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6.0/10
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"Non basta avere le ali per volare, bisogna anche conoscere la destinazione".

"Ahiru no Sora" è purtroppo il classico esempio di un anime che sembra promettere molto all'inizio ma che durante la visione da l'impressione di cadere continuamente sotto molti aspetti determinanti: dalla realizzazione tecnica modesta alla caratterizzazione stereotipata dei personaggi, fino a una conclusione monca che lascia la classica sensazione dell’amaro in bocca.
La serie anime, tratta dall'omonimo manga di Takeshi Hinata, è il classico anime sportivo che si inserisce nel filone degli spokon dedicati alla pallacanestro. La serie, prodotta dallo studio Diomedéa, conta ben 50 episodi e si è conclusa nel 2020 senza alcuna notizia di un seguito, a causa dell'insoddisfazione dell'autore sulla realizzazione animata che di fatto ha interrotto la collaborazione con lo studio. Pertanto, a coloro che si accingono alla visione non posso nascondere che la storia resta incompleta, limitandosi a narrare le gesta di un gruppo di teppisti senza alcuna passione per il basket che al termine sembrano folgorati come San Paolo sulla via di Damasco dal sacro furore per questo sport che amo e seguo da anni.

Le note dolenti iniziano dai confronti inevitabili con due opere che hanno segnato il benchmark degli spokon nell'ambito della pallacanestro: "Slam Dunk" e "Kuroko no basket".
Mentre il primo potrebbe essere considerato come una sorta di capostipite del genere, con una sceneggiatura valida, personaggi ben costruiti e una regia che valorizza tecnicamente le azioni sul campo, il secondo a mio avviso sembra puntare più sull’esagerazione e sullo spettacolo, con abilità quasi sovrumane e una tensione costante nelle partite, dando comunque valore ai protagonisti con le loro storie umane, con un buon mix tra agonismo e momenti di riflessione.
"Ahiru no Sora" sembra cercare una via di mezzo: più realistico di "Kuroko no basket" e meno profondo di "Slam Dunk". Purtroppo il risultato è un ibrido che non mi ha convinto appieno.
Dal punto di vista tecnico, le scene di gioco durante le partite sembrano una sequenza di immagini o diapositive, carenti di fluidità, ritmo e senso logico e pertanto poco coinvolgenti, il tutto aggravato da animazioni piatte. Il basket, cui la serie dedica un numero enorme di episodi per sole due partite giocate, diventa spesso il contorno per spiegare con continue interruzioni alcuni aspetti salienti delle motivazioni dei personaggi principali, scimmiottando soprattutto "Slam Dunk" senza tuttavia donare ai personaggi quella tridimensionalità di cui necessiterebbero per rendere i continui flashback accettabili e significativi per l'economia della trama.

Sora Kurumatani è il classico protagonista piccolo di statura ma grande di determinazione e cuore; ha in testa solo il basket e, incidenter tantum, una certa simpatia per la bella senpai Madoka che come lui gioca a basket nella squadra della scuola superiore. La sua promessa alla madre, ex giocatrice di successo di basket a livello nazionale, di vincere un torneo scolastico è il motore della sua motivazione, al pari di quella di dover dimostrare a tutti i costi che la pallacanestro non è riservata solo a giocatori di statura elevata.
Credo che la sua caratterizzazione sia tra le peggiori per tutti i personaggi che la serie presenta: fin troppo prevedibile e spesso ingenuo al limite della ottusità. Lui non si arrende mai supera ogni ostacolo con l'ottimismo e immensi sacrifici.
Il gruppo dei teppisti della Kuzuryu High School – Momoharu, Chiaki e gli altri – segue più o meno lo stesso schema: ragazzi problematici che si redimono grazie allo sport. Anche qui, la scrittura non osa, non approfondisce, si limita a presentarli sempre dal punto di vista della goliardia più stupidamente maschile con qualche spunto serio, che li rende simpatici come dei bambini non cresciuti nel difficile passaggio dall'adolescenza alla presa di coscienza dei doveri come rappresentati della scuola dal punto di vista sportivo.
Le figure femminili, Madoka e Nao in particolare, sono relegate a ruoli di supporto emotivo o interesse amoroso. Madoka, capitana della squadra femminile, ha un potenziale che resta inespresso con delle improvvise "contraddizioni" durante gli episodi che tendono a fuorviare lo spettatore: prima impegnata con le partite e poi comparendo a sprazzi in modo poco omogeneo nella sceneggiatura tanto per ricordare che esiste. Nao, auto impostasi come manager della squadra maschile, sembrerebbe una grande conoscitrice del gioco del basket ma incide pochissimo nell'economia del gioco e non assurge al ruolo che le dovrebbe competere come punto di riferimento dei giocatori.

