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esseci

Episodi visti: 1/1 --- Voto 7,5
"Non sono solo le parole che uccidono, anche il silenzio sa fare male" (Dente - Adieu - 2019).

"Kokoro ga Sakebitagatterun da" (noto in breve come "Kokosate") è un film di animazione del 2015 di oltre due ore, diretto da Tatsuyuki Nagai, sceneggiato da Mari Okada, con il chara design di Masayoshi Tanaka, prodotto da A-1 Pictures, con musiche di Mito, Masaru Yokoyama. È più o meno lo stesso staff che ha prodotto serie come "Toradora!" e "Ano Hana".

Qualche parola va spesa per Mari Okada, in quanto non solo dal film sono stati tratti anche un manga e un live action, ma soprattutto perché è la sceneggiatrice di "Ano Hana". Mari Okada è nata a Chichibu nel 1976 e le sue opere più significative sono ambientate in quei luoghi ("Ano Hana" e il film in recensione). È una sceneggiatrice, regista e fumettista, ed è salita alla ribalta grazie ad "Ano Hana", con il quale ha vinto nel 2011 l’Animation Kobe Award nella categoria individuale per la sceneggiatura. Dal 2018 si cimenta nel ruolo di regista con il film animato "Maquia".

Credo che in "Kokosate" ci siano un po' delle difficoltà vissute in gioventù da parte di Mari Okada (vittima di bullismo al punto di isolarsi dal mondo, simil hikikomori; solo grazie al grande talento dimostrato nel disegnare è riuscita a emergere, diventando un punto di riferimento nel settore) e il titolo internazionale dell'opera - "The Anthem of the Heart", traduzione letterale dal giapponese "Il cuore vuole gridare" - è paradigmatico del significato della sofferenza raccontata nel lungometraggio.

Nel film, la protagonista Jun Naruse afferma che "Le parole possono fare male. Una volta dette, anche se te ne penti, non puoi più rimangiartele." In questa frase è riassunto il senso del film, del dolore silenzioso patito per anni essendosi convinta che, a causa di quanto detto alla madre, sia stata la causa della separazione dei suoi genitori, e pertanto della conseguente infelicità patita a causa del profondo senso di colpa che i genitori (in parte), ma anche soprattutto lei stessa, si sono auto-inflitti, al punto di diventare una ragazza incapace di esprimersi verbalmente con chiunque.

Se la metafora della incapacità di profferire parola sia prima facie inquadrabile come una sorta di punizione da parte di una entità che si manifesta sotto forma di uovo, il blocco a comunicare sembra invece nascondere tra le righe un significato più profondo (e molto più spaventoso e tremendo) che trae origine dalla incomunicabilità, da intendersi non tanto come impossibilità ad esprimersi per iscritto o verbalmente o a gesti, quanto nella mancanza di intuizione da parte di chi ascolta del vero senso o significato delle parole, gesti, comportamenti, atteggiamenti di chi li esprime e, parimenti in senso opposto, lo stesso problema insiste in coloro che affermano determinate parole senza tenere in debito conto di come possano essere interpretate da chi le ascolta...

Poiché proprio perché chi si esprime spesso non intuisce le possibili interpretazioni che possono scaturire nel proprio interlocutore da ciò che sta affermando, una volta causato un danno, una incomprensione, un equivoco, un'offesa, ecc. nasce il blocco, la paura, il voler sottrarsi al confronto, all'ascolto, all'aprirsi all'altro fino all'isolamento, che nelle forme più estreme sfociano nel non voler aver più contatti e interazioni con gli altri.

Ecco che, avendo letto una sommaria biografia di Mari Okada, nella protagonista Jun si possa mutatis mutandis vedere un po' (tanto) della sceneggiatrice...

Ma il film non si limita ad affrontare il dramma di Jun Naruse. La protagonista ha un suo alter ego: Takumi Sagami. Un ragazzo e compagno di classe alle superiori che sul non detto è sopravvissuto ai suoi dolori e alle sue insicurezze della vita, ignaro della simpatia e affettazione che nutre per lui l'altra ragazza co-protagonista del film, Natsuki Nito. Il buon Takumi si nasconde dietro il "non detto", o meglio l'omissione nel prendere decisioni e affermare ciò che prova e pensa, per non esporsi, mettersi in gioco e rischiare il fallimento, la vergogna e il rifiuto, sebbene sia consapevole di ciò che accade intorno a lui e percepisca gli interessi e le simpatie delle persone che cercano di interagire con lui...

