Il 27 novembre 2014, l'Unesco ha stabilito che la carta tradizionale giapponese, definita washi, era da considerare Patrimonio Culturale Immateriale dell'Umanità. Stupisce pensare che un semplice foglio di carta possa avere tanto valore, ma in questo caso parliamo di una lavorazione che si tramanda da secoli e una resistenza fuori dal comune.
Scopriamo quindi cosa si cela dietro alla washi le cui tecniche di fabbricazione sono arrivate nell'arcipelago dalla Cina intorno al VII secolo, quindi circa 1.300 anni fa!
 

Questo particolare tipo di carta si mostra diversa già al tatto, dando quasi una sensazione di calore, è molto fine ma allo stesso tempo estremamente resistente, tanto da superare indenne il passare dei secoli.
La prova se ne ha presso il Shôsôin di Nara: in questo edificio, costruito nel 756 per conservare i tesori dell'imperatore Shômu (701-756), sono custoditi dei registri fatti di washi che risalgono all'VIII secolo. Altro che digitale! Non stupisce quindi che sia molto amata dai giapponesi che la usano per moltissimi scopi, sia nel quotidiano che nelle occasioni più speciali.
 

Con essa si possono fabbricare tazze o ombrelli e addirittura impermeabili, detti kamiko (che diventano resistenti all'acqua grazie a speciali lacche); ma anche per costruire lanterne (chochin), lampade (andon) e ventagli (uchiwa e sensu). La troviamo nei mizuhiki (decorazioni intrecciate di buon auspicio poste sui pacchi regalo), nei gohei (strisce di carta ripiegata a zig zag che si offre alle divinità dei santuari scintoisti) e nei shakyô (copie dei sutra recitate dai monaci buddisti).
Se macerata, è usata come materia prima per i daruma e per i maneki neko; ma la troviamo anche all'interno delle abitazioni tradizionali giapponesi. Nelle porte scorrevoli che dividono le varie stanze fa le veci dei vetri, essendo abbastanza fine per far passare la luce ma altrettanto resistente per impedire all'aria di entrare. La più famosa è quella fabbricata nella provincia di Mino (nella parte meridionale della prefettura di Gifu), detta appunto Hon-Mino-shi.
 

Si narra che ad Edo (l'antico nome di Tokyo) i mercanti gettassero nei pozzi i loro libri contabili per salvarli dalla furia degli incendi che spesso devastavano la capitale: questo perché la washi una volta asciugata riprende la sua forma originale e restituisce intatte le scritte fatte con l'inchiostro di china dell'epoca. Inoltre non teme l'assalto degli insetti ed essendo resistente, difficilmente si strappa per errore o si consuma. Non stupisce quindi che abbia preso così piede nella vita del Sol Levante.
 

Ma quale sarà il segreto dietro alla carta washi, come è possibile che abbia tutte queste qualità? Tutto dipende dalla scelta scrupolosa delle materie prime e da un processo interamente manuale di fabbricazione. Le piante utilizzate per ricavare la washi sono essenzialmente tre: il kôzo (gelso), il mitsumata (Edgeworthie) e un arbusto detto ganpi. Dapprima si cuociono i rami, da cui è quindi tolta la corteccia. Quello che resta è poi battuto a mano o con un bastone per rompere le fibre interne.
 

I filamenti così ottenuti vengono quindi immersi in una vasca piena d'acqua (sukibune) a cui viene aggiunta la radice di una pianta mucillaginosa, l'aibika (tororo-aoi) che funge da colla. L'impasto così ottenuto è filtrato utilizzando una grande cornice rettangolare al cui interno vi è il sukisu, un setaccio di bambù; l'importante è muoverlo bene avanti e indietro, per distribuire in modo uniforme la pasta e dare vita così al nostro foglio. Perché esso sia molto resistente, è fondamentale che il sukisu sia coperto da fibre di una certa lunghezza in maniera omogenea.
 

Questo processo è praticamente lo stesso in tutto l'arcipelago, ma poi ogni regione produce la propria carta che avrà struttura e caratteristiche diverse, dovute al clima e alla qualità dell'acqua. Si racconta che gli specialisti del settore fossero in grado di dire da dove proveniva un foglio di carta semplicemente guardandolo e toccandolo.
Inoltre i giapponesi iniziarono ad usare la parola "washi" solo all'inizio dell'era Meiji (1868-1912) per distinguerla dalla carta "yoshi", termine riferito alla carta di tipo occidentale che era appena comparsa nell'arcipelago. Il prezzo più basso di quest'ultima, la sua facilità di produzione unita alla rapida occidentalizzazione del Giappone hanno contribuito al declino della carta washi. Che però nonostante tutto resiste in alcune zone del paese.
 

È il caso ad esempio della carta washi detta "torinoko" prodotta nell'ex provincia di Echizen, che corrisponde alla parte settentrionale di quella che ora è la prefettura di Fukui. La torinoko ha la reputazione di poter resistere intatta per mille anni. Nel 1712, sul Wakan sansai zue (un'enciclopedia dell'epoca) si trovava scritta questa frase: "La torinoko si presta alla scrittura perché è una carta liscia, forte e ha una vita molto lunga, al punto che la si potrebbe chiamare la regina di tutti i tipi di carta".
Il distretto Ôtaki nella città di Imadate (prefettura di Fukui) si è specializzato da secoli nella sua produzione; i laboratori si trovano su un fiume cristallino in una valle di montagna, fattori che uniti al freddo intenso invernale della regione, contribuiscono alla resa perfetta. Per far capire il grado di qualità della torinoko basti pensare che durante il periodo Edo (1603-1868), i laboratori di Imadate la produssero per lo shogun Tokugawa e fu utilizzata anche nella produzione di banconote nell'epoca Meiji (1868-1912) e successivamente per i tagli da 100 yen rimasti in circolazione fino al 1940.
 

Per ottenere una carta di qualità, una delle fasi fondamentali è quella di rimuovere tutte le impurità dalle fibre di corteccia che andranno a formare la polpa. Questo lavoro, che mira ad eliminare ogni traccia di polvere, particelle indesiderate e imperfezioni è affidato a donne con una lunga esperienza nel settore cartario che passano ore davanti alle vasche di acqua fredda (per ridurre al minimo la contaminazione batterica), con la schiena curva e gli occhi fissi sulle fibre ispezionate minuziosamente dalle loro dita, giorno dopo giorno.
A parte il braciere, dove gli operai si scaldano le dita intirizziti dal freddo, nelle officine non vi è altro riscaldamento, perché la carta deve essere prodotta in un clima rigido per diventare di alta qualità.

Fonte consultata:
Nippon