione giapponese abbastanza noti come Comix Wave, A-1 Pictures o Colorido), “Eiga daisuki Pompo-san” è un film per amanti del cinema non solo per quello che racconta ma anche per come sfrutta l’animazione nel farlo; non ho purtroppo le competenze che avrebbe il protagonista del film, ad esempio, per spiegare nel dettaglio tutte le soluzioni che ho apprezzato durante la visione, ma già solo le inquadrature e le transizioni da una scena all’altra dei primissimi minuti mi hanno talmente conquistato e disposto in un mood entusiasta da farmi entrare nella convinzione di vedere un’opera davvero diversa dal solito. Da questo punto di vista faccio veramente i complimenti a nome di tutto lo staff al regista di questo film, Takayuki Hirao, così come al character designer Shingo Adachi che ha adattato in uno stile molto più gradevole e raffinato i disegni del fumetto originale, e a Miu Miyamoto che ha curato la direzione artistica di un film dai colori sgargianti, disegnato e animato benissimo e che non cede mai il passo in ogni momento, dall’attimo più riflessivo all’occasione più concitata passando anche per sprazzi di semplice fan-service, curato anche lì in ogni suo aspetto. Le musiche di Kenta Matsukuma impreziosiscono ulteriormente questa produzione che può godere anche di un doppiaggio giapponese di tutto rispetto (quello italiano non è disponibile nel momento in cui scrivo), fatto salvo forse la voce della giovane Nathalie, affidata a un’esordiente e un po’ acerba Rinka Ōtani, che tuttavia non inficia né la fruizione del film né le potenzialità del personaggio.

Chiudo questa recensione dicendo che c’è un altro motivo probabilmente che mi ha fatto amare così tanto “Eiga daisuki Pompo-san” in queste circostanze che esula dal suo esser un grande messaggio d’amore verso il cinema, del quale io mi ritengo un appassionato tutto sommato molto casual, ed è il fatto che abbia fornito un’ulteriore prova di come anche l’animazione abbia una dignità pari ad ogni altra tecnica usata nella cinematografia; non era chiaramente questo l’intento del film, vista anche la cultura giapponese che da anni si è affrancata da questo ‘stigma’ molto nostrano, ma in un periodo in cui il grande pubblico occidentale inquadra ancora l’animazione come un prodotto unicamente per famiglie, ho accolto l’arrivo di questo lungometraggio che grida inconsapevolmente il contrario con cosciente e rinnovato entusiasmo: l’animazione non è un genere, non è un prodotto cinematografico di serie B e non è un semplice sedativo per bambini. L’animazione È cinema, vero, autentico e in grado di parlare a, appassionare e ispirare chiunque come accade al protagonista di questo film.

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"Fa ciò che è giusto e tutto andrà bene."
Queste sono le parole che Kukuru, giovane liceale dai capelli e occhi turchini, ripete a sé stessa ogni mattina, quasi a fare da monito a una vita ricca di sogni e povera di certezze, un dogma per una coscienza ancora troppo pura e grezza perché possa esporre il fianco alle cicatrici senza colpo ferire.

Siamo a Okinawa, sul mare, e a fare da teatro alle vicende di Kukuru sarà la materializzazione del suo sogno: l'acquario; Gama Gama prima, gestito direttamente da lei e da suo nonno, e Tingaara poi, in cui lavorerà nel reparto di marketing.
Si tratta appunto del suo sogno, o meglio, dell'immagine che lei stessa ha di esso. Perché lei, amante del mare e di coloro che lo abitano, tanto che, se solo potesse, si farebbe crescere le branchie, pur di vivere in acqua insieme ai pesciolini, nell'acquario di suo nonno, circondata dalle vasche, ci è nata e cresciuta, cullata come in un grembo materno dalle delicate movenze delle creature marine dai mille colori e dal dolce ondeggiare dell'acqua.

Il Gama Gama è stata la sua culla e la sua casa, perderlo è semplicemente inaccettabile ai suoi occhi, non tanto per quel che concerne il fallimento, quanto perché il Gama Gama è parte di lei.
Lei ha fatto ciò che era giusto, eppure eccolo lì. Il Gama Gama accatastato su sé stesso in attesa della demolizione. Come si fa a credere ancora che tutto andrà bene?