In fondo, nel film il vero deus ex machina che passa molto in sordina è il professore, che "costringe" quattro compagni di classe, Jun, Takumi, Natuski (già citati) e Daiki Tasaki, ciascuno con i suoi problemi e criticità, a interagire forzosamente per organizzare l'evento che caratterizzerà il festival culturale scolastico. La missione, sebbene un po' (tanto) romanzata in modo melodrammatico, si rivelerà un successo, ma dal punto di vista sentimentale questo film potrà lasciare delusi i fan del lieto fine. Non eccedo nello spoiler, ma posso solo anticipare che il finale resta "aperto", e in ogni caso non nel probabile senso che ci si può attendere dopo l'evoluzione della trama.

Il ruolo del professore è fondamentale, perché riesce a far interagire quattro ragazzi che altrimenti sarebbero rimasti a loro modo chiusi o isolati nel loro modo di pensare e di vedere gli altri, restando ancorati ai soliti pregiudizi e maschere che adottano nella loro vita sociale, per difendersi dall'ipocrisia e dal formalismo al limite del manierismo tipico dell'ambiente sociale in cui sono inseriti. E l'immagine del professore stride maggiormente se paragonato, ad esempio, ai genitori (separati) di Jun Naruse (in particolare la madre, che non capisce le motivazioni dell'improvviso mutismo di sua figlia)... insomma: il solito tema dei genitori assenti, insensibili, perennemente indaffarati da mane a sera a lavorare per sbarcare il lunario, lasciando i propri pargoli affidati in principal modo al sistema scolastico, che cerca di occuparli il più possibile per colmare il vuoto e la solitudine che altrimenti troverebbero nella propria casa.

L'aspetto sentimentale, sebbene presente nel film, è solo un corollario del leit motiv che il film sembra voglia trasmettere: superare i pregiudizi, osservare e comunicare con gli altri in modo aperto, senza filtri e senza indecisioni, senza paura delle conseguenze, e soprattutto valutare le situazioni nel modo più oggettivo possibile e affrontarle, senza nascondersi ed evitare ogni possibile contatto con ciò che ci fa soffrire.
Questo aspetto è abbastanza evidente nelle interazioni tra Takumi e Natsuki, che si conoscono fin dalle medie e che sul non detto e sull'insicurezza di fondo tipica degli adolescenti non sono riusciti a comprendere e a manifestare in modo chiaro e incontrovertibile i propri sentimenti.

Dal punto di vista tecnico, il chara design è abbastanza semplice ma curato, con tratti dolci e abbastanza attento all'espressività dei personaggi. A me è sembrato tuttavia mancante di cura nel disegno degli occhi e degli sguardi. Per quanto riguarda i fondali, mi sono sembrati invece di livello pregevole e a volte incantevoli; anche le animazioni sono fluide e ben realizzate.

Sul comparto musicale, complice il fatto che Takumi sia anche un discreto suonatore di piano e conoscitore di musica classica, le canzoni del musical riprendono le basi di brani famosi, e, complice la scrittura dei testi dell'opera musicale sul dramma vissuto da Jun, il brano finale del musical è piuttosto commovente e molto ben cantato.

Scritto dei "pros", passo ai "cons". Se proprio si volesse cercare il classico "pelo nell'uovo", ho apprezzato poco la parte "fantasy" dell'immaginazione di Jun proprio riguardo l'uovo che impersona la sua coscienza punitiva e i suoi sensi di colpa. Va bene la metafora, ma, a quanto pare, all'Okada come in "Ano Hana" sono gradite le situazioni un po' soprannaturali che danno quel pizzico di imprevedibilità (e illogicità) alla trama, che tutto sommato ci può anche stare. Inoltre, sebbene i personaggi principali possano sembrare dei ragazzi "normali", che si esprimono come tali e non sembrano la trasposizione della loro versione adulta e disillusa, anche in "Kokosake" sembrano restare "prigionieri" del solito cliché della sfortuna, del fato avverso, della sofferenza dovuta a cause esogene (i genitori che si separano, le tragedie interiorizzate all'estremo, ecc.), che portano a una sorta di weltanschauung mesta, disillusa, da anziano, che sarà anche comune in Giappone, ma che mi sembra di riscontrare meno nei giovani reali, sempre tesi a creare con vitalità situazioni in cui cercano di affermare il proprio io.
Quest'ultimo punto è comunque peculiare di tante opere che mi è capitato di visionare, e pertanto non è riscontrabile solo in "Kokosake".

Resta comunque un buon film, che ritengo superiore alla serie "Ano Hana" e che sembra dare comunque un messaggio di speranza con lo sguardo rivolto al futuro piuttosto che al passato come nell'opera citata.

