In questo appuntamento della rubrica dedicata ai migliori titoli (per media di voto) presenti nel database di AnimeClick, ci dedichiamo a quella cerchia di serie animate composte di un singolo cour: con questo termine ci si riferisce ad un blocco di episodi che coincide solitamente con uno dei quattro periodi di tre mesi della trasmissione televisiva giapponese, e che si aggira mediamente su un numero dalle 10 alle 14 puntate. Sappiamo che le esigenze commerciali degli ultimi decenni hanno portato ad una complessiva riduzione delle produzioni animate long-running, fino poi a sfociare in quella sorta di compromesso rappresentato dalla formula dello split cour.
Non volendo tuttavia limitare il discorso ai palinsesti stagionali, nella seguente lista troverete, più semplicemente, serie animate della durata tipica di 1 cour autoconclusivo, quindi provviste di un finale, o delle quali non sia mai stata annunciato un sequel (non valgono prequel e remake). 
Ecco i primi 20 piazzamenti secondo le valutazioni e recensioni di tutti noi iscritti.

Siete d'accordo con la classifica?
E ricordate: le graduatorie dipendono da voi e le vostre valutazioni, quindi recensite sempre i vostri titoli preferiti!

N.B.
Nella lista non sono considerate serie OAV, alle quali abbiamo già dedicato una classifica.
 

 
1 Haibane Renmei (13 ep.) 8.79
2 The Tatami Galaxy (11 ep.) 8.63
3 Ping Pong the Animation (11 ep.) 8.589
4 Kino no Tabi - The Beautiful World (13 ep.) 8.586
5 Aoi Bungaku Series (12 ep.) 8.48
6 Usagi Drop (11 ep.) 8.42
7 Sakamichi no Apollon (12 ep.) 8.419
8 Mononoke (12 ep.) 8.411
9 Baccano! (13 ep.) 8.38
10 Death Parade (12 ep.) 8.28
11 Serial Experiments Lain (13 ep.) 8.23
12 Fune wo Amu (11 ep.) 8.22
13 Erased (12 ep.) 8.19
14 AnoHana (11 ep.) 8.17
15 Tokyo Magnitude 8.0 (11 ep.) 8.139
16 Kaiba (12 ep.) 8.138
17 Ikoku Meiro no Croisee (12 ep.) 8.135
18 White Album 2: Shiawase no Mukougawa (13 ep.) 8.06
19 Dopo la pioggia (12 ep.) 8.044
20 Paranoia Agent (13 ep.) 8.040


-

"Haibane Renmei", anime del 2002 ideato da Yoshitoshi Abe, trova ispirazione dal romanzo "La fine del mondo e il paese delle meraviglie" di Haruki Murakami, dal quale tuttavia si distanzia notevolmente, traendone solamente alcuni simboli e spunti.
E' davvero un piacere immenso avere l'occasione di potere spendere qualche parola a riguardo. Non penso di commettere empietà alcuna nell'affermare che, ad oggi, "Haibane" sia forse una delle migliori opere che abbia mai visto e che meriti di brillare incastonata nel firmamento dei capolavori da ricordare.

Le vicende sono ambientate in una misteriosa città di nome Glie, la cui particolarità è quella di essere completamente circondata da alte ed enigmatiche mura. Nessuno può entrare o uscire, eccezione fatta per i toga: oscure figure sacerdotali il cui compito è quello di comunicare tra la città e l'esterno. Le haibane, misteriosi esseri umani alati le cui fattezze rimandano all'iconografia cristiana dell'angelo, nascono in questo mondo da una sorta di bozzolo, che cade dal cielo. Esse non ricordano nulla del loro passato se non un sogno, forse un riflesso simbolico della loro precedente esistenza. In questo luogo le haibane conducono una vita serena e pacifica, in attesa del giorno in cui potranno lasciare la città.

