Come vi raccontavo qui, da qualche mese svolgo un lavoretto part time come assistente di un maestro di karate, quindi ogni settimana ho a che fare con un gruppo di bambini giapponesi di età compresa tra i quattro e gli otto anni che mi usano come punching ball umano.
Stando a contatto con questi piccoli karateka settimana dopo settimana, mi è venuto da riflettere su una cosa.
Quando io ero ragazzino, dire Giappone equivaleva a dire arti marziali. Che fosse karate, judo o arti segrete custodite da scuole inventate di sana pianta, non c’era anime, manga, film o videogioco che non ne parlasse.
Sugli schermi televisivi la sacra scuola di Hokuto coi suoi punti di pressione e quella di Nanto con i suoi millemila personaggi; gli studenti della Otoko Juku capaci di trasformare in arti marziali e tecniche mortali qualsiasi cosa; la carinissima judoka Yawara; il dojo della famiglia Tendo; i tornei Tenkaichi; il re della giungla Tar-chan e i suoi viaggi a suon di botte intorno al mondo. Al cinema il maestro Miyagi e le sue auto a cui dare e togliere la cera e una sterminata produzione di film a tema prodotti sia in Oriente che in Occidente. E poi loro, i picchiaduro da sala giochi, che nel corso di un bellissimo decennio ci hanno trasportato in strade malfamate, templi buddisti, colossei, giungle, castelli, fabbriche, autostrade, metropoli, isole, ring, ponti sospesi e in qualsiasi altro posto dove due uomini potessero incrociare i pugni, facendoci incontrare karateka girovaghi, teppisti punk, wrestler giganteschi, vecchi saggi, lottatori di sumo, di muay thay, combattenti orientali tanto belle quanto letali, scienziati pazzi, boss mafiosi, santoni indiani e un’infinità di avversari che poi, in un modo o nell’altro, sono finiti per diventare nostri amici.
 

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I più famosi giochi di lotta dell’epoca hanno poi avuto nel corso degli anni anche varie trasposizioni in film con attori in carne ed ossa o sotto forma di cartoni animati. Chi ha vissuto gli anni ’90 ricorda ancora benissimo serie come Street Fighter II V e Virtua Fighter, tratte da popolari giochi di lotta di cui sono riuscite a restituire perfettamente il fascino. La bellissima sigla “Tra cielo e terra” dei Dhamm, prestata a Street Fighter II V, è ancora oggi ricordata per il suo ritmo accattivante e il testo graffiante, applicati ad un cartone animato che, una volta tanto, avvertivamo come una cosa “da grandi”: personaggi adulti che si pestavano a sangue, narcotrafficanti, dittatori che agivano nell’ombra e rapivano la gente per farle il lavaggio del cervello…
Chi, all’epoca, non voleva essere un personaggio di Street Fighter? Ce n’erano per tutti i gusti, per tutte le nazionalità e per tutti gli stili di lotta che era possibile immaginare. I personaggi dei giochi (e, conseguentemente, degli anime) di lotta avevano sempre il potere di trasportarti in un mondo duro ma affascinante; di farti compiere con la fantasia viaggi che ti sarebbero costati una fortuna in aerei, treni, navi e alberghi; di farti diventare un eroe straordinario, dal corpo forte e dallo spirito inflessibile, che non si arrendeva mai e che, con un allenamento duro ma gratificante, riusciva a fare cose incredibili.

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Non si può, naturalmente, far morire la gente dopo tre secondi solo toccandola e, per quanto ci si possa sforzare, unendo le mani, non uscirà da esse nessuna onda d’energia. Eppure, una piccola parte di noi ancora crede che le arti marziali siano capaci di compiere questi ed altri prodigi, con un duro allenamento che impegna il corpo ma anche lo spirito. E’ questo quello che gli anime di arti marziali ci hanno sempre insegnato, e, anche se poi non si diventa capaci di fare la Kamehameha, è un insegnamento che funziona.
Nei cartoni animati, nei videogiochi, nei film, l’arte marziale è sempre stata vista come un mezzo per crescere, sia nel corpo che nello spirito. Confrontarsi con avversari che hanno una visione della lotta, del mondo, della vita, totalmente diversa dalla propria, ha sempre aiutato i lottatori a crescere, ad imparare nuove mosse, a perfezionare le proprie tecniche, ma anche a conoscere meglio aspetti del mondo sino a quel momento sconosciuti e finire per comprendere un po’ meglio anche se stessi.
Una morale che va oltre i “personaggi adulti che si pestano a sangue” e che si tinge di una poesia, di una saggezza che solo dall’Oriente potevano arrivare, facendo sì che, partendo dal tema delle arti marziali, il cinema e la narrativa a cartoni animati ci regalassero alcuni dei racconti di formazione più belli e significativi della nostra giovinezza. Come dimenticare il viaggio, intorno al mondo e all’interno del proprio io, del giovane Akira Yuuki, protagonista di Virtua Fighter, che, montatosi la testa dopo una serie di vittorie, ha perso di vista le leggendarie “otto stelle” che rappresentano l’anima e il significato più intimo delle arti marziali. “Le arti marziali si basano sul principio che nessuno deve restare ferito”, ci diceva Akira in ogni puntata, ad ogni tappa di una lunga e complessa battaglia contro chi usa le arti marziali solo per fare del male, dimenticandosi di confrontarsi, di mettersi in discussione, del motivo per cui le arti marziali ci piacciono così tanto.
Ci piacevano, i protagonisti delle storie di arti marziali, perché erano forti, perché facevano mosse incredibili, ma avevano sempre una percezione abbastanza chiara di come e contro chi usarle.
La loro forza non era quella del bulletto che mena i poveri malcapitati a scuola o del teppista che fa soprusi ai deboli per la strada, ma quella di chi ha trovato il proprio equilibrio, di chi ama il mondo in cui vive, ama gli uomini che lo popolano e riesce a trovare con loro un punto di contatto attraverso il combattimento.
L’eroe di questo tipo di produzioni è il tipico eroe dei cartoni giapponesi: forte ma mai cattivo, cerca sempre il buono anche nel cuore dei propri avversari, riuscendo spesso e volentieri a convertirli e a portarli dalla sua parte; si impegna anima e corpo in un allenamento durissimo ma che in qualche modo gli risulta anche piacevole e gratificante, e, alla fine di tutto, attraverso le arti marziali, diventa una persona migliore.