"Ogni parola ha conseguenze. Ogni silenzio anche" (J.P. Sartre), ma probabilmente è sufficiente osservare ciò che ci circonda con oggettività e intuire ciò che gli altri percepiscono delle nostre parole, azioni e omissioni. Tanto facile a scriversi, tanto difficile da realizzare nel lungo cammino della vita...


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VinMur92

Episodi visti: 1/1 --- Voto 7,5
Questo film è stato una piccola sorpresa, che però mi ha lasciato totalmente insoddisfatto nel finale.
Sono ormai anni che si cerca il plot twist per stupire lo spettatore, in alcuni casi è riuscito, ma in altri lascia l'amaro in bocca.

La visione è abbastanza fluida, i pochi personaggi vengono caratterizzati adeguatamente, le musiche sono molto azzeccate e la grafica a volte lascia a desiderare. Chi ha avuto un passato turbolento può immedesimarsi nella protagonista, Jun. E' ciò che è accaduto a me, il problema è che avrei preferito non immedesimarmi, dato che alla fine ho sofferto assieme a lei.

[b[Attenzione: la parte seguente contiene spoiler[/b]

Ho tifato fino alla fine la coppia Jun/Takumi, e capisco che sarebbe stato scontato e banale, ma ho trovato di cattivo gusto la scelta narrativa di lasciare questa coppia. Inoltre ci troviamo come di consueto davanti a un finale aperto, quindi il regista non forma le coppie, ci rende solo partecipi dei sentimenti dei personaggi. A questo punto si può ancora sperare per la coppia sopracitata, ma non è così, dacché ne verrebbe fuori un prodotto alquanto ipocrita. Mi spiace per questa scelta narrativa che ha abbassato notevolmente il mio voto, perché le sensazioni che avrei voluto provare non rispecchiano quelle in cui sono capitato durante la visione del finale di quest'opera.

Comunque lontana dai capolavori quali "Koe no Katachi" e "Your Name.", l'ho trovata godibile ad eccezione degli ultimi minuti, e tutto sommato mi è piaciuta.


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giacgiac

Episodi visti: 1/1 --- Voto 6,5
Ne uccide più la lingua della spada. Basterebbe questa antica massima per descrivere in modo conciso, ma esauriente, più o meno tutto ciò che “Kokoro ga Sakebitagatterunda” decide di giocarsi, risparmiandosi - per certi versi pure giustamente - una disamina più meticolosa e completa del titolo in questione. Sarebbe giusto, perché quanto la coppia affermata Mari Okada e Tatsuyuki Nagai, sceneggiatura e regia rispettivamente, ha proposto negli anni passati viene riproposto, quasi immacolato, anche in questo lungometraggio, senza ingenti variazioni sul tema e con modalità più o meno analoghe. Sarebbe meno giusto nei confronti del tempo speso per visionare l’opera, nonché del senso critico che imprescindibilmente mi porta a cercare di razionalizzare i miei pensieri e metterli in forma scritta.
Per iniziare, quindi, si può partire da questo: la parola. Se fino a pochi anni fa la tematica dell’incomunicabilità è stata trattata dagli autori giapponesi su un piano prevalentemente metaforico, come incomunicabilità dei sentimenti e delle sensazioni, per intenderci, ultimamente più di un autore ha tentato di portare il tutto a un livello più pragmatico, per quanto la componente metafisica del problema permanga salda al nucleo della vicenda. “Kokosake” si piazza qui, decide di giocarsi per l’ennesima volta le solite carte, ma alzando l’asticella e tentando di toccare corde, almeno sulla carta, un po’ al di fuori della propria portata. Come ho già detto altrove, lo sviluppo di tematiche delicate è un’arma a doppio taglio, può riuscire a condurre il messaggio degli autori dritto al cuore dello spettatore, così come, facilmente, può peccare di artificiosità nel voler costruire situazioni troppo al limite e risultare inconsistente. Ahimè, è proprio quest’ultimo il caso di “Kokosake”, un’opera che parte da presupposti un po’ ballerini, riacquista un suo equilibrio e una certa sensatezza nella parte centrale per poi crollare in un finale ai limiti dello stucchevole, in barba a quanto ha costruito fino a pochi minuti prima.