L'ambientazione detiene una valenza simbolica non indifferente che permette allo spettatore di interiorizzare le varie tematiche a seconda della propria sensibilità. La città si potrebbe considerare, ad esempio, quasi come un "purgatorio", sebbene a tratti si avvicini più ad assomigliare a un limbo da cui volere fuggire. Le haibane sembrano guadagnare una sorta di "seconda possibilità" per redimersi dal loro peccato, per espiare le proprie colpe o potere ripagare i propri rimpianti dopo la morte. Alcuni indizi (tra i quali i loro sogni) lasciano ad intendere infatti che nella loro vita precedente avessero posto fine alla propria esistenza con il suicidio e che quindi abbiano ora la possibilità di riscattarsi dagli errori commessi. Non è un caso che, per diversi aspetti, il trattamento riserbato alle haibane dalla città assomigli quasi a un "processo di riabilitazione psicologica" atto a restituire loro un equilibrio interiore.
Si tratta, ovviamente, di mere speculazioni poiché non viene spiegato per quale motivo le haibane esistano o quale sia lo scopo della loro permanenza nella città. In ogni caso, ritengo che non si debba leggere quest'opera in un'ottica meramente cristiano-religiosa e nemmeno mistico-spirituale. Il perché di tale asserzione lo spiegherò più avanti.

"Chi oltrepassa le mura non può tornare indietro" - "si può vivere al di là delle mura solo se si è pronti per farlo"

Spingerò dunque l'interpretazione su altri lidi, cominciando a far notare come il desiderio di conoscenza sia uno dei temi portanti della serie. Aspirazione che arde nella mente dell'uomo è infatti quella di conoscere, di svelare i segreti che ammantano la propria origine e l'origine del mondo. Siccome la condizione di ignoranza è dolorosa, egli è spinto a cercare, a conoscere, presto però si accorgerà degli ontologici limiti che la contingenza (im)pone a tale anelito. Qui si rivela chiarificatore il simbolismo proprio dell'ambientazione: tutto quello che è all'interno delle mura è ciò che si trova alla nostra portata (e dei personaggi), quello che si trova al di fuori (di cui nulla è noto) simboleggia ciò che ci trascende - quindi "la" verità, anche di natura escatologica. Le mura possono significare la "morte" ma pure qualsiasi altro confine umano, soglia invalicabile che rende ineffabile ed effimero ciò che cela oltre di sé. Questo vuoto, lo si può compensare, ad esempio riempiendolo con le proprie speranze e fantasie, come del resto fanno Nemu e Rakka concludendo secondo i loro immaginazione e desideri il racconto sulla creazione del mondo, trovato in un antico libro ormai divenuto illeggibile. Tale manoscritto è stato completato inventando una mitologia piuttosto "personalizzata" e bizzarra, ma si trattava comunque di un qualcosa che inconsciamente assecondava i desideri e le speranze di chi l'ha scritto, un qualcosa che cercava di dare quindi una giustificazione consolatoria ai suoi dubbi. La necessità di compensazione gioca un ruolo rilevante nella nascita di leggende, religioni, miti, poesie ma anche dell'arte, della filosofia e della scienza. L'uomo per necessità cerca di darsi un senso, una motivazione, di colmare quel vuoto nei più svariati modi.

La verità è che la felicità non si trova tanto nella verità, quanto nel credere a "una" verità, in breve: è il frutto di un processo interiore di adattamento. Non per tutti un simile (auto)inganno è agevole, coloro che non riescono ad adattarsi o il cui spirito "filosofico" si rivela (pre)potente sono destinati a un'esistenza di sofferenza e di continuo dubbio. Non a caso è proibito e pericoloso avvicinarsi alle mura, esse sono ciò che protegge le haibane da una verità troppo dolorosa per essere sopportata e contemporaneamente la loro prigione. Chi vi si reca appresso o addirittura osa sfiorarle o valicarle è destinato a patire un dolore indescrivibile, come accade a Reki. Tale è la sofferenza di chi anela alla conoscenza stretto nella morsa dell'incertezza, ma anche di chi, conoscendo, scopre l'amara e dura crudeltà della verità. Costui è destinato a un fato doppiamente tragico, in quanto oltre a comprendere la limitatezza delle proprie possibilità è afflitto dalla disperazione, frutto della sua medesima cerca.

"Colui che riconosce di essere colpevole, non è colpevole."- "Merito davvero questa felicità?"

