Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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Chara design accattivante e un’aria “potteriana” sono il biglietto da visita di questo anime sulle streghette targato Netflix. Di primo acchito sembra essere esattamente così, con la protagonista che cerca di entrare a far parte di questo mondo a lei conosciuto solo tramite delle carte collezionabili e spettacoli della propria beniamina, equipaggiata esclusivamente di un inesauribile entusiasmo. L’incipit sembrerebbe bastare, tuttavia come trama da sviluppare si dimostra ben presto abbastanza debole. È un male? No, perché, pur non regalando una storia trascendentale, come leggero prodotto d’intrattenimento svolge bene il proprio compito, dove l’unica pecca sta nell’essere ‘so shiny’, eccessivamente chiaro e diurno per la fatidica ora delle streghe... o per gli amanti delle ambientazioni create dalla Rowling.

Ad un certo punto, però, le basi per una trama orizzontale più articolata - e anche “impegnata” - vengono gettate, e il tutto viene portato su un altro livello, dove persino quella che sino ad allora pareva essere la nemesi della nostra mattatrice Akko si darà da fare per soddisfare la quest. Ahimè, non si tratta altro che di un fuoco di paglia, per un argomento che si rivela spesso ridondante e che in generale va gradualmente a levare pure quell’atmosfera fatata (o forse sarebbe meglio dire stregata) che a modo suo si percepiva, rendendola invece una pretenziosa forzatura.
Sono di gran lunga preferibili quegli episodi fini a sé stessi, per quanto talvolta frivoli, come la corsa con le scope, la scrittrice di romanzi o gli approfondimenti sui personaggi secondari, dove, nonostante qualche scivolone, l’incanto rimane intatto grazie alla loro semplicità e dinamismo.

In seguito avviene un ulteriore cambio di registro, con l’introduzione della villainess e il plot che viene instradato sui binari di un diretto per il connubio/contrasto fra tecnologia e magia, un’alchimia mai perfettamente riuscita che va leggermente ma sensibilmente a snaturare il contesto (con singola eccezione a confermare la regola, Constanze Amalie von Braunschbank-Albrechtsberger). Si punta sul classico cattivo, insomma, e dal punto di vista del racconto il titolo ne trae sicuramente giovamento, a discapito però ancora una volta della magia, rinunciando a una parte di sé - quella che seguivo più volentieri. Un plot twist lungo e telefonato e uno invece tanto improvviso quanto sorprendete ci accompagnano al finale di questa serie in una modalità molto 2.0, nonostante le dichiarazioni d’amore al tradizionalismo.

Nel complesso, un titolo che si fa apprezzare (e molto) più per quegli elementi che se ne stanno sullo sfondo a definire il background e la personalità di “Little Witch Academia” che per il filone principale di quest’avventura. Merita comunque un giudizio positivo, perché, nonostante non sia riuscita ad esprimere quanto aveva da dare e una caratterizzazione un po’ diversa da quanto era lecito aspettarsi, nel complesso Luna Nova ha regalato anche diversi bei, vivaci, momenti... di quelli che riaffiorano con piacere alla memoria ogni volta che ci si imbatte in qualche immagine (graficamente sì che sono incantevoli senza se e senza ma) di una di loro.

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"Sandy dai mille colori" è, in ordine cronologico, la quarta maghetta protagonista di una serie realizzata dallo Studio Pierrot. Il titolo italiano, a differenza di quello originale, non fa un riferimento specifico all'attività preferita della protagonista, ossia il disegno (Sandy ha infatti il sogno di diventare una mangaka), ma può essere collegato anche all'attività dei genitori di Sandy, che hanno un negozio di fiori.

