Dopo la morte, all'uomo è riservato un duplice destino: se è stato onesto in vita, andrà in paradiso; altrimenti ad aspettarlo ci sarà l'inferno. Tuttavia, alcune persone rappresentano l'eccezione: quando due individui muoiono contemporaneamente, la legge vuole che, prima del trapasso, vengano convocati in un posto fra i due mondi dell'oltretomba, per essere giudicati. Arrivano così al Quindecim, un bar gestito da un inespressivo cameriere e una ragazza dai lunghi capelli corvini, la cui pronuncia dei numerali hitotsu, futastu, mittsu, yottsu e itsutsu mi ha fatto spesso spuntare il sorriso. Invitati a prendere parte ad un gioco, che può andare dal biliardo al bowling, dalle carte alle freccette, i malcapitati sono costretti a mettere in palio la propria vita, di cui non hanno la consapevolezza di aver già persa. Durante il gioco, l'inespressivo barman, nei panni di giudice, emana il verdetto sulla condotta tenuta e decide se far reincarnare l'anima del defunto o spedirla nell'oblio. All'Anime Mirai 2013, progetto nato per formare nuovi animatori, Tachikawa Yuzuru presentò un soggetto originale intitolato Death Billiards, dal quale è stato tratto in seguito un anime di 12 episodi dal nome di Death Parade. Prodotto da Madhouse e trasmesso nella stagione invernale 2015, Death Parade riprende perfettamente il tema del suo predecessore e lo sviluppa appieno. Grazie alla collaborazione fra Dynit e VVVVID, è stato possibile vederlo in simulcast sul portale streaming della startup italiana. Realizzato perfettamente dal punto di vista tecnico, con un accattivante chara design creato ad hoc da Kurita Shin'ichi, Death Parade è una parata di personaggi che esprimo, ognuno a suo modo, varie sfaccettature del tema della morte. Il titolo, infatti, è la sintesi perfetta di ciò che la serie vuole rappresentare. Nel corso della parata, lo spettatore entra in sintonia con l'universo del Quindecim e si immette in un vortice di emozioni e quesiti esistenziali, che rendono la visione piuttosto interattiva.

L'ambientazione di quest'anime a tinte cupe è l'aldilà, nella veste piuttosto particolare del Quindecim. Esso si presenta come una costruzione interessante di per sé, non da intendersi come ciò che viene dopo, ma solo un luogo mediano nel quale sondare la natura della vita e la natura dell'uomo. Il Quindecim è un bar, che richiama alla mente il Radio Club di Paprika, film di fantascienza girato da Kon Satoshi. Questo bar è gestito da Decim, un saiteisha (裁定者), ossia un giudice, e dalla donna dai lunghi capelli corvini, il cui nome verrà tenuto segreto per gran parte della visione. Vi si accede tramite un doppio ascensore:  sormontato da due contrapposte maschere del teatro Nō, esso rappresenta l'entrata ma funge anche da unica uscita. Al bancone, dopo aver sorseggiato un drink, qualcuno chiede di girare la roulette della fortuna e iniziare a giocare. Il fatto che siano dei giochi a tirar fuori la vera essenza che risiede dentro di noi è paradossale, eppure è vero che dinanzi alle due opzioni di vincere o perdere, l'uomo tira fuori il meglio o il peggio di sé.
 

Death Parade suggerisce che dopo la morte ci aspetta una sala giochi, e ciò mi ha divertita ma soprattutto confortata, quando in più occasioni l'atmosfera ansiogena suscitava disagio. Però proviamo a cambiare punto di vista e a guardare la stessa sala giochi da un'ottica più cupa: essa appare sghignazzante, non più amica ma trappola. Death Parade, infatti, è impregnato di dark humour. Un esempio lampante di questo umorismo nero è l'opening, cantata dai BRADIO, che mette in scena una festa nel purgatorio fra le anime dei defunti e i giudici. Ballano, cantano, bevono, se la ridono, forse per dimenticare che tutto sommato siamo soli al mondo. Quando il nostro tempo è finito, ciò che rimane di noi è solo una caricatura di ciò che siamo stati: la memoria che gli altri hanno della nostra persona. Ed ecco che i defunti che abitano l'aldilà sono manichini, che Decim conserva con cura. Perché è innanzitutto importante preservare il ricordo delle persone con cui è entrato in contatto, dal momento che ognuna di esse ha permesso a lui, nato bambola, di acquisire la forza vitale. Forse i nostri vicini di casa, proprio come Decim, hanno una stanza misteriosa in cui conservano il nostro manichino, assieme a quello di altri amici e parenti. Manichino con caratteristiche dettagliate, ma che andando avanti verrà portato via dal tempo, si scolorirà, si trasformerà, fino a dissolversi. E non importa quanto particolareggiato esso sia, resta pur sempre la fotografia di un manichino. Non è quello che siamo, e nemmeno quello che eravamo, è solo come una persona ci ricorda.
 