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Nel suo Katsu, manga che tratta il tema del pugilato, il mangaka Mitsuru Adachi ci dice che incrociare i pugni è il primo e più antico istinto degli uomini. Non ci stupisce, quindi, che, attraverso le arti marziali o il combattimento corpo a corpo, ci siano arrivate tantissime belle storie, che, in un modo o nell’altro, ci hanno influenzato. C’è chi si è messo a fare arti marziali davvero sin da bambino, col sogno di un karategi bianco e una cintura nera, e c’è chi, come il sottoscritto, al karateka Ryu ha sempre preferito il wrestler Zangief ma ora indossa una volta a settimana un karategi bianco, una cintura viola e si fa prendere a calci da un bambino di otto anni che fa karate da quando ne aveva tre e un discreto male al tuo corpo trentenne lo fa.
Il sogno delle arti marziali ci ha accompagnato sin da bambini, in un modo o nell’altro, attraverso tantissimi anime, manga e videogiochi che hanno acceso le nostre fantasie, aiutandoci a diventare le persone che siamo oggi, anche se magari le nostre otto stelle le abbiamo perse di vista ma, in realtà, le cerchiamo ancora, ogni volta che alziamo gli occhi al cielo.

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Ad un certo punto, però, qualcosa è cambiato, e gli eroi dei cartoni animati giapponesi hanno smesso di fare arti marziali. Certo, continuano ancora a fare a botte, ma adesso usano spade o lance magiche, mirabolanti tecniche d’energia, straordinarie trasformazioni o evocazioni di mostri tramite oggetti di vario tipo, diventando personaggi sempre più fantasiosi, lontani dal karateka con l’uniforme bianca e la fascia rossa che rappresentava i nostri sogni e che aveva come armi soltanto i suoi pugni e il suo cuore.
Ci sono delle eccezioni, certo. C’è Kenichi, che si è concluso recentemente e che conserva ancora tutto lo spirito delle nostre care, vecchie, storie di formazione attraverso le arti marziali. E poi c’è ancora qualche seguito di vecchie serie del genere, come Otoko Juku o Baki the Grappler. Ma sono pochissime, sia rispetto a quegli anni ’90 in cui se non avevi un kimono e/o una fascia non eri nessuno, sia in confronto alla moltitudine degli eroi che il mondo di manga e anime continua a regalarci e che, invece, utilizzano trasformazioni o armi magiche.
Anche la situazione dei videogiochi è cambiata: i duecentomila picchiaduro all’anno che uscivano decenni fa si sono ridotti a una piccolissima manciata, gli ultimissimi capitoli dei grandi franchise come Street Fighter e Tekken sono orientati quasi esclusivamente verso le lotte online, praticamente non sono usciti in sala giochi e non sono stati sfruttati o pubblicizzati poi così tanto (cara Capcom, qualche gadget della tua serie più famosa ai tuoi stand del Tokyo Game Show ce li puoi anche mettere, insieme a quelli di Monster Hunter), mentre nei pochi nuovi picchiaduro che escono di tanto in tanto è tutto un proliferare di creature fantastiche, di fighetti scheletrici che sparano Fulmini di Pegasus alla velocità della luce, di donnine più o meno (s)vestite che dovrebbero stare su una rivista d’altro tipo piuttosto che su un ring, di attacchi velocissimi e spettacolari che tirano giù il mondo mille volte di seguito.

