Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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“Un atto di gentilezza, ne ispira sempre un altro.”
Iniziato a vedere sia per curiosità sia sotto consiglio di amici, vengo a conoscenza di questo lungometraggio reperibile esclusivamente (almeno al momento) su Netflix: ed è amore a prima vista.
“Klaus - I segreti del Natale” è sostanzialmente un prodotto per famiglie, una rivisitazione della misteriosa, unica, favolosa e magica leggenda di San Nicolaus, meglio conosciuto come Santa Klaus, dalle nostre parti con il dolcissimo appellativo di Babbo Natale.
Il 2D alla ribalta come nella più classica tradizione. Ma è solo questo? No di certo.
Klaus è molto più che un film per adulti e bambini capace di parlare dell’atmosfera di Natale, dell’importanza delle buone azioni e del clima speciale che si respira in quel periodo. In realtà va ben oltre la stucchevole ipocrisia dei luoghi comuni di fine dicembre: esplora superficialmente il lato lappone e pagano del periodo natalizio, reinventando una leggenda nota a tutti, con una costruzione di background solida e inaspettatamente emozionante.
Forte di un tratto minimalista ma incisivo, capace di offrire un mix fra design moderno e fondali in stile classico, mischia sapientemente CG e disegno animato, riuscendo per quasi un’ora e mezza a trascinare gli spettatori di tutte le età in un mondo gelido e affascinante come pochi altri lungometraggi del genere sono riusciti a fare negli ultimi anni. Sia ambienti che strutture artificiali che figure umane sono stilizzate secondo uno stile più moderno e dinamico, e, nel complesso, creano un bilanciamento estetico armonioso che non stanca né disturba.
Gli autori sfruttano argutamente una delle leggende nordiche più classiche del genere umano per arrivare a parlare direttamente al cuore degli spettatori, utilizzando metafore e termini non sempre diretti; il sistema è facile e incisivo, e l’armonia fra design, colonna sonora davvero apprezzabile e una storia per niente scontata (che andrà a completarsi in un fantastico crescendo dolce e malinconico) fa da teatro a insegnamenti tanto semplici e scontati, quanto toccanti e unici, perché la gentilezza e l’amore non possono e non potranno mai passare di moda, nonostante, nella vita di tutti i giorni, ogni tanto, il dubbio verrebbe.

È questa l’avventurosa storia di Jesper, giovane viziato oltremodo dai genitori, un ragazzo che vive la sua vita servito e riverito da camerieri e domestici, fra colazioni a letto, lenzuola di seta e decine di altri vizi che lo hanno reso egoista, rammollito e privo di ambizioni.
Stanco della vita dissoluta del figlio, il padre, potente e influente uomo d’affari, cerca di farlo entrare a lavorare nel servizio postale reale di cui è proprietario, ma Jesper si dimostra un fallimento totale. Al limite della frustrazione, di fronte a una situazione che pare irrecuperabile, il padre di Jesper comprende - a malincuore - che suo figlio ha bisogno di una vera e propria scossa, e decide di punirlo mandandolo a fare il postino molto più a nord delle loro terre... addirittura al Circolo Polare Artico (!), in una località assurda, fredda e inospitale: un villaggio fra monti ghiacciati e crepacci oscuri, popolato da gente aspra e poco incline alle novità, immischiata in una faida locale che coinvolge due fazioni ben distinte all’interno del paese. E dovrà rimanerci fin che non avrà spedito un quantitativo di lettere inimmaginabile: seimila!
Jesper non crede a quel che sta accadendo: come può suo padre fargli una cosa simile?! Come potrà sopravvivere in una bettola gelata, senza riscaldamento, dal tetto bucato e circondato da gente fuori di testa come i cittadini di quel maledetto posto?
Ma non tutto è come sembra, ed è nelle difficoltà che la vita diviene inevitabile, spietata ma saggia insegnante. Fra giornate orribili, capitani di pescherecci dal dubbio umorismo, bambini dall’aria sinistra e buche delle lettere sempre vuote, Jesper farà anche conoscenze non così terribili, come una giovane donna che, all’interno di quella che dovrebbe essere la scuola elementare del borgo, vende pesce marcio al posto di insegnare, esaurita, stanca da quel posto, e che, come lui, non vede l’ora di andarsene.
È proprio così: la situazione appare drammatica. Di questo passo, Jesper, non lascerà mai quel paesino, e il suo futuro comincia a sembrare davvero compromesso. Almeno, fino a quando non fa la conoscenza di un possente boscaiolo, cupo e taciturno, spaventoso nell’aspetto, un vero bestione dalla folta barba bianca, capace di lavorare il legno in modo sublime e creare oggetti di una grazia e di una bellezza senza pari, come il giovane postino mai aveva visto.