Il suicidio è un tema ricorrente in Death Parade. Per molte religioni è considerato tra il più grave dei peccati: un essere umano può scegliere di togliersi la vita, allo stesso tempo con quel gesto nega a sé stesso ogni possibilità di salvezza eterna. In uno stato laico come il Giappone, dove sono in primis le persone a dichiarare di professare contemporaneamente due o più fedi religiose, il suicidio non viene affrontato in maniera così negativa. In passato ci sono stati drammaturghi che hanno dedicato intere opere al tema del suicidio, del doppio suicidio d'amore, del suicidio d'onore, il cosiddetto seppuku o harakiri, che dir si voglia. L'idea del suicidio è parte integrante della giapponesità, quasi come se per un giapponese suicidarsi fosse la risposta a tutti i problemi. Un gesto che viene naturale, senza sforzo. Mi è stato raccontato che esiste una foresta dei suicidi; e che per un certo periodo in Giappone si usava lanciarsi nel vuoto in gruppo; oppure che quando in stazione mandano l'annuncio di ritardo per incidente, di solito è perché qualcuno si è buttato sui binari. È macabro tutto ciò, ma reale. In Death Parade a volte il suicidio non viene inteso letteralmente, ma è affrontato in modo metaforico. D'altro canto, a cosa servirebbe parlare di un suicida che viene soccorso da altri e scampa la morte per miracolo, suicida che casomai non arriva nemmeno a capire quanto il suo gesto sia stato grave? La salvezza che mostra Death Parade va vista come una seconda possibilità e questa nuova possibilità viene offerta tramite la reincarnazione. L'ascensore con la maschera serafica è il simbolo di questa seconda possibilità, che non viene concessa a chiunque, ma solo alle persone che realmente hanno compreso la gravità di ciò che hanno compiuto. La chiave la si può trovare nella natura stessa dell'atto di suicidarsi. In primo luogo, c'è il peccato di sprecare la propria vita; ma ancor più di tutto, c'è il dolore e la sofferenza che si provocano a quelli che abbiamo lasciati indietro. Ciascuno di noi è prezioso per qualcuno, ogni vita umana è fragile e inestimabile. L'atto del suicidio non è un mero passaggio del costo della nostra vita ad altri, anzi dovrebbe recare con sé la consapevolezza che non si può rimediare, una volta che il cuore si è fermato, alle ferite che quell'errore ha provocato ai nostri cari. Non in questa vita almeno, anche se potrebbe in qualche modo accadere nella prossima. Questo nessuno lo sa. Non importa quanto terribili siano gli sbagli che commettiamo nel corso della nostra esistenza, dobbiamo accettarne le conseguenze e convivere nel post mortem – ammesso e non concesso che si creda esistere qualcosa dopo la morte! –, con la responsabilità di aver arrecato sofferenza a quelle persone che ci tenevano a noi, più di quanto noi stessi credevamo.
 