Con le sue "cugine" Yu, Persha/Evelyn e Mei, Sandy condivide diversi aspetti, come l'età preadolescenziale, il carattere gioioso ed espansivo che deve catturare la simpatia dello spettatore, il fatto di essere figlia unica (solo Mei aveva un fratellino, peraltro piuttosto marginale nell'economia della storia) con i genitori che hanno una propria attività commerciale, e soprattutto l'acquisizione dei poteri magici ad opera di uno o più folletti alieni: in questo caso si tratta di Pico e Paco, due folletti dall'aspetto simile a paffuti gattoni. Rispetto a Posi e Nega de "L'incantevole Creamy", Pico e Paco sono molto più "morbidosi" ma anche più discreti, rimanendo invisibili ai normali esseri umani e palesando la propria presenza a Sandy solo nei momenti in cui questa si trova in difficoltà o in pericolo. Vi è anche una differenza sostanziale con le altre "Pierjokko": i poteri magici di Sandy non la trasformano in un'altra persona maggiore d'età, ma le permettono di creare dal nulla oggetti o situazioni che però non possono più essere ripetuti. Ciò da un certo punto di vista può rendere più interessante il singolo episodio (quale sarà la magia che farà oggi Sandy?), però toglie la suspense data nelle altre serie dalle situazioni in cui l'identità segreta della protagonista era in pericolo, e dai suoi stratagemmi per non farsi scoprire. Alla luce di questo fatto, non è forse un caso che la serie conti un numero d'episodi minore di quello delle altre "Pierjokko" (venticinque, dei quali diversi sono di riepilogo), come se a un certo punto gli sceneggiatori avessero esaurito le idee. Ciononostante, la conclusione della serie (col "mondo dei fiori", di Pico e Paco in pericolo e Sandy che cercherà di risolvere la situazione) appare piuttosto affrettata e non porta a cambiamenti sostanziali nei rapporti interpersonali dei personaggi.

Il character design è semplice ma molto elegante, probabilmente il migliore tra le quattro serie di maghette dello Studio Pierrot degli anni Ottanta (non considerando la successiva "Fancy Lala"). Tra i personaggi di contorno, è presente ovviamente il ragazzo goffo che ama, non corrisposto, la protagonista (Ciccio), il ragazzo belloccio e maggiore d'età spasimato dalla protagonista, il quale però non se la fila (Roby, dipendente dei genitori di Sandy, appassionato di deltaplano e fratello maggiore di Ciccio), un'anziana "macchietta" (il nonno paterno di Sandy) e coloro che appaiono il più delle volte come antagonisti, seppure talora in modo un po' forzato: la grassa e bisbetica signora Trudy e il suo maggiordomo Carmelo, dall'acconciatura che sembra una parrucca settecentesca.
In questa serie vi sono meno riferimenti alla cultura giapponese che in altre, al punto che l'adattamento italiano targato Mediaset, con i nomi cambiati, non sembra nemmeno tanto stonato.

In conclusione, "Sandy dai mille colori" è probabilmente la "Pierjokko" con meno mordente, ma rimane una serie abbastanza piacevole da guardare, a patto di non aspettarsi un capolavoro.

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Creare un sequel non è sempre un’idea vincente, soprattutto se lo si fa senza avere in mente una chiara idea su come proseguire la storia. Considerando quanto “Futari Wa” abbia avuto successo, e quanto le protagoniste siano entrate nei cuori degli spettatori, era anche normale proseguire su questa linea, eppure trovo che questa occasione sia stata sfruttata male, in certi casi perfino con pigrizia.

Si può notare questo problema già nella trama, che in realtà era anche iniziata in modo un minimo intrigante. Certo, il punto di partenza era abbastanza forzato, se si pensa a cosa ci è stato detto per ben due volte nel corso della precedente stagione, ma una mezza spiegazione c’è stata e ci si accontenta. In sostanza, la Regina del Giardino della Luce si è indebolita e di conseguenza scomposta in tre parti, dunque la missione delle Cure è quella di ricongiungere queste parti, in modo da evitare l’ennesimo risveglio di Re Jaaku. Il fulcro, quindi, è come al solito il confronto tra luce e oscurità, le cui personificazioni si trovano a fronteggiarsi di nuovo, anche se questa volta sotto forma di bambini. Ciò ha senso, perché in fondo i concetti di bene e male non scompaiono mai, bensì evolvono nel tempo, dunque c’erano senza problemi le premesse per scrivere una storia che fosse interessante in quarantasette episodi su quarantasette... cosa che però non è avvenuta, perché per gran parte delle puntate gli autori si perdono, per poi ritrovarsi solo in sporadiche occasioni (e anche queste non è che siano gestite alla perfezione in alcuni casi). Gli episodi, per la gran parte slice of life, sono più noiosi di quelli della stagione precedente, e la colpa di questo va imputata ovviamente all’inerzia con cui si trascinano le storie “minori”, soprattutto quelle delle tre protagoniste.