Klaus non è la solita storia sulla magia del Natale e di come dovrebbe ricordarci di essere “tutti più buoni”: senza alcuna remora si oltrepassa a piè pari la solita morale proposta ormai all’infinito, e si ha l’ardire di esaminare qualcosa di mai esplorato. Si tratta di una toccante, sorprendente rivisitazione di come sia nata la leggenda del vecchio uomo vestito di rosso e dalla folta barba bianca, di chi fosse stato prima di essere conosciuto come “Santa” Klaus, di cosa indossasse prima di indossare le vesti rosse e bianche, di chi conoscesse e, soprattutto, del perché vivesse tutto solo nel bosco.
Da un’idea tanto semplice quanto originale ne scaturisce un piccolo capolavoro, capace di intrattenere grandi e piccini con una semplicità che non si poteva apprezzare da tempo, e che sfrutta l’evoluzione dei protagonisti lungo l’arco narrativo per mostrare pregi e debolezze che risiedono in ognuno di noi.
Senza alcuno sforzo, l’opera si dimostra un amorevole ossimoro; trasuda atmosfere natalizie autentiche, senza il bisogno di mostrare realmente nessun cliché natalizio.
Gli scenari nordici e gli ambienti in cui sono immersi i personaggi collimano perfettamente con una colonna sonora studiata in modo calibrato, essenziale e incisiva come non mai (che si sublima in “Invisible”, una canzone che davvero sfiora l’anima); man mano che la trama si sviluppa, gli autori riescono a dare una spiegazione logica (a volte divertente, a volte quasi commovente) a tutti gli aspetti caratteristici e “magici” della figura di Santa Klaus, come la celebre slitta con le renne “volanti”, la sua favolosa risata piena di gioia e, soprattutto, il modo in cui è diventato a tutti gli effetti l’uomo capace di consegnare i regali a tutti i bambini del mondo.
Che ogni leggenda abbia un fondo di verità, e che le antiche verità vengano mitizzate e, di generazione in generazione, la storia muti trasformandosi in leggenda, è un classico del folklore popolare.

Klaus merita attenzione da subito; la grazia, i sentimenti e la delicatezza che si respirano al suo interno non hanno niente da invidiare ai più famosi lungometraggi Disney. La seconda parte del film, in un crescendo di emozioni inaspettate - che mai ci saremmo aspettati, all’inizio - ci trascina verso un finale intenso, forte di una potenza emotiva inimmaginabile.
L’augurio è che nel corso dei prossimi anni diventi al più presto un classico di Natale conosciuto e apprezzato da più gente possibile, da rivedere durante il periodo di fine anno, perché negli ultimi vent’anni raramente abbiamo assistito a un prodotto dedicato a questo target così curato e di qualità.

Se cercate un regalo da scartare sotto l’albero, questa è la sorpresa più bella in assoluto, ma non lo raccomando solo a chi ama le atmosfere natalizie o a chi è legato al Natale per i più disparati motivi: Klaus è una perla da vedere assolutamente, perché, che sia Natale o meno, non fa alcuna differenza. A prescindere dal tema, si tratta di un film che parla d’amore, di amicizia, di altruismo, ma anche di solitudine, di discriminazione, di dolore, e sì, anche di perdita, e, purtroppo, accenna anche alla famigerata “cultura dell’odio” che respiriamo, purtroppo, ogni giorno.
“Un atto di gentilezza ne ispira sempre un altro”, dicevamo all’inizio, giusto? È davvero così, ed è anche vero che le cose più importanti della nostra vita, proprio come veniva espresso ne “Il Piccolo Principe”, sono invisibili agli occhi.
E questi sono concetti che ci dovremmo portare dentro 365 giorni all’anno.
Siete davvero convinti che la storia di Babbo Natale sia una storia inventata per illudere i bambini?

8.5/10
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Forse non esiste una condizione più alienante di quella di essere un bambino.
Tutto è più dilatato in quello status. La realtà, lo spazio e il tempo hanno contorni mastodontici.
Vedere il mondo con gli occhi di un bambino significa prendere il tè con Einstein e Schrödinger, seduti sulle ginocchia di Freud.

Nel film "Mirai no Mirai" di Mamoru Hosoda si riesce a cogliere quanto possa essere debilitante la lotta per assumere un'identità, nel più vasto quadro di un "esser-ci".