Death Parade mantiene una coerenza dall'inizio alla fine. Vorrei poterne avere una seconda serie, perché tutto sommato mi sono affezionata ai personaggi del Quindecim. Tuttavia, sono dell'opinione che lasciato così com'è finito, sia la scelta più saggia. D'altra parte non è una serie che punta a vendere il più possibile, non è nemmeno un anime nato per soddisfare i fan di Death Billiards. Piuttosto sarebbe opportuno domandarsi se Tachikawa Yuzuru avesse già in mente questo progetto ai tempi dell'Anime Mirai e aspettasse solo l'occasione per poterlo mettere per iscritto. Death Parade è un collage di esperienze che, mostrate nel giusto ordine, trasmettono un messaggio più o meno complesso, ancora senza soluzione. Questo perché è lo sceneggiatore in primis a stare raccontando la sua catarsi, come se stesse ponendo domande a sé stesso e, assieme allo scorrere degli episodi, stesse sbrogliando la matassa e cercando la risposta. Risposta che è diversa per ogni persona. Il dissidio interiore dell'autore si riflette sui personaggi dei giudici, che sono creati per non provare sentimenti e per essere super partes. Death Parade richiama la classica querelle tra coloro che pensano all'imparzialità dei giudici come a qualcosa che non può abbinarsi all'emozione in nessun modo; e tra quelli che invece reputano giusto un verdetto soltanto quando il giudice ha provato i medesimi sentimenti dell'imputato, e può capire, quindi, maturare una visione a tutto tondo. Quando Nona, il capo di Decim, grida: «Questo mondo non può andare avanti così!», esprime l'indignazione impotente di tutti quelli che si scagliano contro l'ingiustizia della vita, e contro un universo freddo che sembra tenere poco riguardo per la nostra felicità. E lei va oltre, affermando che non è sbagliato per i giudici soffrire quando emettono un verdetto. In realtà, è di vitale importanza provare quel dolore, è ciò che rende un giudice vivo. Essere costretti ad affrontare la difficile scelta di prendere una decisione sulla pelle degli altri, è ciò che rende vivi gli abitanti del Quindecim. Lo sforzo innaturale di comprendere gli essere umani, uno sforzo penoso, spinge Decim a fare qualcosa di diverso, che nessuno in quell'aldilà ha mai fatto prima: sorridere. A volte non servono le parole, basta un sorriso per comunicare i propri sentimenti. Visione splendida ma agrodolce. La vita è una serie di compromessi. Accettare ciò che è ingiusto e crudele e fare del nostro meglio per raggiungere l'altro in maniera seppure imperfetta ma almeno efficace, è tutto quello che siamo capaci di fare. Si tratta di una semplice domanda: viviamo in modo tale da poter un giorno morire, o moriamo perché abbiamo vissuto?

 
In conclusione, Death Parade si propone come un'analisi della natura dell'esistenza, un'indagine sull'essenza dell'uomo. Nella mitologia di questa serie, il termine "umano" è troppo stretto, si potrebbe parlare più di sensibilità a confronto. Cosa vuol dire essere "vivo", e che cosa vuol dire essere consapevoli di sé? Che cosa succede dopo la morte al nostro corpo e alla nostra anima? Ma ancor di più, siamo fondamentalmente soli nell'universo, destinati a non essere in grado di capire chi siamo, dove siamo, perché esistiamo, chi ci ha creati, ecc.? Sarebbe bello se Dio chiudesse gli occhi dinanzi al peccato dell'uomo. Sarebbe bello che fosse ancora più indulgente nei riguardi di questo essere abominevole, che molto spesso arriva a compiere efferatezze verso i suoi simili o contro sé stesso, solo perché non sa come venir fuori da una situazione difficile. Così brutto, ma al contempo così bello. Così coinvolto, ma pure così freddo. Quando c'è mancanza di comunicazione fra gli uomini, si creano circostanze per le quali una sciocchezza può divenire qualcosa di imponente, al punto da arrivare a condizionare l'esistenza di molti. A volte basterebbe parlare, non farsi diecimila problemi in testa pensando di aver capito cos'è che prova l'altro; basterebbe cercare di entrare più in sintonia col prossimo, piuttosto che vedere solo il proprio orticello. Perché l'uomo non prova per una volta a mettersi nei panni di chi gli sta di fronte? Soprattutto bisognerebbe apprezzare di più la vita, la nostra e quella degli altri, perché è unica, nessuno può restituircela. Nel tempo corrente, quanto la vita è stata sottovalutata è incalcolabile. Lo stesso ciclo della reincarnazione garantisce la rinascita in un'altra forma, ma non fa ritornare l'uomo nello stesso luogo e tempo in cui è morto. Dopo la dipartita, molto spesso si conservano dei rimpianti, ecco perché il consiglio è di vivere la vita appieno, senza lasciar correre le occasioni, cogliendo l'attimo e sfruttando al massimo ogni momento. Il fatto che non possiamo mai raggiungere un'intesa perfetta con gli altri, non significa che non dovremmo provarci. Provare a fare felici coloro che amiamo mentre siamo insieme.