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8.5/10
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«Che bravo il sole, si presenta sempre tutte le mattine.»
«È perché la Terra gira.»

C’è tutto Sunny in questo breve scambio: la tenerezza disarmante dell’infanzia, la capacità di trovare poesia nel quotidiano, e quel bisogno struggente di certezze, anche quando tutto intorno sembra instabile. Nel microcosmo dell’orfanotrofio Hoshinoko, il sole che torna ogni mattina è forse l’unica promessa mantenuta.

Nel giardino dell’orfanotrofio c’è una macchina rotta e abbandonata, trasformata dai bambini nella loro base segreta. Al suo interno — ribattezzata Sunny, e rigorosamente vietata agli adulti — hanno nascosto giocattoli, riviste sconce e sogni. È una bolla fuori dal tempo, un rifugio dove isolarsi dal mondo e viaggiare con la fantasia: verso la luna, lungo un circuito di Formula Uno, o più semplicemente… verso casa, dai propri genitori.

«Che fai, Haruo? Guarda che ti bagni.»
«Makio mi ha detto che Tokyo è da quella parte. È per questo che a volte invio là il mio pensiero in questo modo. Comunico a mia madre: “fammi uscire presto da qui” con la forza del pensiero.»
«Ti prendi il raffreddore.»
«Mi piace stare qui a bagnarmi con la pioggia. È da duri.»

La nostalgia di casa, il desiderio di tornare a quella normalità che davi per scontata finché non l’hai persa: è tutta negli occhi di Haruo. Sotto la sua maschera da duro, ogni mattina annusa di nascosto la Nivea, perché quel profumo gli ricorda l’odore della mamma. È un rituale muto, fragile, che lo riconnette a un tempo in cui si sentiva amato e al sicuro.

Il realismo magico di Taiyō Matsumoto trova una dimensione intima e struggente nell’infanzia sospesa dei protagonisti di Sunny, dove la fantasia non è fuga, ma l’unico modo possibile per sopravvivere alla realtà. La poetica del sensei, nonostante la gravità delle tematiche, non scivola mai nel melodrammatico; piuttosto, sceglie la via della sottrazione, dell’accenno, del gesto minimo. È nei silenzi, nei dettagli quotidiani, nei piccoli riti privati che si addensano il dolore e la speranza. Matsumoto racconta le ferite dell’anima con pudore, lasciando che siano i personaggi — e non la narrazione — a reclamare attenzione.

Il tratto del sensei è immediatamente riconoscibile: spigoloso, irregolare, a volte quasi grezzo, ma profondamente espressivo. I suoi disegni rifuggono la perfezione formale tipica del manga contemporaneo per abbracciare un’estetica più personale e vibrante, che richiama talvolta il fumetto europeo o l’illustrazione d’autore. Le tavole non gridano, ma sussurrano: ogni linea sembra trattenere un’emozione. C’è una bellezza imperfetta, vissuta, che accompagna il tono malinconico della storia. Le gote rosse dei bambini, che ricordano i tratti semplici e genuini dell’animazione classica — quasi un’eco di Heidi — rievocano una delicatezza perduta, fatta di pudore e intimità.

Non tutti i bambini di Hoshinoko ricevono lo stesso spazio narrativo: mentre Haruo, Sei o Junsuke sono ben delineati, altri restano più sullo sfondo, con motivazioni solo accennate. Questo può rendere l’insieme meno equilibrato, soprattutto nella seconda parte dell’opera. Anche le frequenti citazioni alla musica pop giapponese degli anni ’70, pur creando atmosfera, rischiano di risultare poco immediate per chi non è familiare a quel contesto.

I “figli di casa” — ovvero i bambini che vivono ancora con le loro famiglie — rappresentano per gli ospiti dell’orfanotrofio Hoshinoko una sorta di altrove irraggiungibile. Visti dall’esterno, sono il simbolo di quella normalità perduta o mai conosciuta: hanno genitori che li accompagnano a scuola, una casa con le tende alle finestre, pranzi cucinati in famiglia, litigi che finiscono con un abbraccio.
I bambini dell’orfanotrofio li guardano con un misto di ammirazione, invidia e distanza. Non li odiano, ma li osservano come si osservano i personaggi di una vita parallela — con quel tipo di malinconia che non ha ancora trovato le parole per esprimersi. In alcuni momenti li imitano: nei giochi, nei gesti, nei sogni a voce bassa. In altri, li rifiutano per non soffrire troppo. Sono uno specchio e, allo stesso tempo, una ferita.

Taiyō Matsumoto restituisce questo sguardo senza retorica, con enorme delicatezza. Sunny è un’opera agrodolce, che mostra il reale omaggiando la fantasia, riuscendo a parlare dei bambini come se fossero i bambini stessi a farlo.