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Sembra, dunque, che oggi, le arti marziali siano lo scintillio nostalgico negli occhi dei bambini di ieri piuttosto che il sogno dei bambini di oggi. Certo, la situazione reale è un po’ diversa: i corsi, i tornei, gli eventi continuano a tenersi qua e là per il Giappone; esistono diversi negozi a tema e le mie piccole pesti stanno a testimoniare che un po’ di interesse, da parte dei giovani, ancora c’è, anche se, secondo alcuni dati che mi sono passati tra le mani recentemente, le arti marziali occupano, nella classifica dei corsi che i bambini vorrebbero fare e che i genitori vorrebbero far fare ai loro figli, un posto più basso rispetto al calcio, al baseball o al ballo.
Il motivo per cui, quindi, le arti marziali siano gradualmente sparite da anime e manga mi risulta abbastanza oscuro.
Forse perché la storia di Daniel-san e del maestro Miyagi l’abbiamo sentita così tante volte che non la si può riproporre ancora senza risultare banali?
Forse perché a un certo punto a Son Goku è cresciuto un casco di banane in testa e da allora tutto è cambiato nella gestione dei manga di combattimento?
Forse perché i giovani di oggi si identificano di più in personaggi che ottengono o possono usare un potere esterno piuttosto che in quelli che si allenano duramente per ottenerlo?
Forse perché le nuove generazioni sono cresciute nel benessere e in mezzo a tecnologie avanzatissime e si identificano in tutt’altro tipo di cose?
Fa più effetto un eroe che grida ai quattro venti “IO SALVERO’ I MIEI AMICI!!!!” sguainando una spada trasformabile rispetto ad uno che rivolge i pugni al suo avversario, scoprendo che anche lui, a suo modo, è un amico da salvare?
Fa più effetto (e/o fa vendere più giocattoli) una trasformazione o un’onda energetica rispetto ad una mossa di karate?

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Non conosco la risposta a questa domanda che ultimamente mi è passata per la mente. Certo, da ex bambino che ha speso centinaia di lire in gettoni da sala giochi per giocare a Street Fighter e che in camera ha un peluche di Nobuaki Kakuda (famoso ex lottatore di arti marziali che ha lavorato anche come cantante, attore e doppiatore), un po’ mi dispiace sapere che oggi la situazione è cambiata, che quel tipo di manga, anime e videogiochi che ho tanto amato da ragazzino sta gradualmente scomparendo in favore di altro, soprattutto vedendo che, invece, le arti marziali godono ancora di una certa popolarità presso la società giapponese (forse perché, come mi disse una volta un conoscente con cui chiacchieravo di puroresu, i giapponesi amano vedere gli atleti che fanno queste cose incredibili come valvola di sfogo per lo stress).
Se ripenso per bene al “mio” Giappone, a quello che ho imparato ad amare tramite i cartoni animati, i fumetti e i videogiochi sin da bambino e a quello che attualmente sto vivendo giorno dopo giorno, esso è, in modo o nell’altro, inscindibilmente legato alle arti marziali. Certo, è buffo pensare che proprio io, la pigrizia incarnata, quello che da piccolo papà e mamma dovevano trascinare in palestra a calci, adesso mi sia messo un karategi di mia spontanea volontà. Ma sono certo che la ragione (che sia un merito o una colpa lo lascerò decidere ai posteri, quando leggeranno sul mio epitaffio “ucciso da un calcio nei gioielli di famiglia da parte di un bambino giapponese di otto anni”) per cui l’ho fatto è perché in passato ho amato Ryu, ho amato Akira, ho amato l’ideale che quegli atleti rappresentavano e, sotto sotto, spero anch’io di diventare un uomo nel cui cuore risplende “un arcobaleno che è un ponte che lo unisce a tutte le persone che ha conosciuto”.

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Perle di saggezza a due dimensioni da un passato lontano, che però in un modo o nell’altro hanno finito per influenzare quello che poi sono diventato, e che potrebbero influenzare ancora tanti altri bambini, che invece, oggi, vogliono diventare calciatori, videogiocatori, allenatori di Pokemon.
Forse i ragazzini di oggi, i cui eroi possono trasformarsi ottenendo capelli sempre più lunghi (beati loro!), possono usare spade enormi con mille poteri diversi, possono evocare dragoni giganti da carte o trottole, potrebbero non capire il fascino di questi eroi più spartani ma non meno esaltanti, che ottengono la loro forza perché meditano sotto una cascata di acqua gelida, perché danno pugni all’aria per ore, perché comprendono i propri avversari (e anche se stessi) incrociando con loro i pugni.
Eppure, penso che possano avere ancora molto da insegnargli. Si pensi anche solo all’abusatissimo escamotage del torneo, che riunisce persone da ogni parte del mondo, ognuna con una sua storia alle spalle, una sua cultura, un suo stile di lotta. Era, per il protagonista delle storie di arti marziali, un’occasione per vedere il mondo, per confrontarsi con altre culture, per crescere, e non è cosa da poco, per una società come quella giapponese che è ancora parecchio chiusa in se stessa.
Cambia la società, cambiano gli interessi, cambiano le tematiche, cambiano le storie e il modo di raccontarle. Ma,、in fondo, le nostre otto stelle sono ancora lassù, da qualche parte, in attesa del giorno in cui troveremo il nostro equilibrio e riusciremo nuovamente a vederle…