Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Oggi appuntamento libero, con gli anime Legend of Galactic Heroes, Wicked City - La città delle bestie incantatrici e EF - a tale of melodies.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


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Fino a qualche giorno fa non pensavo che sarei mai ritornato a etichettare un anime come 'capolavoro', o meglio, fino a qualche settimana fa, quando arrivato a metà visione, avevo già capito quanto la maturità e la profondità di Ginga Eiyuu Densetsu si elevassero al di sopra di quasi tutto quanto avessi già visto. La Leggenda degli Eroi Galattici è semplicemente 'leggenda' di nome e di fatto, un capolavoro imprescindibile, imprevedibile, emozionante, indelebile. Mastodontico tanto nella durata (110 episodi per l'home video divisi in quattro stagioni, senza contare vari prequel usciti in seguito) quanto nella dettagliatissima riproduzione dell'universo generato dalla mente di Yoshiki Tanaka, autore della celebre serie di romanzi da cui è stato tratto, è ambientato in un'ipotetico trentacinquesimo secolo in cui i viaggi interstellari sono ormai cosa comune e dove tale è rimasta anche la tendenza degli esseri umani a formare fazioni per darsi battaglia. LOGH riesce, dove tanti altri titoli falliscono, a mantenere viva l'attenzione dello spettatore per ciascuna delle oltre cento puntate di fila, trattando allo stesso tempo temi ostici come geografia e filosofia politiche. E il bello è che potrebbe benissimo riuscirci fornendosi della forza dei soli dialoghi, il cui stampo letterario è spesso ben manifesto, grazie all'uso di una retorica che, attenzione, mai rischia di risultare prolissa, tanto meno di scadere in alcuna gratuita lezioncina morale. Già in questo la sceneggiatura dimostra una maturità invidiabile. La moralità non è mai presentata come qualcosa di inequivocabile, univoco, ogni attore agisce secondo la propria, in completa coerenza, tanto che il rischio di prediligere, da spettatori, l'una o l'altra delle parti opposte, non si corre mai, perché non è possibile stabilire chi sia nel 'giusto' o nello 'sbagliato'. In fin dei conti la guerra da più di un secolo in corso tra la democratica Alleanza dei Pianeti Liberi e l'autocratico Impero Galattico, fa da cornice al conflitto che le figure chiave della vicenda hanno con se stesse. Yang Wenli e Reinhardt von Lohengramm non interpretano il ruolo stereotipato di 'antagonisti': si stimano, si equivalgono nell'ingegno, ma proteggono ideali contrapposti, e spesso e volentieri dubiteranno che perseguirli in modo assoluto costituisca il modus operandi più opportuno. Eppure non possono, non devono indugiare, perché proteggere ideali non vuol dire altro che proteggere le persone che hanno sostenuto, sostengono e sosterranno tali ideali, nel corso di una storia umana che, pertanto, non conosce cambiamento: "In ogni epoca, in ogni luogo, le azioni degli uomini rimangono le stesse" recita l'incipit della seconda opening. Un'osservazione che si riflette specialmente nel fare calmo e modesto di Yang, che invece di diventare ammiraglio della flotta repubblicana, avrebbe preferito fare lo storiografo; più aspirazionista è il modo di pensare di Reinhardt, che giura a se stesso, e a due persone a cui tiene più della sua vita, ovvero la sorella e l'amico d'infanzia-braccio destro Sigfried, di riuscire a ribaltare la dinastia tiranna dei Goldenbaum, presente da cinque secoli, e divenire sovrano illuminato dell'intera galassia. Come spettatori, penso sia davvero impossibile non arrivare a riconoscere con immensa ammirazione lo straordinario carisma che entrambi i protagonisti trasudano, e che li piazza di diritto tra i più memorabili di sempre. Ma se pensate che, degli oltre cento nomi presenti nel cast, essi siano gli unici a vantarsi di una caratterizzazione coi fiocchi, vi sbagliate: la gerarchia militare che costituisce le fazioni si compone di personalità ugualmente capaci di lasciare un segno indelebile sia negli eventi narrati, sia nella memoria del pubblico. Potrei elencare almeno una decina di nomi per i quali non sfigura minimamente l'appellativo di protagonisti aggiunti: il già citato Sigfried Kircheis, giusto e fedele confidente; il giovane