Al Tingaara, che per inciso fa sembrare il Gama Gama una boccia con dentro un paio di pesciotti rossi piuttosto che un acquario, Kukuru fatica a trovarsi a casa, complice il ruolo affidatole lontano dalle sue amate bestioline, mentre gli altri fanno il lavoro che sembra le sia stato cucito addosso, lei passa le giornate a farsi umiliare dal capo reparto e a sbattere la testa contro uno schermo.
Lei ha continuato a fare tutto giusto (più o meno), eppure eccola lì a farsi chiamare Plancton, mentre i pesci nuotano nelle loro vasche dall'altra parte dell'edificio.

Proprio sul momento di mollare, può essere soltanto Fuuka a riportarla a galla, perché lei lo sa bene cosa significa rinunciare a un sogno, e a detta sua è una pessima esperienza.
In mezzo al soqquadro generale in cui versano le scritture dei comprimari, a cui gli sceneggiatori devono delle scuse, a risaltare non possono che essere loro due: Fuuka e Kukuru appunto, perché schiena contro schiena non si può cadere, e il legame che le ha unite sembra renderle incrollabili. Kai si sarebbe fatto prendere a pugni per sempre, pur di vederla sorridere, ma i piani a quanto pare erano altri.

Complice una poetica schiusa di una manciata di uova di tartarughine di mare, Kukuru inizia a comprendere il vero significato di quelle parole che la accompagnano ogni giorno.
"Fa ciò che è giusto e tutto andrà bene."
Le cose, in qualche modo, hanno vita propria. Non dipende tutto da noi, o da Kukuru, ognuno ha la sua parte da recitare, e finché lei reggerà botta, il castello non crollerà; se poi ci sarà anche Fuuka a sostenerla, allora capirà che non esistono limiti, tranne quelli che ci diamo noi stessi.

A crescere, a maturare, dal Gama Gama al Tingaara e chissà dove poi, non è Kukuru. Lei è e rimane una sognatrice ingenua, non diversa da una dolce bambina volenterosa di dare il suo contributo al cerchio della vita. A crescere e a maturare è il suo sogno. Lei lo modella soltanto e lo guarda schiudersi, proprio come quelle tartarughe.
Sogno e realtà non sempre coincidono, anzi siamo proprio agli antipodi. Ma non è sbagliato, perché per avere un punto d'incontro ce ne dovranno essere due di partenza.
In fondo il Gama Gama è solo un acquario, come tanti altri, e il Tingaara pure; quel che conta davvero è solo dentro a Kukuru, che non riesce a smettere di dondolarsi tra sogno e realtà, finché non comprende che avere un sogno è più una condanna che altro, perché a lottare per il tuo sogno ci sarai sempre e soltanto tu.
Quel senso di smarrimento che ha caratterizzato Kukuru, quando per la paura di perdere il Gama Gama, quando per la paura di non riuscire a sorridere di fronte alle avversità del Tingaara, è comune a molti di noi. Ma bisogna accettare, piuttosto che imparare, che fa parte del gioco.

Kukuru non ha imparato, ha semplicemente accettato che a volte le cose fanno il loro corso. Che il Gama Gama sarebbe morto ne era consapevole, ma ha lottato comunque per difenderlo, ha fatto ciò che era giusto. Che sarebbe tornata con la coda tra le gambe dopo essere fuggita, lo sapeva, eppure è scappata lo stesso, ha fatto ciò che era giusto.
Come dice il nonno: "Continua a lavorare sodo, e qualche volta sarai ricompensata."
Per tutte le volte che l'hanno chiamata Plancton, che è stato un no invece di un sì, per il Gama Gama che non c'è più, per tutte le delusioni. Le cicatrici sono la testimonianza di Kukuru, come lo sono per tutti noi, che lei al suo sogno non ha mai smesso di crederci, anche quando avrebbe voluto.

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Riprendono le avventure di Hachiken alla Ezono, esattamente dove lo avevamo lasciato.
Per Hachiken è un anno campale: all’“uomo che non dice mai di no” vengono imposti impegni di varia natura che rischiamo di farlo collassare, ma che allo stesso tempo lo mettono davanti alla consapevolezza di qual è il suo carico massimo.

