L'Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Anche il Giappone è un paese in cui il lavoro è parte fondamentale dell'individuo; il problema è che a volte lo è troppo, perché in Giappone il lavoro può portare alla morte. Esiste una parola "Karoshi" che significa appunto "morte da troppo lavoro"; è usata raramente, perché fa paura, perché è quasi una vergogna. Fa coppia con Karojisatsu, termine con il quale si indica il suicidio per il troppo lavoro. Ma come si arriva a tanto?
 

Il vocabolo karoshi è apparso per la prima volta nei dati statistici del Ministero della salute, del lavoro e del welfare giapponese nel 1987 e dal 2002 è stato aggiunto nell'Oxford English Dictionary.
Ma le morti per troppo lavoro erano iniziate molti anni prima: una su tutte fu il decesso del mangaka Eiichi Fukui, autore di manga per bambini come Batto-kun, Igaguri-kun e Akado Suzunosuke; sempre più sfinito dalla mole di lavoro a cui era sottoposto, finì per crollare e il 26 giugno 1954 si spense all'età di 33 anni.

Il primo caso registrato ufficialmente risale invece al 1969: un ragazzo occupato nel reparto spedizioni del principale quotidiano giapponese morì di ictus, fatto un po’ insolito per un 29enne.
Quasi un decennio più tardi, nel 1978, si è avuta la prima definizione ufficiale di karoshi e nel 1982 l'uscita del libro intitolato "Karoshi" scritto da Tajiri Seiichiro, Hosokawa e Uehata ha fatto sì che il grande pubblico ne venisse a conoscenza, ma è stato solo con lo scoppio della bolla economica alla fine degli anni 80 (che mise in ginocchio il Giappone) che si è presa coscienza della vera entità del problema.
 

Secondo un'indagine compiuta nel 1988 infatti, quasi un quarto dei dipendenti di sesso maschile (7,8 milioni) aveva lavorato più di 60 ore alla settimana, quasi 2,4 volte in più rispetto al 1975. Una tipica settimana di lavoro era composta da 70-90 ore. Tutto questo per dimostrare la propria fedeltà all'azienda, tratto tipico della cultura giapponese, per cui si vive per il proprio padrone o superiore.
Da allora, il numero delle morti per troppo lavoro è sempre aumentato, con circa 9.000 morti all'anno.
Molto spesso inoltre il lavoro straordinario è detto furoshiki, (che letteralmente vuol dire nascoste nel fagottino della spesa), perché i dipendenti lo fanno a casa dove, con il tacito consenso dei manager, continuano ciò che non sono riusciti a terminare in ufficio o in fabbrica. In ogni caso, comunque e ovunque siano fatte, a nessuno salta in mente di esigerne il pagamento, perché non sono altro che il pegno da pagare per dimostrare la propria lealtà verso la ditta.
Il 90% dei lavoratori ha dichiarato che non avrebbe problemi ad annullare eventuali impegni privati se il capo chiedesse loro di fare gli straordinari, non capendo la necessità di cercare un equilibrio tra vita privata e lavoro.

Oppure capendolo bene, ma rinunciandovi perché il rischio di essere licenziati è molto alto e la decisione spesso inoppugnabile, in quanto la Corte Suprema è quasi sempre dalla parte delle ditte. Molto noto è infatti il caso in cui i giudici hanno rifiutato la richiesta di un'organizzazione sindacale di rendere pubblici i nomi delle ditte in cui si verificavano decessi sul lavoro classificabili come karoshi, perché così "si sarebbe danneggiata la reputazione dell'azienda".
 

Oppure quello in cui la Corte ha dato ragione alla Hitachi per aver licenziato un dipendente che aveva rifiutato, a 15 minuti dal termine del suo lungo turno giornaliero, di fare cinque ore di straordinario, causa impegni improrogabili presi in precedenza. Peccato poi che lo stesso lavoratore, il giorno seguente, si fosse presentato spontaneamente al lavoro all'alba per completare oltre al proprio lavoro ordinario anche quello straordinario che gli era stato chiesto il giorno prima. Ciò non è stato sufficiente: la ditta ha disapprovato il suo comportamento e siccome il lavoratore si rifiutava di ammettere di aver agito scorrettamente, è stato licenziato e la Corte Suprema non ha trovato appunto nulla da ridire.