pupillo di Yang, Julian Minci; il freddo e machiavellico Paul von Oberstein, gli ammiragli Mittermeyer e Reuenthal, grandissimi compagni dagli interessanti retroscena familiari, poi Bucock, Merkatz, Muller, i vice-ammiragli Bittenfeld e Cazellnu; Schenkopp, comandante dell'imbattibile fanteria Rosen Litter; gli spiritosi Attenborough e Poplan; mentre spiccano, tra le presenze femminili, quelle di Frederica Greenhill, al fianco di Wenli, e Hildegard von Mariendorf, dalla parte di Reinhardt, insieme all'amata sorella Annerose, che avranno un ruolo di primissimo piano nei meriti delle vicende. Nomi di una lista che potrebbe ancora andare avanti, nomi che a dispetto della derivazione prevalentemente teutonica, non si dimenticano facilmente, anche perché gli autori vengono sempre incontro all'osservatore con tempestive didascalie e interventi di una voce narrante, fondamentale per orientarsi nella sapientemente ricamata trama. Sulla quantità di occasioni in cui quest'ultima vi inviterà a nozze con la sorpresa, il ragionamento, la tensione, il dubbio, la meditazione, la commozione, perfino il dolore, non mi soffermerò, poiché ve ne sono tantissime. Tutto ciò che si pretende da un'opera narrativa, sia a livello organico, sia dell'intrattenimento, ma anche dell'emotività, Ginga Eiyuu Densetsu lo garantisce, non rinunciando mai né al pragmatismo, ma nemmeno alla finezza dei mezzi. La morte, elemento che ovviamente ricorre spesso in un contesto simile, è ad esempio affrontata da una parte con immediatezza, con crudezza se necessario, ma talvolta può assumere dei toni più romanzati, ciò non togliendo che il suo peso sia il medesimo. La regia di Noboru Ishiguro (purtroppo scomparso nel 2012) sottolinea con perizia anche questi momenti, ma propone il meglio di sé nella riproduzione delle colossali battaglie tra intere flotte di navi spaziali, riponendo non tanto nelle animazioni, quanto nella componente sonora, le premesse per un esito maestoso. Proprio come era stato con Macross dunque, il regista presta grande attenzione alla colonna sonora, affidandosi al lavoro di Shin Kawabe, Shinsuke Kazato, e poi signori del calibro di Beethoven, Mozart, Chopin, Bach, Wagner, Debussy, Schumann, Brahms, Handel, Rachmaninoff ed altri. Non è da tralasciare nemmeno la bellezza delle sigle, su tutte la terza, molto evocativa 'Sea of the Stars'.
Completare un giudizio sull'apparato tecnico in modo uniforme non è facile: contando una pubblicazione che si estende per ben nove anni ('88-'97), uno sviluppo che passa tra le mani di più studi d'animazione, e il fatto che le animazioni in un anime del genere non abbiano un ruolo tanto prioritario, non si sarebbe potuto chiedere di meglio. Sicuramente degno di nota è il lavoro di character design, elaborato da ben quattro pennini: i volti hanno tratti distintivi, maturi, con linee sottili, eleganti ma essenziali, in uno stile che ancora oggi non risulta affatto obsoleto ed anzi, andrebbe preso d'esempio per la sua efficiente varietà. Decisamente buono anche il mecha-design (Naoyuki Kato), anche se la nave ammiraglia Brünhild è forse l'unica che si distingue un po' di più per bellezza estetica.
Semplicemente, per essere spronati a guardare Legend of the Galactic Heroes non c'è bisogno di essere appassionati d'animazione, o di fantascienza, anzi, direi che entrambi i termini non dovrebbero poi accostarsi troppo all'idea che ci deve fare di quest'opera. Può essere inteso come prodotto di nicchia, certamente, ma solo perché alcuni fattori superficiali, come la durata, l'età, la mole di dialoghi, finiscono solitamente per scoraggiare la maggior parte delle persone. Io stesso avevo 'paura' dei medesimi fattori, che sono poi diventati un lontano ricordo di fronte alla sensazione di meraviglia e coinvolgimento in me provocati dall'inizio e perdurati fino all'ultima, meravigliosa schermata sfocata da lacrime genuine. LOGH è un'epopea spaziale che raggiunge l'eccellenza in ogni sua parte, termine di paragone per la scrittura di sceneggiature, enciclopedia alternativa della storia dell'umanità, emozionante contenitore di storie nelle storie e galleria di personaggi eccezionali, uno tra i pezzi più pregiati dell'animazione giapponese, da tramandare ai posteri e agli scettici.