Le parole hanno un loro peso, una volta pronunciate non possono più tornare indietro e si marchiano a fuoco nella mente e nei cuori delle persone, possono addirittura condizionare per una vita intera l'esistenza di un individuo, se pronunciate con la giusta enfasi nel momento sbagliato. Per creare la giusta base su cui sviluppare questa tematica, gli autori si affidano a un padre talmente meschino da incolpare la figlia, appena bambina, del divorzio con la moglie - a seguito di adulterio, per giunta - e una madre visibilmente frustrata e imbarazzata per la reazione della piccola che, dopo l’accaduto, si chiude dentro sé stessa fino a smettere completamente di parlare; ecco le solide fondamenta su cui poggia il senso di perenne inadeguatezza che Jun si porta dentro dalla fanciullezza fino agli anni de liceo. Isolamento e frustrazione diventano la retribuzione di un crimine che ella non sente di aver commesso e che eppure le viene attribuito, portandola a un contrasto interiore tra la sé stessa rinchiusa a forza dentro un guscio impermeabile, incapace di reagire agli stimoli interni e solo di subire gli altri, e la maschera inespressiva che decide di indossare al fine di proteggersi dal mondo. Il fulcro della narrazione è il tentativo di un gruppetto mal assortito di compagni di classe, formatosi per caso, di rompere questo guscio e aiutare Jun a esprimere i suoi sentimenti e vincere la sua condizione, ormai fisica, prima ancora che psicologica.

Se per la prima metà, tralasciando la forzatura dell’espediente iniziale, gli autori riescono a caratterizzare i personaggi in modo credibile e a calarli in un contesto realistico, con l’avanzare dell’intreccio vengono a galla tutti i cliché - possiamo definirli tali, dopo dieci anni di meticoloso riciclo e reimpiego - a cui essi hanno abituato, quali sentimenti contrastanti e situazioni ai limiti del credibile, cambiamenti di umore e di atteggiamento repentini, sequenze love-hate-love struggenti, triangoli amorosi e via dicendo; i protagonisti non sembrano vivere dei drammi adolescenziali propri della loro età, incarnano più i dubbi metafisici della tragedia classica, qualcosa di più grande di loro e che inesorabilmente li schiaccia. È una stonatura che non stanca mai gli autori e che non smette di sorprendere me, speranzoso che avvenga prima o poi un’evoluzione della loro poetica, probabilmente invano.
L’esempio più lampante di queste problematiche interne si manifesta proprio nel finale, che dovrebbe essere una sorta di climax, di esplosione di sentimenti, ma che risulta spento e moscio, con l’eclissarsi della protagonista dalla scena e la caduta del carico della scena tutto sulle spalle dei comprimari. Paradossalmente lo stesso tema del lungometraggio diventa una zavorra di cui è impossibile liberarsi, che impedisce al messaggio di passare in modo immediato e genuino allo spettatore.

A parziale compensazione delle manchevolezze della Okada, il film vanta una poetica dell’immagine e una regia degne di nota, che riescono a trasmettere in modo più efficace della sceneggiatura le insicurezze e gli imbarazzi, la tensione e le gioie dei protagonisti. I fondali molto curati ricreano un ambiente rurale ovattato che si sposa bene con la chiusura e la limitatezza del modo di pensare della società che ha incriminato Jun, raggiungendo il proprio apice nella fusione armonica di questo mondo con quello fantastico della protagonista. E, se le sensazioni arrivano allo spettatore, il merito è della regia di Nagai, particolarmente ispirata nei punti nodali dello sviluppo dei personaggi, che ahimè corrispondono anche ai maggiori fallimenti della sceneggiatura.
Dovendo trarre delle conclusioni, il film riesce nel suo intento di trasmettere un messaggio, per vie traverse e spesso tortuose, ma ci riesce, per cui bocciarlo sarebbe ingiusto, anche a fronte di un comparto tecnico e artistico di ottima qualità. Finché Mari Okada si ostinerà a voler ribadire gli stessi temi, non penso potrà portare nulla di innovativo nella scena dell'animazione giapponese, ma soprattutto nulla di più godibile di quello che abbia già portato, che di per sé non è molto. È un’opera che mira più alla pancia degli spettatori, invece che al loro cuore, vive di situazioni, cerca il pathos nella maniera più disperata, perdendo molto, a causa di ciò, sul piano della coesione dell’intreccio. Non mi sento nemmeno di sconsigliarlo a prescindere, gli estimatori di “Toradora”, ma forse più di “Anohana”, hanno più probabilità di apprezzarlo; se tuttavia quel che cercate è il titolo che vi faccia cambiare idea sugli autori, in quel caso “Kokosake” diventa tranquillamente trascurabile.