Un altro tema portante si concretizza nella riflessione circa la dicotomia colpa-perdono. Fondamentale per la pace interiore infatti è la consapevolezza che l'unico modo per spezzare il circolo del senso di colpa sia quello di trovare e soprattutto accettare il perdono: si tratta di un dilemma cui il singolo individuo non può venire a capo senza un intervento esterno. Il senso di colpa è un sistema a retroazione positiva che si autoalimenta ed espande, trasformando l'uomo nel carnefice di se stesso. Si instaura un circolo vizioso dal quale è impossibile uscire con la logica, fenotipo dell'insanabile e ossimorica essenza della psiche umana. I personaggi incarnano alla perfezione queste problematiche, la cui analisi viene affrontata con molta profondità e dolcezza, soprattutto per quanto riguarda l'indagine emotivo-psicologica dei due principali: Reki e Rakka. Incredibile come si tratti il tutto con estrema delicatezza, rendendo la visione spesso commovente e intensa, in modo particolare negli ultimi episodi.



Peculiarità interessante della serie è che, giustamente, agli enigmi che essa pone non viene mai data una risposta; questo perchè la "risposta", in effetti, è che la risposta non la conosce nessuno, che una risposta giusta non c'è, che il problema sta appunto nella domanda e che esistono interrogativi a cui non possiamo rispondere, nondimeno non possiamo fare a meno di interrogarci a riguardo e cercare di conoscere, poiché l'uomo anela a colmare tale vuoto, ed è questo il motore della sua esistenza ma anche il suo fardello. Ed è proprio il fatto che Haibane non risponda ai suoi interrogativi a renderlo eccezionale, poichè da ad intendere che il punto non sia tanto la meta, che rimane ineffabile, quanto il percorso. Queste reminiscenze di filosofia orientale sono molto presenti nella serie, e vengono per lo più incarnate dalla figura del maestro Toga. Costui sembra rappresentare una sorta di guida spirituale per le Haibane, e svolge il suo compito senza predicare il giusto e lo sbagliato secondo una determinata liturgia. La sua figura è più accostabile, invece, a quella di un maestro Zen che risponde per indovinelli, infatti egli non dice mai nulla espressamente, non offre spiegazioni di sorta, piuttosto pone degli enigmi o delle frasi sulle quali meditare (proprio come i koan) per far arrivare autonomamente il soggetto alla soluzione. Ma in effetti il discorso può essere esteso alla serie stessa, la quale non fa altro che porre delle questioni su cui meditare, piuttosto che imporre una frigida verità preconfezionata.

Dal punto di vista tecnico "Haibane" è una serie nella media. Le animazioni sono buone, così come la regia e le musiche che contribuiscono a creare un'atmosfera di dolcezza e tranquillità, che contrasta con l'irrequieto sconvolgimento interiore delle protagoniste.
Lo spettatore può leggere su diversi livelli l'opera, considerandola semplicemente come una dolcissima storia oppure cercando di apprezzarne appieno la profondità. In entrambi i casi non potrà comunque che esserne soddisfatto, perché "Haibane" è una serie che parla di noi: attuale, brillante, sa toccare nel profondo chi guarda, difficilmente senza lasciare qualche segno.
Voto: 9.


-

Oramai Masaaki Yuasa è entrato prorompentemente nel mio harem privato di registi preferiti.
Dopo aver visionato "Mind Game", "Genius Party", "Kaiba" e altri corti e piccoli lavori anche da lui prodotti, direi che con "Yojouhan shinwa taikei" si giunge all'apice.

C'è qualcosa in quest'anime che mi ha portato alla mente, fin dai primi istanti, "Sayounara Zetsubou Sensei". In realtà i produttori sono differenti, così come lo Studio, ma il tutto è simile. Forse è lo stile narrativo celerrimo, tanto da risultare difficile non solo seguire la voce del narratore, proprio come in SZS, ma anche i sottotitoli; forse è anche la sperimentazione grafica e cromica, i colori cangianti, irreali, l'intromissione di foto e video reali all'interno dell'animazione fittizia; forse è il numero abbastanza grande di cartelli, kanji, dettagli minuscoli presenti nello sfondo; la comicità anch'essa è di stampo simile.
Resta il fatto che, seppur tecnicamente le due opere siano quantomai simili, da un punto di vista del fine sono totalmente agli antipodi.
"Yojouhan shinwa taikei" è un anime non solo bellissimo da un punto di vista sperimentale, accompagnato da una OST molto ricercata e aulica prodotta da Michiru Oushima, in cui si passa dal flauto al violino fino al pionoforte, per passare poi a una schitarrata semplice e poi tornare a imitare i grandi classici, ma è anche portatore di una morale ben precisa, è profondo, seppur non possa sembrarlo, di primo acchito.