Il caso più eclatante è di sicuro quello di Hikari, ovvero Shiny Luminous, ovvero una delle Cure gestite peggio nella storia del franchise. Ci viene presentata fin da subito come personaggio chiave di questa nuova vicenda, e poiché Nagisa e Honoka hanno già fatto la loro parte in “Futari Wa”, sarebbe stato bello vedere approfondito questo nuovo ingresso nel team. Parlo al condizionale passato, perché poi questa eventualità non si è mai verificata, relegando la poveretta all’inutilità più totale. Le sue origini sono chiare fin da subito, dunque il mistero che la circonda perde presto di attrattiva; resta comunque il suo sviluppo psicologico, che però viene sfruttato così male, che di conseguenza intere puntate perdono di attrattiva. Di positivo c’è comunque il fatto che lei compia un percorso, semplice, sempre lineare e coerente con sé stesso: Hikari all’inizio possiede conoscenze davvero molto basilari del mondo in cui si ritrova a vivere, e piano piano acquisisce sempre più informazioni, al punto da dover prendere, sul finale, una decisione in maniera del tutto autonoma. Purtroppo però c’è anche il rovescio della medaglia, un errore a mio parere grave, in generale ma soprattutto nel caso di un personaggio intorno a cui ruota l’intera trama: il percorso subisce molto spesso delle battute d’arresto. Delle pause potevano essere comprensibili, perché escludere del tutto gli altri personaggi (protagoniste e comparse) non avrebbe avuto senso, visto che questi continuano ad esistere, ma purtroppo si è scelta l’altra opzione, che a questo punto non fa altro che evidenziare come non ci fosse la benché minima idea di come far muovere Hikari (che, ripeto, in teoria doveva essere la protagonista assoluta di “Max Heart”).

Tuttavia Shiny Luminous non è l’unica ad avere problemi in questo senso. Anzi, sfido chiunque a trovare in questa seconda stagione qualcuno che sia gestito come si deve. Nagisa e Honoka infatti non fanno eccezione, tanto da seguire la loro nuova compagna nella classifica dei personaggi che subiscono un pessimo trattamento, risultando piuttosto deludenti (per quanto comunque Nagisa sia sempre quella messa meglio rispetto alla partner). E la loro è una situazione davvero paradossale, perché sono protagoniste assolute, però non dovrebbero esserlo, perché c’è Hikari, però allo stesso tempo si ritrovano a rubare la scena all’amica e non si capisce il perché, dato che... non si sviluppano più. Nada. Si ritrovano sotto i riflettori, ma non esiste nessuna loro maturazione, tranne che negli ultimi episodi, dove invece si trovano ad affrontare eventi mai vissuti prima e che, per questo, permettono loro di mettersi alla prova. La sensazione che si prova per gran parte del tempo è dunque quella che le Cure abbiano già dato tutto ciò che avevano da dare, e che i minuti spesi siano sostanzialmente inutili, perlomeno se si cerca una serie che punta sull’evoluzione dei personaggi come, ad esempio, lo è stata “Futari Wa”. Non c’è un messaggio, non c’è un cambiamento, solo qualche emozione qua e là che però non porta a nulla, se non nel blocco finale di puntate, da cui tutto per fortuna riprende vita.

Che dire allora di Lulun? Se l’avete dimenticata, non posso biasimarvi: prima di questo rewatch è successo anche a me, e rivedendo gli episodi ho capito il motivo. Lulun è tanto carina quanto inutile. Il suo aspetto è gradevole, ma è l’unico lato positivo che possiede. Perfino il lieve sviluppo a cui va incontro non riesce a spiccare, dato che ricalca in tutto e per tutto quello di Pollun, solo più superficiale, avendo avuto meno tempo a disposizione. In più questa nuova mascotte non ha neanche chissà quali rapporti con gli altri personaggi, dal momento che interagisce soltanto con la sua padrona (Hikari) e con Pollun stesso, che le fa da mentore. Ciò, unito alla ripetitività della storia, non può di certo essere un bene. L’unico che non ne esce sconfitto, stranamente, è proprio Pollun, che anzi migliora e cresce, arrivando a capire cosa in passato abbiano provato le ragazze a causa della propria infantilità. In ogni caso, si poteva fare molto di più.