Approfondimento a parte spetta a quello che sembra uno dei temi più interessanti della serie: il legame tra Sora e sua madre, ex giocatrice di talento. Il dono delle scarpe da basket, che Sora considera le sue "ali", è una metafora in apparenza molto significativa. Ma la madre, pur essendo la sua guida ed ispiratrice, resta distante, quasi assente anche a causa di un evento infausto. Il loro rapporto è fatto più di silenzi, equivoci ed apparenti incomprensioni e una malinconia che permea ogni scena in cui lei appare una volta che lo spettatore è consapevole del suo tragico destino. Una sorta di distanza emotiva narrativamente per me apprezzabile ma che non viene affrontata come mi sarei atteso, appiattendola sul solito cliché della motivazione a dimostrare che anche un ragazzo di piccola statura possa essere in grado di sfondare nella pallacanestro piuttosto che spingere l'approfondimento del loro rapporto in una dimensione più profonda, affrontando temi quali il peso delle aspettative familiari, il senso della affermazione della propria identità e il bisogno di riconoscimento.

Il tutto poi resta sacrificato al solito cliché di molti spokon visti: il dominio della retorica del sacrificio. Allenamenti estenuanti, infortuni ignorati per il bene della squadra, delusioni superate con la solita filosofia del "domani sarà un altro giorno". È un messaggio che diventa sinonimo di "ottusità" se non è bilanciato con altre riflessioni critiche o interessi. E come al solito, manca o è appena accennata la componente romance...

Sui personaggi, mi sono piaciuti i due "gemelli diversi" Momoharu e Chiaki per la loro capacità di donare alla serie quella leggerezza formata da un buon mix di comicità e dramma. Momoharu è il capitano, impulsivo e testardo, mentre Chiaki è più riflessivo e ironico. La loro interazione tra loro e con gli altri membri della squadra è uno dei punti forti della serie, offrendo momenti di leggerezza ma anche di riflessione. Se Momoharu ha un ruolo centrale nel motivare il gruppo, la sua relazione con Madoka lo mostra anche come sia ancora emotivamente ed affettivamente immaturo, mentre Chiaki, con il suo modo di fare in apparenza fanciullesco è invece il c.d. mediatore, capace di risolvere i problemi della squadra ma raramente viene approfondito al di là del suo ruolo di "grande saggio". Come gli altri personaggi, anch'essi restano funzionali alla narrazione, proprio perché la sceneggiatura privilegia lo scorrere degli eventi sulla costruzione psicologica e abdicando ogni velleità di esplorare le sfumature dell’adolescenza e dello sport.

Pertanto, "Ahiru no Sora" resta un anime che soffre di alcuni limiti e, primo fra tutti, la mancanza di un seguito. Ma la debolezza tecnica, i personaggi stereotipati e la retorica abusata lo rendono un prodotto che, nonostante il considerevole numero di episodi, non riesce ad entusiasmarmi: per carità, a coloro cui piace il basket e cercano una storia di crescita, potrebbe rappresentare una visione piacevole solo se non si cerca profondità, innovazione e una narrazione compiuta.