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La carriera del regista Yoshiaki Kawajiri è fortemente legata alle opere di Hideyuki Kikuchi, visto che tre dei suoi lavori più celebri, ossia La città delle bestie incantatrici, Demon City Shinjuku e Vampire Hunter D: Bloodlust sono tratti dai romanzi dello scrittore. Proprio La città delle bestie incantatrici è il primo film interamente realizzato da Kawajiri, che prima di allora aveva diretto SF Shinseiki Lensman assieme al ben più esperto Kazuyuki Hirokawa e il secondo segmento del film Manie-Manie Meikyu monogatari (il primo è opera di Rintaro, il terzo di Katsuhiro Otomo, il celebre autore di Akira). Inizialmente, anzi, il progetto era nato come cortometraggio di poco più di mezz'ora, ma i produttori rimasero così soddisfatti dal lavoro di Kawajiri da affidargli il compito di farne un lungometraggio, che debuttò nelle sale nipponiche il 25 aprile del 1987 e ottenne un grande successo di pubblico e di critica, oltre a numerose polemiche.

Tratto dal primo romanzo della serie Wicked City, il film è ambientato in una moderna Tokyo di fine XX secolo, in cui l'umanità e demoni abitanti del Mondo Oscuro convivono da secoli rispettando un patto per mantenere la pace, anche se pochi esseri umani sono a conoscenza di questa verità; tuttavia, esiste una fazione di demoni che punta a rompere la pace e per fare ciò intendono eliminare l'ambasciatore del mondo degli umani, l'arzillo vecchietto italiano Giuseppe Maiato. Per proteggerlo, gli vengono affiancate due guardie del corpo, l'umano Renzaburo Taki e la demoniaca Makie, ma le forze che bramano la rottura del trattato sono decise a tutto per ottenere i loro obiettivi, e non si faranno scrupoli per togliere di mezzo il vecchio e le due guardie, accanendosi soprattutto su Makie quando quest'ultima sarà, indirettamente, causa della morte di un altro demone, suo ex-amante. Salvandosi più volte l'un l'altro e conoscendosi meglio, Makie e Taki finiscono, piuttosto prevedibilmente, col mettersi insieme e nella loro unione anzi dovrebbe nascere, stando alle parole finali di Maiato, il primo bambino metà umano e metà demone, simbolo di una nuova era di pace fra i due popoli.

Il lungometraggio si caratterizza per una mescolanza di erotismo, thriller e horror (non sempre ben riuscita, in verità) e da un comparto tecnico accattivante, poiché offre scenari dalla tinte scure (dominanti il nero e il blu) che esaltano l'aspetto noir, animazioni più che buone nelle scene d'azione e nei numerosi combattimenti, e un character design adulto e realistico che rende al meglio la sensualità delle figure femminili e le orride sembianze dei mostri. Il ritmo dell'azione purtroppo cala nella seconda parte del film, dopo un inizio serrato e promettente, mentre la componente erotica (che porta ingiustamente molti a etichettare la pellicola come un hentai) si intreccia spesso e volentieri con quella orrorifica: emblematica è una delle scene iniziali, in cui Taki va a letto con una bellissima donna che si rivelerà essere un demone con una vagina dentata, chiara metafora dell'ansia da castrazione che l'uomo giapponese di fine anni '80 stava vivendo in seguito alla rivoluzione della società e all'emancipazione femminile. In verità, di scene di sesso il film è pieno, presentandoci in più di un'occasione Makie vittima di violenze carnali (stranamente senza opporsi o lamentarsi della cosa) o addirittura un amplesso fra i due protagonisti in una chiesa: sono elementi che potrebbero urtare la sensibilità di qualche spettatore o risultare fastidiosi, e messi lì senza alcun motivo se non quello di soddisfare la perversione dei Giapponesi, ma, se visti all'interno del loro contesto, sottolineano ulteriormente quell'atmosfera cupa, oscura, violenta e perversa che permea la pellicola. Altro elemento che deluderà sicuramente gli spettatori più esigenti è la caratterizzazione dei personaggi, che si basa su stereotipi triti e ritriti (il tenebroso duro che si lascia andare solo a rapporti occasionali con belle donne, la stupenda e intrigante femme fatale, l'antagonista sadico e spietato dallo sguardo minaccioso, il vecchietto libidinoso) e manca di qualsiasi approfondimento o percorso di formazione durante la storia, tant'è vero che la storia d'amore che nascerà fra i due protagonisti risulta, a conti fatti, piuttosto frettolosa e poco credibile (insomma, Makie ha subito da poche ore uno stupro di gruppo e poi, come se nulla fosse, fa sesso con Taki in una chiesa!).