 1
v17

Episodi visti: 1/1 --- Voto 8,5
Semplicemente commovente. La trama non è per nulla scontata, la musica deliziosa e soprattutto caratteri ed emozioni dei personaggi emergono in maniera diretta e dirompente. E' un film che fa riflettere su quanto le parole possano infierire sull'nimo altrui e, soprattutto, su come i sentimenti necessitino di essere espressi. La grafica è molto buona, e la narrazione procede tranquillamente, senza mai essere né troppo lenta né troppo accelerata. Non pensavo fosse un'opera così ben fatta e costruita su tutti i piani, perciò consiglio di non fermare la visione all'inizio, nonostante possa dare l'impressione di essere una tipica commedia shoujo. Veramente, con il susseguirsi della vicenda mi sono attaccata a ciascun personaggio e non celo che qualche lacrima mi è scivolata durante alcune scene molto intense da un punto di vista emotivo.
Pertanto, consiglio a chiunque la visione di questo piccolo capolavoro nascosto.


 8
Nox

Episodi visti: 1/1 --- Voto 9
"Le parole possono fare male. Una volta dette, anche se te ne penti, non puoi più rimangiartele."

"Kokoro ga Sakebitagatterunda" è un film anime di circa due ore andato in onda nel settembre del 2015.
Naruse Jun era una bambina chiacchierona e allegra, ma un giorno, a causa del traumatico divorzio dei genitori, smette completamente di parlare. Divenuta liceale, viene selezionata, dal professore di musica, per dirigere la sua classe in un evento di intrattenimento per la comunità locale. Insieme a lei, nel comitato organizzativo, ci sono altri tre compagni di classe: Tasaki Daiki, asso della squadra di baseball che si è infortunato poco prima della finale, Nitou Natsuki, capitano delle cheerleader, e Sakagami Takumi, un ragazzo all'apparenza apatico, ma, in realtà, molto premuroso e con un talento per la musica. E sarà proprio attraverso la musica che Jun inizierà il suo viaggio di guarigione. La classe decide, infatti, di organizzare un musical originale e la storia sarà proprio scritta dalla protagonista, la quale metterà a nudo tutte le sue cicatrici.

Inizierò col dire che questa è una storia dolcissima. Le due ore passano senza neanche accorgersene, lo spettatore viene letteralmente trasportato in questa storia, che alterna parti un po' più "pesanti" ad altre molto più leggere e comiche.

Naruse Jun mi è piaciuta molto. La protagonista è stata semplicemente sfortunata ad avere una famiglia pessima. Se fossi stata la madre, un mezzo problema me lo sarei fatto se mia figlia avesse improvvisamente smesso di parlare, ma questa donna vive nella convinzione che la ragazza le stia facendo un dispetto. Il padre, poi, non lo voglio nemmeno commentare. Jun, convinta che le sue parole siano state la causa della separazione dei genitori, smette completamente di parlare e, ogni volta che prova a proferire verbo, soffre di fortissimi dolori allo stomaco. Grazie all'aiuto di Takumi, però, capisce che può esprimersi tramite il canto. Non preoccupatevi, non c'è nessuna scena alla "High School Musical", si cantano solo le canzoni del musical, le cui parole sono scritte dalla protagonista, mentre Takumi le trasforma in musica. Ho davvero amato la sintonia fra questi due personaggi, senza considerare le scene in cui sono presenti gli altri due membri del comitato organizzativo, con cui Jun pian piano riesce a interagire. E' davvero impossibile non tifare per lei, ci prova davvero con tutte le sue forze a migliorarsi.

Un altro elemento che ho apprezzato è la normalità di questi ragazzi. Nessuno di loro è straordinario ed è veramente facile identificarsi con loro. Quando cantano, per esempio, sono intonati, ma non parte un coro di angeli come coristi. Sono giovani, insicuri, fragili, passionali, i loro cuori si spezzano come quelli di un qualunque adolescente, e i rimpianti provocati dalle loro precedenti azioni possono scomparire, accettando che non si può controllare tutto, ed esprimendo i propri sentimenti senza paura, magari in una canzone.

Non mancano, naturalmente, dei normali cliché. Per esempio, rimango sempre strabiliata da come le ragazze giapponesi sappiano cucire vestiti complicatissimi mentre io non mi so nemmeno rammendare un calzino quando si buca. Scherzi a parte, ci sono triangoli amorosi, gelosie e i soliti fraintendimenti tipici degli anime scolastici.

Dal punto di vista tecnico, sebbene la grafica non sia molto dettagliata, viene supportata da animazioni fluide e un doppiaggio davvero perfetto, senza dimenticare le musiche, piacevoli e coinvolgenti.

Riassumendolo in una frase o meno: "Una storia sul dolore che ci infliggiamo con le nostre stesse mani e sulla guarigione che ci attende se solo decidiamo di affrontare i nostri sentimenti."