Tra gli impegni per il festival, il suo ruolo di vicecapitano al club di equitazione, l’adozione di un cucciolo di cane (che poco tocca davvero la trama), lo studio e la presenza di un padre che gli rema contro, non ha una vita serena. In più, con la sua volontà di occuparsi degli altri, verrà coinvolto emotivamente nel fallimento della fattoria di Komaba e nel mondo insidioso dei debiti e dei garanti, capendo che la vita di un allevatore non è, non sarà mai, tutta rose e fiori.

In questo arco narrativo non c’è un’uniformità, come in quello della prima serie, in cui il filo conduttore era Spezzatino, il maiale di cui Hachiken si prende cura dalla nascita alla post-morte, acquistando consapevolezza su cosa sia il benessere animale rispetto ai bisogni alimentari umani.
Il fatto di non avere un unico grande denominatore penalizza questa serie, infatti l’inserimento ansioso di eventi sopra eventi, l’attenzione a Komaba con l’intero episodio dedicato al baseball (pesantino davvero), il poco spazio che trovano le gag e la serietà andante che la caratterizza, con l’inserimento sì di spiegazioni sul formaggio o sulla nascita di una mucca (ma appaiono marginali), la rendono un po’ pesante e poco digeribile, seppur non si può negare il suo valore.

Valore che troviamo nelle scelte che Hachiken abbraccia, che non sono definitive per il suo futuro (non ancora), ma che gli danno la maturità di chi non ha paura di affrontare il futuro e capisce che sta bene dove sta, malgrado non sappia dove andrà a finire. Scelte manifestate dalla sua forza di volontà, trovata dopo anni di silenzi, quando affronta il padre. La stessa forza che manifesta nel sostenere la decisione di Aki e la responsabilità che accetta nell’aiutarla a perseguire il suo sogno.
Il finale è aperto, coprendo quest’anime solo una parte del manga, ma questo non lede l’opera, la cui narrazione, risolutiva delle vicende narrate, seppur restando aperta, non viene tradita o stravolta.

Di quest’anime resta l’ambientazione originale, la cura dei dettagli dell’allevamento degli animali, dalla loro nascita al macello, e le spiegazioni mai pesanti su temi di produzione, come le scene dedicate al formaggio e alla sua manipolazione. Le immagini del cibo sono davvero spettacolari.

Un protagonista come Hachiken da solo risulta snervante, come negli episodi in cui nessuno gli raccontava nulla e lui si doleva dell’impossibilità di aiutare, o quando, affrontato il padre la prima volta, ne ricava una visione del mondo così negativa, da risultare insopportabile. Per fortuna ci sono molti personaggi, che in una serie breve fanno da riempimento e supporto. Tra tutti ricordiamo Aki, verso cui Hachiken ha una cotta mostruosa (e lei lo ha capito!), ma tra loro non vi è un’evoluzione nel rapporto. Komaba fa la sua figura, davvero esemplare, ma dedicargli così troppo tempo nell’anime mi è parso eccessivo. Gli altri personaggi sono i riempitivi simpatici della prima serie, favolosi seppur non abbiano una psicologia complessa. Forse un personaggio mi ha snervata più di Hachiken, Ayame Minamikujo, la cui risata insopportabile, la cui spocchia esagerata e il fatto che in tempo zero abbia trovato posto nel gruppo, senza contare i suoi trascorsi, narrati con rapidissime pennellate, mi hanno fatta interrogare sulla sua vera utilità nell’economia dell’anime.

La grafica è quella della prima serie, con personaggi non belli, tratti poco elaborati. Senza gloria o disonore.
Il sonoro non è memorabile, mentre l’opening e l’ending non brillano particolarmente.

In definitiva, “Gin no Saji 2” si dimostra capace di mantenere uno standard narrativo in continuità con la prima serie, ma registra criticità sulla trama e sull’intreccio, aggiungendo poi la maggior serietà di questa seconda serie e la marginalità delle faccende casearie e di allevamento. Ho avuto una pesantezza e un po’ di tedio a seguirla. Ne è valsa la pena, ma rispetto la prima serie ho percepito un calo.