Degli 11 episodii, i primi 7 o 8 sono immagini di sé stesse, sono, matematicamente parlando, funzioni simmetriche, che descrivono mondi separati, ma legati da un sottile "filo nero", citando la stessa opera.
Il protagonista, un laureando, nel primo episodio descrive la sua carriera universitaria e il corso extra che ha scelto per immergersi nella parte sociale del mondo dell'ateneo, con tutti i personaggi che conseguentemente ha conosciuto.
Nel secondo episodio viene fatta la stessa cosa, ma il corso extra-scolastico è differente, i personaggi imbattutiglisi sono gli stessi, ma conosciuti in vicende differenti ma analoghe, e il finale è identico: la vita così non va, sarebbe stato meglio se avessi preso una strada diversa.

Lo spettatore, che si trova all'esterno, nota subito il nonsense di tutto ciò, la mancanza di un filo logico tra un episodio e un altro, ma questa presa di coscienza ben presto si diffonde anche nel protagonista stesso, quasi come fosse lo spettatore a renderlo cosciente degli avvenimenti.
La peculiarità sta nel fatto che ogni episodio, seppur discreto, ossia distinto, è legato agli altri, un po' come le stanze di una palazzina sono distinte, ma separate da un semplice muro, in questo caso abbattibile in qualsiasi momento.
Grazie a ciò ritroviamo degli "errori", delle contaminazioni, ossia nell'episodio X rinveniamo un qualcosa che era stato effettuato o prodotto nell'episodio y, ma nessuno, a parte lo spettatore, sembra accorgersene o dare a esso importanza.

Questa mancanza di interesse nei confronti del reale è la critica che viene effettuata negli ultimi episodi, quando il nonsense vacilla, perché il protagonista diviene spettatore, diviene capace di osservare sé stesso e tutte le sue sfaccettature e nota le contraddizioni e le contaminazioni, comprendendo dal particolare l'universale.
Ovviamente questo non è altro che uno, nessuno e centomila, ma quel dolore kierkegaardiano dell'uomo di fronte al bivio qui viene superato, perché quando il nostro anti-eroe diviene cosciente della molteplicità di sé stesso e della potenzialità della molteplicità di sé stesso (perché non solo uno è di per sé centomila, ma potrebbe anche divenire ancora altri centomila, magari prendendo centomila strade differenti: in questo consta la potenzialità) semplicemente lo accetta, abbandonando quelle vite precedenti tanto tristi e meschine e ottenendo una vita più aperta e felice.
Ovviamente questo è un anime, il concetto è bello, ma probabilmente irrealistico, se proiettato nel mondo umano.

Per finire, il mio plauso al regista che ha voluto evitare di cadere nel becero sentimentalismo, ma anzi, fa dire al protagonista, nell'11° episodio "niente è più noioso da raccontare di una storia d'amore a lieto fine."
Parole sante, santissime. 10/10.


-

Stupendo, riflessivo, commovente, profondo, ironico, epico.
A caldo, dopo aver visionato l'ultimo episodio di "Ping Pong The Animation", mi vengono in mente questi aggettivi per definire di sicuro la serie più interessante della stagione primaverile, e che sicuramente trascenderà il tempo e rimarrà un piccolo gioiellino anche negli anni a venire, poco importa se avrà avuto poco seguito e sarà rimasto un prodotto di nicchia per le sue fattezze volutamente grezze.
Il lavoro nasce originariamente dalle chine di Taiyou Matusmoto, che realizza la storia in cinque tankobon nel 1996. La traduzione in anime è condotta dalla regia di Masaaki Yuasa, lo sperimentatore di "Tatami Galaxy".

