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“Il mio vicino Totoro” è tra i film più amati di Miyazaki: in Giappone il personaggio di Totoro è cosi celebre, da essere equiparabile alla figura di Topolino per importanza e popolarità, e i bambini giapponesi accolsero Totoro con un entusiasmo tale, da far guadagnare al procione in men che non si di dica l’agognato ruolo di mascotte dello Studio Ghibli.

Due sorelle, Satsuki di undici anni e Mei di quattro, si trasferiscono col padre in un paesino di campagna per avvicinarsi alla madre ricoverata in ospedale. La nuova casa sembra infestata da fantasmi e, quando la sorellina più piccola, seguendo le tracce di alcune ghiande si intrufola in una tana ai piedi di un albero di canfora, viene a conoscenza dello spirito della foresta: Totoro, un buffo e pigro essere a metà tra un orso e un procione. Da qui per Mei e Satsuki inizia la scoperta di un mondo magico, popolato da creature bizzarre e stravaganti.

La storia è molto semplice, “Il mio vicino Totoro” è uno slice of life atipico per la fetta di utenza che cattura, l’opera infatti vuole rivolgersi perlopiù a un pubblico di bambini. Ma come tutti i lavori targati Studio Ghibli ha il suo importante substrato interpretativo. Infatti la pellicola è una metafora sulla fantasia radicata nella fanciullezza, sulla puerile e ingenua spensieratezza infantile; il disincanto dell’età adulta è evidenziato dal fatto che gli spiriti della foresta siano visibili soltanto alle bambine. Indimenticabile la scena in cui Totoro attende il Nekobus (un eccentrico gatto-autobus gigante) sotto la pioggia, scoprendo una piacevole sensazione nel sentire l’acqua cadere sull’ombrello datogli da Satsuki, a tal punto da spingerlo a saltare e sbattere i piedi a terra per far scendere tutte le gocce depositate sulle chiome degli alberi. Ad evidenziarci che la bellezza risiede nelle piccole cose.

I personaggi sono pochi e dalla caratterizzazione psicologica non troppo profonda, riuscendo però tutti nella loro funzionalità: Mei e Satsuki sono due bambine iperattive dotate di una spiccata fantasia; loro padre insegna archeologia, è un uomo buono affascinato dai misteri e dal paranormale; abbiamo poi Nonnina, l’anziana vicina di casa, e suo nipote Kanta, un bambino coetaneo di Satsuki molto timido e curioso; se a loro aggiungiamo gli spiriti della foresta, otteniamo un cast ben assortito in grado di coesistere in modo genuinamente armonioso. Anche se complessivamente la mancanza di un antagonista alla Miyazaki si fa sentire, l’opera procede in modo dolce e melodioso proprio come desiderava l’autore, dall’inizio alla fine.

Tecnicamente il lavoro svolto dallo Studio Ghibli è encomiabile, l’affresco di un Giappone rurale fatto di risaie, foreste e immense distese verdi, con un velo di mistero e un pizzico di misticismo a creare un’atmosfera fantastica e affascinante. Memorabile il chara degli spiriti della foresta, che nella sua semplicità ammalia e cattura lo spettatore. Quanto è amabile il pancione di Totoro?
Meraviglioso anche il comparto sonoro, composto sia da temi nostalgici e toccanti che da motivi frizzanti e allegri. Su tutti spicca la sigla d’apertura, tradotta e cantata persino in italiano, riutilizzata anche nell’ending.

La madre di Miyazaki trascorse diverso tempo in ospedale quando era bambino, per il sensei “Il mio vicino Totoro” è un prodotto estremamente personale. Un passo fondamentale per la sua crescita artistica, senza il quale non sarebbero poi nati capolavori come “Princess Mononoke” o “La città incantata”. Una pellicola che insegna quanto il mondo possa essere meraviglioso, se lo si guarda dalla giusta prospettiva.

Voto: 8