Paradise Lost 1 Kamiyama è ‘riuscito’ in una cosa in cui non riusciva da parecchio: sorprendermi. E non è poco.
L’avevo lasciato imballato e imbolsito in mezzo alle fila diradate del secondo film. Può darsi abbia letto sul serio il libro che mi auspicavo leggesse, può darsi che invece abbia operato un serio processo di auto-revisione. Fatto sta che adesso Kamiyama è diverso, rinnovato, oserei dire risorto dalle ceneri di The King of Eden. Potrebbe avere compiuto l’ultimo passo di cui parlavo la scorsa volta, potrebbe avere messo piede sul primo gradino di un’altra scala – quella da autore. Vedremo.

Ciò che si è visto adesso è quel che Solid State Society aveva cercato e The King of Eden non aveva neppure tentato di essere: un film. In Paradise Lost, e magari il titolo è doppiamente significativo, Kamiyama trova infine, insieme alla solidità narrativa, un taglio cinematografico.
Mettendo da parte la cara Saki, comunque meglio integrata nei meccanismi dell’intreccio, e tallonando da vicino Akira, la sua regia calibra il ritmo in funzione dinamica abbandonando quell’asepsi espositiva fin troppo scolastica. In Paradise Lost, Kamiyama si evolve nell’impostazione dei travelling, nei giochi di profondità campo/piano, nel montaggio parallelo in cui interseca, addirittura, un’analessi con raccordo subliminale – a memoria, l’unico precedente risale a un episodio di Seirei no Moribito. In breve, Kamiyama marca a fondo una nuova ricerca formale.

Inoltre affronta, o meglio porta a compimento una seconda e parallela rielaborazione sul proprio piano concettuale. Riprende il Laughing Man e spoglia il suo idealismo – se stesso, forse – di quella sovrastruttura teorica che sposta in Mononobe, alter agendi del protagonista. Akira conserva gli ideali con leggerezza e così li persegue, easy life. L’‘Uomo che ride’ contemplativo, incapace di muoversi nel concreto e fallimentare quando ci prova, è sostituito dall’Akira che agisce con il sorriso guidato dal momento.

Paradise Lost 2 L’ottica è diversa, il tempo e le praesentia probabilmente hanno cambiato le convinzioni di Kamiyama, le hanno spostate su altre strade. Dove anche svanisce ogni residuo di speranza e s’insinua un pessimismo di fondo, la convinzione ancora più forte che, al di là dei modi, il singolo – o tanti singoli: stand alone – è un ‘console’ o tutt’al più un capro espiatorio e non basta a ribaltare il sistema. La via deve essere per forza collettiva, e non è detto che riesca, non è detto che non si commettano errori, qualunque siano le intenzioni. Di ciò i vecchi sono i testimoni e sono stati parte attiva. La sconfitta, viene detto apertis verbis, è la nostra generazione, nella quale ogni tanto compare un’icona, innesco di un movimento fatuo che dura fino ai primi segni d’usura delle decalcomanie.

Seppure sgravati dalla loro pesantezza grazie a una messinscena, in parte, ‘leggera’, la crisi economica e soprattutto sociale, l’inadeguatezza della politica, l’impotenza di fronte a un meccanismo – capitalismo – insolvente e insolvibile sono temi presenti e pressanti. A riguardo, lungo il corso di Paradise Lost, Kamiyama si prepara, e lo prepara bene, uno spazio di discussione, si potrebbe dire una lunga chiosa in cui tirare un po’ le somme di ciò di cui ha parlato per tutto il film. La sua verbosità si ritaglia la giusta finestra e stavolta, spezzata più volte laddove avrebbe potuto cascarci, evita la pedanteria ed elude il proclama politico nel quale sarebbe stato facile incorrere. C’è invece spazio per il confronto dialogico con l’‘avversario’ e per una videoconferenza sui generis – il cui spettatore, è evidente, non sta soltanto dietro i monitor diegetici dei telefonini.

Tuttavia nulla è risolutivo. Lo status quo si riafferma, magari increspato per un frangente, magari turbato da un gioco conclusosi nel momento in cui mostrava la corda – o forse l’aveva già mostrata, sebbene nella struttura del film andava ancora bene, ergo non è una colpa troppo grave. Ma le contraddizioni, le iniquità e i problemi tout court restano tali. D’altronde non sarebbe nemmeno corretto pretendere da Kamiyama soluzioni ad oggi chimeriche. Lui filtra un’attualità, la sua – un po’ anche la nostra –, riflettendovi su e invitando alla riflessione.
E lo fa con una mutata consapevolezza visiva. Non è poco.