Stando alla definizione del Ministero della salute, del lavoro e del welfare possono essere classificate come karoshi le morti improvvise di dipendenti che hanno lavorato una media di 65 o più ore a settimana per oltre quattro settimane consecutive (senza giorni di riposo) o una media di 60 ore settimanali per più di 8 settimane consecutive.
Il problema è che questa già allarmante definizione è ampiamente sorpassata dalla realtà certificata dall'organizzazione sindacale mondiale Labor Force Survey che ritiene che una settimana tipica di un lavoratore giapponese, sia esso operaio o quadro dirigente, va normalmente da 70 a 90 ore.
 

Senza contare che sia le autorità governative che le aziende cercano di limitare il più possibile la classificazione di karoshi per le morti improvvise dei loro lavoratori, anche quando è evidente il contrario come nel caso della morte per infarto di un camionista che aveva guidato per sette anni per circa 6.000 ore all'anno (circa 17 ore al giorno) senza mai un giorno di riposo.

Verrebbe da chiedersi perché e come si finisca per annientarsi per l'azienda.
Secondo uno studio condotto congiuntamente dal prof. Katsuo Nishiyama (docente di medicina preventiva dell'università giapponese di Otsu) e dal prof. Jeffrey Johnson (docente di scienze comportamentali dell'università americana Johns Hopkins), le grandi industrie giapponesi sono riuscite ad inculcare nei lavoratori il concetto che dipendenti e padroni condividono lo stesso destino, grazie a molte attività formali e informali, erodendo così ogni potere dei sindacati che sono diventati solo strumenti di controllo dei lavoratori.
 

C'è poi il nuovo fenomeno degli interinali che costituiscono circa un terzo della forza lavoro giapponese: essere interinali significa meno paga e quasi nessun diritto, anche dopo anni di lavoro nella stessa azienda. L'impiego fisso è ormai una reliquia del passato e un miraggio. Se qualcuno sta all’interno di un'azienda per più di cinque anni si suppone sia destinato a un posto fisso, ma nella realtà, raggiunto quel traguardo, il dipendente è licenziato.
Ci sono ditte, conosciute con il nome di "Aziende Nere", particolarmente inclini allo sfruttamento: per paura di essere sostituiti da un momento all'altro, i lavoratori assecondano i loro superiori in tutto, facendo straordinari folli non retribuiti e arrivando a contraffare l’ammontare di ore di lavoro registrate per tenere l’azienda fuori dai guai.
Senza contare alcune regole non scritte tradizionali per cui, in molti casi, lasciare l'ufficio prima di una persona più anziana è ancora considerato scortese o sconveniente.

Si entra così in un circolo vizioso: il lavoratore vive di solito in periferia, il tragitto per andare in ufficio è lungo, si sposta su un treno affollato e arriva in ufficio già stanco perché è stato in piedi per tutto il viaggio. Poi lavora sino alle 23:00 o a mezzanotte, torna a casa con lo stesso treno affollato e non può stare sveglio per rilassarsi con la famiglia o gli amici perché il giorno dopo deve lavorare. Sopporta perciò una continua privazione del sonno e va avanti per forza di inerzia.
 

Ma qualcosa inizia a muoversi: l'aumento dell'importanza che i media stanno dando al fenomeno e le prime battaglie sindacali vinte dalle famiglie delle vittime dei karoshi hanno fatto sì che le grandi corporazioni e il governo prendessero le prime timide iniziative.
Ad esempio il colosso bancario Mitsubishi permette ai lavoratori di andarsene a casa massimo tre ore prima della fine del turno per prendersi cura dei figli piccoli o dei genitori anziani: il problema è che solo 34 dei 7.000 dipendenti dell'istituto hanno deciso di sfruttare questa possibilità.

Circa un anno fa è stata poi varata una legge che obbliga il governo a prendere misure per eliminare le morti o i suicidi per troppo lavoro, facendo ricerche sulla realtà dei rischi per la salute e riferendo i risultati ogni anno alla Dieta (il principale organo di governo giapponese). Inoltre questa legge prevede che siano attuati programmi pubblici di chiarimento circa i rischi da superlavoro, istituiti sistemi di consulenza e che sia fornito il giusto sostegno alle organizzazioni non governative che si occupano della questione.
 

È invece di questa primavera il disegno di legge approvato dal Primo Ministro Shinzo Abe che prevede di esentare i colletti bianchi che guadagnano più di 10.750.000 yen all'anno (circa 80.000 euro), come ad esempio i rivenditori e i consulenti finanziari, dall'avere un limite di ore lavorative. In questo modo, affermano i sostenitori della riforma, verrebbero premiati i lavoratori più produttivi non in termini di ore ma di obbiettivi raggiunti, non importa in quanto tempo, rendendo più flessibile l'orario di lavoro. Inoltre sarebbe lasciata ad ogni singolo impiegato la possibilità di scegliere se usufruire o meno della cosa, in accordo con l'azienda.