In breve l'incipit: Tsukimoto, anche chiamato ironicamente "Smile", e Hoshino "Peco" sono compagni del liceo e amici di infanzia che si applicano nel ping-pong fin da bambini. Il primo, apparentemente poco ambizioso di sfondare nel mondo del ping-pong, il secondo che della vittoria e del ping-pong fa una ragione di vita, entreranno nel giro delle competizioni agonistiche, ma cosa li aspetta?

In "Ping Pong the Animation" c'è tutto quello che si può desiderare da un anime sportivo ma anche molto di più, perché va oltre il semplice genere sportivo, è anche drammatico, è anche uno slice of life, insomma è davvero tante cose assieme. Nel ping-pong qui descritto c'è un crocevia di giovani atleti liceali che si sfidano a colpi di racchetta, ognuno con un personale bagaglio di vita adolescenziale da mettere sul tavolo da gioco: qui, durante i duelli, la dimensione fisica del tavolo diventa ininfluente, si spazia nell'onirico, in pratica il campo interminabile di "Holly & Benji" fa un baffo al tavolo da ping-pong, esiguo solo all'apparenza. Durante i duelli più avvincenti, la partita è un vero e proprio dialogo tra i due sfidanti, che alienatisi dal pubblico sono dominati dal loro animo guerriero, condizionati dai loro casi di vita personali che li spingono a vincere o, paradossalmente, talvolta anche a perdere.

C'è senso del dovere e del sacrificio, uno dei modi possibili per ottenere successo nel ping-pong, e chissà, forse un giorno anche nella vita, ma c'è anche talento senza pari, che ha bisogno di allenamento dedicato, ma che quando è innato prima o poi emerge comunque, e lascia a bocca aperta il pubblico.
I personaggi splendidi di questo anime, i ragazzi che si scontrano a viso aperto, hanno una perfetta caratterizzazione psicologica, nella vittoria e nella sconfitta, nell'abbandono della disciplina del ping-pong e in ritorni inaspettati, in un percorso di continua crescita interiore. Tutto ciò, sotto l'occhio attento dei coach "dinosauri", un tempo giocatori di ping-pong e ora motivatori carismatici delle nuove leve.

"Ping Pong the Animation" è anche e soprattutto una storia di amicizia, una storia di "eroi" se vogliamo, perché è questo che in ultima analisi si evince maggiormente, un'amicizia incondizionata e gratuita, disposta anche al personale sacrificio in vista del bene dell'amico amato - mi riferisco in particolare alla bellezza di alcuni fotogrammi dell'ultimo episodio, che è stato davvero commovente. Ma siamo giunti a questo punto attraverso un graduale percorso di formazione, in cui Tsukimoto e Peko hanno entrambi mutato la propria personalità molteplici volte. Un climax ascendente di emozioni. Nei primi episodi il tono è più dissacrante e ironico, e mano mano si va verso un approfondimento drammatico. E anche i pezzi del puzzle, fotogrammi inizialmente proposti sparpagliati in diversi episodi, si ricompongono compiutamente nell'ultimo.

Le tecniche registiche al limite della sperimentazione qui rendono al meglio una storia di per sé atipica: il ping-pong, che può essere associato da un occhio inesperto a un gioco meccanico e robotico, qui diventa un'esplosione di colori, musica e movimenti mai uguali. Il tratto tremolante della linea, nei fondali ma anche e soprattutto nei contorni dei personaggi, rende il disegno spiccatamente espressionista. Certe caratteristiche fisiche dei personaggi vengono volutamente accentuate così da poterli caratterizzare al meglio.

Colonna sonora stupenda, concitata nel momento degli scontri, rispettosa e più pacata nei momenti introspettivi dei personaggi, a dir poco adrenalinica e jappo-punk nella opening, veramente stupenda nel connubio musica-immagini in cui le animazioni sono poco più che abbozzate, che anche con poco riescono a rendere benissimo l'espressività dei volti del sempre mangereccio Peko e dell'impassibile e robotico Tsukimoto.

Un anime che mi mancherà, e anche se undici episodi sono il giusto per terminare il racconto, ne avrei volentieri visti degli altri, se fosse stato garantito lo stesso tenore in tutti i comparti.
Veramente bello.