Leggermente meglio va ai nemici, che copiano così tanto i propri predecessori (i primi) da risultare impersonali come loro. Ciò da un lato è un bene, visto che ci si aspettava già una certa mediocrità, e quindi la delusione è stata minore, ma davvero al terzo gruppo di cattivi non si riesce a fare niente di meglio? I parallelismi non si sprecano, c’è addirittura un bambino misterioso indispensabile per la trama e che non odia le avversarie. Kiriya, sei tu? Ovviamente non finisce qui, ci sono comunque delle differenze, e in generale degli elementi che ho apprezzato, che aiutano a compensare in parte quei problemi già menzionati. Innanzitutto sono stati mantenuti i due maggiordomi Zakenna, stranamente non purificati nella conclusione di “Futari Wa”. Non ha molto senso che rimangano, almeno a livello di coerenza, ma sono simpatici e aiutano a smorzare la tensione, giustificando anche i momenti più ridicoli che coinvolgono i loro superiori. Ciò genera in automatico quello che credo sia il secondo pregio di questo gruppo, ovvero il senso di famiglia che lasciano percepire ogni volta che si vede una scena ambientata alla villa. Non viene molto approfondito, purtroppo, viene semplicemente costruito piano piano, a piccoli passi, ma tanto basta per renderlo godibile. Per fare un esempio, nonostante i nemici siano l’esatto contrario di memorabili, riescono insieme a sembrare una famiglia più di quanto ci siano riusciti i precedenti Poisonny e Kiriya, che in teoria avevano anche un legame di sangue.

Tuttavia, e di questo mi dispiace abbastanza, il pregio in questione si traduce in un nulla di fatto quando si tratta di combattere, perché sfortunatamente molte lotte fanno acqua da tutte le parti, non solo in ambito nemici (che di rado arrivano a collaborare). Ma partiamo per una volta dai lati positivi: innanzitutto, la qualità generale è migliorata rispetto a “Futari Wa”, sia per il livello dei disegni (meno mostruosi del solito), sia per la maggiore fisicità. Non significa che ogni lotta sia favolosa, tutt’altro, ma in proporzione sono meno ridicole delle prime e ogni tanto ci sono anche dei picchi interessanti. Tolti questi ultimi, però, ci si rende conto presto che lo schema è sempre lo stesso. Già il problema è presente durante le parti slice of life, che si sviluppano sempre allo stesso modo e che in alcuni casi sono perfino copiate o da “Futari Wa” o da “Max Heart” stesso, in più lo ritroviamo anche durante le lotte, dunque il disastro è assicurato: i nemici, di per sé, non sono originali e non si distinguono tra loro (hanno differenze caratteriali, ma contano troppo poco), il che porta ad avere dei combattimenti privi di peculiarità. Nessuno riesce a dare una propria impronta agli scontri. Non c’è un nemico furbo e calcolatore che punta tutto sulla strategia o uno più violento, è tutto molto piatto. E il bello è che, in teoria, i nemici possiedono queste caratteristiche, semplicemente non le sfruttano, quindi a che servono? A niente, così come non serve a nulla neanche Hikari, che riesce a essere inutile anche qui. Oscilla di continuo tra il ruolo di deus ex machina spudorato a quello di zavorra, ma in generale si può dire che abbia battuto il record mondiale di Cure che sferra il primo colpo più tardi delle altre (e lo fa in “Hugtto”, una serie che neanche è la sua, trasmessa oltre dieci anni dopo questa). Questo schema, che all’inizio poteva anche essere vagamente interessante, con il tempo diventa in maniera assurda logorante e poco coerente, perché prevede dei passaggi che non ha senso siano presenti ancora a serie inoltrata, non quando i nemici conoscono la natura di Luminous e dall’altro lato le Cure sanno cosa cerchino i nemici. In sostanza, si vede di continuo un cattivo qualsiasi che riesce a isolare Luminous e Black e White, che invece si scontrano con lo Zakenna di turno; dunque il duo si preoccupa per la compagna e si ripromette di proteggerla, mentre i cattivi comprendono il modo di combattere delle avversarie e assicurano di tornare più forti... ma secondo voi questo avviene? Ovviamente no. Ogni volta sempre la stessa storia, come se l’episodio precedente non fosse esistito. Capisco (fino a un certo punto) che Luminous non abbia attacchi fisici o purificatori, e che quindi sia più passiva delle altre due, ma mi sembra di essere presa in giro, perché non è possibile che in contesti simili Nagisa e Honoka facciano una tale figura da tonte, il tutto mentre Hikari non si offende mai.