I detrattori invece dichiarano che è tutto fumo negli occhi: per i dipendenti potrebbe essere difficile rifiutare l'offerta di passare al nuovo modello e alla fine sarebbero costretti a lavorare più a lungo senza pagamento degli straordinari. Secondo Koji Morioka, professore emerito di economia presso la Kwansei Gakuin University e autore di "The Age of Overwork" (L'era del lavoro eccessivo), questo potrebbe aumentare il numero di decessi legati al superlavoro, invece di diminuirli.
 

Per fare un confronto con le altre realtà lavorative, secondo l'Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo, mentre circa il 22,3% dei dipendenti giapponesi lavora 50 ore o più alla settimana in media, in Gran Bretagna sono il 12,7%, negli Stati Uniti l'11,3%, in Germania il 5,3%, in Finlandia il 4,5%, in Svezia l'1,9%, nei Paesi Bassi l'1,4% e in Francia l'8,2%. Se aggiungiamo il fatto che molte ore di straordinario giapponesi non sono registrate e quindi non sono prese in considerazione dalle statistiche, avremo un quadro decisamente allarmante.

Inoltre in Giappone nel 2013 il 16 per cento dei lavoratori a tempo pieno non ha preso ferie pagate, mentre gli altri hanno preso solo la metà delle vacanze che gli sarebbero spettate. Nello stesso anno il conteggio ufficiale era di 196 decessi (infarti e ictus sono le patologie più comuni) e/o suicidi legati alle eccessive ore di lavoro, ma in molti sostengono che questa sia solo la punta dell'iceberg.
Infatti molte famiglie accettano la morte di un loro caro con il silenzio e non portano avanti ulteriormente la questione; la maggior parte delle aziende poi non ammette la responsabilità per la morte.
Avvocati e studiosi stimano perciò il numero annuo di vittime per karoshi intorno ai 9.000 decessi, molto vicino al numero annuale di morti per incidenti stradali.
 

Emblematica la storia di Yuji Uendan, 23 anni, che nel marzo del 1999, in preda a una forte depressione causata dall'eccesso di lavoro, si è tolto la vita. È stato trovato nel suo appartamento di Kumagaya, alla periferia di Tokyo: su una lavagnetta bianca che usava per appuntare l'elenco degli appuntamenti giornalieri aveva scritto "Tutto il tempo che ho passato è stato sprecato".
Uendan aveva lavorato per quasi 16 mesi nella fabbrica della Nikon a Kumagaya, come ispettore di apparecchiature per la produzione di semiconduttori, in una stanza asettica illuminata da una luce giallastra, con indosso una divisa bianca sterile.

Era stato assunto dalla Nextar per incarichi a termine alla Nikon, una delle principali produttrici giapponesi di macchine fotografiche. Faceva turni di giorno e di notte di 11 ore a rotazione, con straordinari e viaggi extra che gli facevano raggiungere le 250 ore al mese. Nell'ultimo periodo prima di morire era arrivato a 15 ore consecutive senza un giorno libero; lamentava mal di stomaco, insonnia, intorpidimento delle estremità ed era dimagrito in pochi mesi di ben 13 chili.
 

La madre di Yuji, Noriko Uendan, 59 anni, ha deciso di dare battaglia e nel marzo del 2005, il tribunale distrettuale di Tokyo ha dichiarato che sia la Nextar sia la Nikon erano da ritenersi responsabili per la morte di Uendan e ha ordinato a entrambe le aziende il risarcimento dei danni. Hiroshi Kawahito, segretario generale del Consiglio di difesa nazionale per le vittime di karoshi e avvocato della Uendan, ha dichiarato che è stata una vittoria senza precedenti, in quanto per la prima volta sia l'azienda che forniva personale temporaneo, che quella che lo riceveva, sono state condannate per negligenza.

La causa non è ancora conclusa: entrambe le aziende sono ricorse in appello, ma la madre della vittima non intende darsi per vinta. "Ho giurato su mio figlio mentre era in coma che non mi sarei mai arresa" ha detto Noriko "e spero davvero che in futuro le aziende giapponesi lascino avere vite dignitose ai propri dipendenti, tanto da arrivare a morire di vecchiaia".

Ma di storie simili ce ne sono tante e si spera che a furia di raccontarle serviranno a salvare e a migliorare le vite di moltissimi altri.

Fonti consultate:
Japantimes 1
Japantimes 2
Tofugu
Infoaut
Dagospia
Repubblica