La studiosa di letteratura e cultura giapponese Susan J. Napier ha dedicato grande spazio nel suo libro Anime from Akira to Princess Mononoke all'analisi delle figure femminili della pellicola e delle loro trasformazioni, mettendo in luce come il percorso di Makie, introdotta come personaggio indipendente e più forte del suo collega maschile Taki, poi trasformata in una vittima sacrificale per salvare Maiato e Taki e infine in una figura materna quando rimane incinta del protagonista, rappresenti il ritorno della figura femminile nell'ordine patriarcale in un periodo in cui l'emancipazione femminile coinvolgeva anche il Giappone. Condivisibile o meno questa analisi, La città delle bestie incantatrici resta, pur con i suoi difetti, il primo successo commerciale e di critica di Kawajiri, che vi introduce alcuni degli elementi caratteristici della sua "poetica", e come thriller dalle atmosfere cupe e dall'erotismo "perverso" costituisce una visione gradevole, anche se non eccelsa.



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Se "Memories" è il dettaglio, la pennellata d'autore che dà identità alle emozioni, "Melodies" è la visione d'insieme senza la quale il primo non si completerebbe e, a sua volta, "Melodies" stesso non si compirebbe.
"Memories" e "Melodies" sono infatti due opere compenetrate, strutturate in un unicum che dà forza a entrambe. "Melodies" spiega cosa si cela dietro il palcoscenico di "Memories", ma, nonostante il loro intrecciarsi, riesce comunque a vivere di luce propria: sono come i due lati di un triangolo, illuminati singolarmente, prima di essere svelati dal terzo elemento, il percorso suscitato nello spettatore, in un'unica grande figura geometrica.

Quello che in "Memories" era solo tracciato si compie infatti nell'Otowa australiana. La nuova città, fredda replica dell'originale, si incendia grazie al miracolo compiuto dai suoi protagonisti. Nella prima serie si percepisce l'esistenza di un qualcosa al di là delle vicende messe in onda, ma è nel secondo filone che si assiste alla gestazione del prodigio. Miracolo dunque, un concetto più volte rigettato a turno dai protagonisti dell'anime ("Esistono solo le coincidenze e l'inevitabile" cit.), e infine svelato tra le pieghe dell'intensa luce che permea il personaggio di Yuuko Amamiya. È lei infatti l'artefice, il messo angelico che dà il via a una sequela di eventi concludentisi nella sua stessa ascensione. Yuuko è il personaggio 'cristiano' che agisce nel classico contesto giapponese, un condensato di fatalità, senso del dovere, coerenza estrema e smarrimento. Lei è il vettore di questi archetipi ritratti nei personaggi nipponici che qui intraprendono la strada della redenzione. Il suo desiderio diventa un patto con il divino per portare il bene in un mondo costellato da eventi tragici, sia sociali (terremoto, guerra), sia personali (le esperienze dei protagonisti, anche la sua). E la Otowa australiana, fredda e appena accennata nel primo serial, se non quale scenario del percorso di Renji e Chihiro, diventa il caldo alveo del sogno, l'altro capo di quell'arcobaleno che parte dall'originale in Giappone, a suggellare il patto dei protagonisti con sé stessi e con ciò che vi è celato oltre la scala del cielo (cit.).

C'è qualcosa di speciale in questa opera unica. Nonostante le poche puntate, l'esigua dinamica e alcune scelte stilistiche che ti colgono di sorpresa, percepisci immediatamente di essere dinanzi a un anime come ve ne sono pochi (in tal senso, della specie, ricordo solo "Clannad"). "EF" è un prodotto da far vedere a chi sta male, perché, a mio parere, è una gioia che ti riconcilia con il mondo.

P.S. Guardando "Melodies" in particolare, capisci che spesso si sottovaluta questa forma d'arte. Eppure ci sono cose che ti smuovono qualcosa dentro, come versi distillati dal profondo, colori impressi sulla tela, suoni e melodie che invadono l'aria e disegnano qualcosa dentro di noi. Poteva anche non essere un anime, poteva essere fatto di nulla, ma sarebbe rimasto sempre un capolavoro emotivo.