Pessimi sono anche gli attacchi, o meglio l’attacco. Accadeva già in “Futari Wa” che gli attacchi fossero molto simili fra loro, mentre qui no, qui sono proprio uguali e non viene neanche nascosto. Sì, è vero, una volta si sente parlare di nuovo del Marble Screw e una volta del Luminario, ma è tutto molto monotono, e se non fosse per il nome, non si capirebbe neanche che si tratta di un colpo diverso. Addirittura a circa metà serie viene reintrodotto l’espediente dei braccialetti che potenziano Black e White, tra l’altro spacciato come novità assoluta, quando in realtà si era già visto in passato con le stesse modalità. A salvare un po’ la situazione c’è però Luminous, che fa poco, ma in questo caso fa bene, perché porta una leggerissima ventata d’aria fresca. Infatti, non essendo attiva in combattimento, ha (o meglio, dovrebbe avere) un ruolo difensivo, e ciò si vede dall’unica tecnica in solitaria che possiede, il Luminous Heartiel Action, che apprezzo proprio per questa volontà di creare qualcosa di differente dal solito. Sorvolo invece su quella sorta di scudo che evoca con l’aiuto di Lulun: non ha nemmeno un nome, quindi non credo che ci fosse l’intenzione di dargli troppa importanza.

Di veramente bello poi ci sono le trasformazioni, sia quella di Luminous, sia quella di Black e White. La prima è un po’ troppo statica e ha delle inquadrature e dei suoni che non mi convincono troppo, ma se la cava abbastanza bene ed è adeguata al genere di personaggio. La seconda invece è quella che riesce al 100% nell’intento, superando perfino la versione precedente, che era piuttosto bruttina, considerando poi che era anch’essa molto statica e non rispecchiava per niente il tono della serie. Qui invece le Cure si muovono e anche parecchio, e non sono nemmeno disegnate male. L’unica pecca arriva a fine stagione e per colpa di Hikari (anzi, di Lulun), in quanto la scena in cui la mascotte si tramuta in spilla, che da sola è anche realizzata bene, viene appiccicata alla fine della trasformazione di Luminous senza un minimo di continuità, né di colonna sonora né di sfondi, e questo è un vero peccato, perché va a rovinare qualcosa che stava scorrendo liscio come l’olio.

A proposito di disegni, come già accennato, la qualità è migliorata, anche se in alcuni episodi si vedono ancora dei veri e propri obbrobri. In generale, come è anche ovvio, sono le parti slice of life quelle che rendono di più, laddove in quelle di azione i personaggi risultano spesso deformati, sia per quanto riguarda le protagoniste sia per quanto riguarda i nemici. “Meravigliose” ad esempio le svariate facce brutte di Circulas, le ossa di White che svaniscono, facendola diventare di gomma (e questo anche negli ultimi episodi), o l’intera figura di Luminous che, nell’iconico episodio 11, perde del tutto di consistenza e sembra più un dipinto astratto che un corpo umano. Positivo anche l’uso della CGI, che, pur non essendo mai fatto benissimo (come nel caso del Queen Chairect o della Regina), è comunque nella maggior parte dei casi efficace e poco straniante. Un esempio di questo miglioramento è di sicuro Re Jaaku, che si muove in modo molto più fluido e quindi risolve uno dei problemi che l’intera stagione precedente aveva.

Sul lato tecnico è positivo anche l’utilizzo delle musiche, che sono sempre appropriate all’occasione. Di materiale nuovo c’è poco, ma in questo caso la ripetitività non pesa, perché comunque i brani strumentali sono sempre piacevoli da ascoltare. Per quanto riguarda invece l’opening e le due ending, ho qualche appunto da fare. L’opening, un semplicissimo rifacimento della storica opening, brilla di luce riflessa, in quanto è uguale alla precedente solo più spenta, con meno emozione; la prima ending al contrario è una canzone originale, che a mio parere è veramente inascoltabile, una delle sigle peggiori che io abbia mai sentito. Veramente non riesco a digerirla. Per fortuna nel periodo invernale è stata sostituita con un’ending decisamente più orecchiabile: meglio tardi che mai, anche se avrei preferito sentirla già da molto prima, perché è sì leggera ma non eccessivamente frivola come l’altra.

In conclusione, i difetti di “Max Heart” sono veramente tanti. In parte pesano più rispetto a quelli della stagione precedente, che aveva dalla sua parte un’ovvia inesperienza degli autori, ma per il resto possono anche essere sorvolati. Non del tutto, come nel caso dei problemi delle animazioni o dello sviluppo dei personaggi, ma in gran percentuale sì. Oggettivamente quindi non posso dire che “Max Heart” sia riuscitissimo, per quanto possa comunque risultare gradevole se si guarda senza un certo occhio critico. Le vicende sono rilassanti, i personaggi continuano a vivere storie in cui tutti possiamo immedesimarci, quindi non me la sento di bocciare del tutto questa stagione e le do un 6 risicato.