Kun è un bambino di quattro anni che sperimenta la mortificazione e la gelosia di non essere più figlio unico. La nascita di sua sorella minore ridimensiona il suo ruolo in famiglia, scombinando le gerarchie. L'attenzione dei genitori si catalizza sulla nuova arrivata, Mirai, che sembra fagocitare tutti gli schemi della casa. La reazione più genuina e ovvia per lui è un perenne stato di insoddisfazione. Condizione che si sana solo con la ricerca di distrazioni, dalla quale scaturiscono una serie di avventure per la riconquista di un'armonia perduta, dilatata fra spazio e tempo. Kun deve ridisegnare la sua realtà, e lo fa spinto dalla più pura espressione del mondo dell'infanzia, la fantasia. Seguendo le tracce lasciate dal passato della sua famiglia, Kun troverà un modo per ridefinire le proprie ansie, nell'ombra di un futuro che non promette soluzioni, ma mette radici nel presente.

L'intento del regista è quello di esporre un quadro degli inevitabili problemi insiti nei rapporti familiari, concentrandosi sulla proverbiale difficoltà di coesistenza e relazione tra fratelli.
La via percorsa da Hosoda però amplia le tematiche a un livello più vasto, offrendo una prospettiva sulla crescita e la formazione del protagonista nella scoperta di una architettura interiore autonoma.
Le pulsioni, i sentimenti, le incongruenze di un individuo vengono esposti con un chiaro intento espressivo, volto a rendere visibili sul piano scenico "i lavori in corso" di una mente non ancora separata dalla sua origine, dall'utero materno.

La lotta del protagonista per evitare quella che percepisce come una deriva verso l'oblio si traduce in un iter che, da ricerca di evasione, diviene una genesi che si compone di tutti i personaggi con cui si costruisce l'Io. Reali o percepiti, passati e futuri, gli attori del dramma di Kun non sono altro se non le maschere del teatro che tutti abbiamo nella scatola cranica.
Quello che sembra partire come un problema di relazioni interpersonali evolve come un contorto dialogo con la propria individualità. Come viene espressamente dichiarato nel film, l'origine del viaggio consiste nella "perdita di sé stessi".
La soluzione, secondo un topos della cultura nipponica, consiste nel trovare il proprio ruolo, il proprio posto nel mondo esterno, dopo aver brevemente assaggiato il frutto dell'individualismo, nell'intimo di una fugace registrazione a margine nell'album dei ricordi.
L'epilogo del film infatti non lascia intendere vuote pretese ottimistiche su ipotetici radiosi futuri. Quello che si scopre nel percorso è che non c'è altro che non sia la realizzazione di un futuro preordinato, la conquista di una normalità, senza eccessi di particolarismo. Il finale è quindi velatamente agrodolce, tra ricordi nostalgici, occasioni mancate e promesse non sempre gradite.

I salti temporali (una firma del regista), usati come gli incastri di un giocattolo, rendono perfettamente il peso e la serietà che l'elemento ludico ha nel mondo dell'infanzia. Giocando con il tempo e lo spazio, viaggiamo tra archetipi e fantasie, seguendo la strada tracciata dai processi di crescita. Il flusso altalenante fra passato e futuro aspira a riprodurre le complicate connessioni psichiche che la nostra mente riesce a elaborare.
Emblematici gli incontri speculari di Kun con i membri della sua famiglia, dove si gioca con complessi edipici, surrogati di figure paterne e confronti diretti con il Peter Pan che abita in noi, perennemente insoddisfatto e congelato nei suoi contorni più infantili che l'adolescenza acuisce ed esorcizza, rifiutando ciò che "non è simpatico".
Grazie a questa catarsi progressiva l'ego trova la sua consistenza nello scoprire che è parte di un processo, di un moto costante che a sua volta si regge su altre orbite, i percorsi di altri. In un continuo incrociarsi di vite, ricordi e aspirazioni.

La sintesi fra la circolarità del tempo e l'Io nello spazio fa fede all'enunciato del titolo, che può quindi leggersi come un'equazione. Se "Mirai" significa "futuro", allora la scelta del film è quella di un "futuro del futuro", un eterno ritorno.

La forza narrativa di Hosoda segue il solco di illustri predecessori che, dai fantasmi natalizi di Dickens ai mulini a vento di Cervantes, senza bisogno di presentazioni, sono i tornelli di un ingresso accessibile a chiunque. I richiami autoriali, voluti o meno, forniscono una struttura solida al senso generale del film, che vive così anche di un sottofondo di già vissuto.
Le avventure del protagonista sono eredi di quelle stesse esperienze oniriche che portavano "Little Nemo" a scoprire i labirinti del fantastico in una realtà che collassa sotto il peso delle sue ipocrisie.

Così, la scena in cui Kun esplora la stazione ferroviaria e viene interrogato sulla sua identità dai treni (sua passione) segue lo stesso carattere ammonitore e censorio di "Play Safe", un cortometraggio del 1936 opera dei fratelli Fleischer. Anche qui il protagonista vive la sua formazione attraversando le terre di Morfeo e trovando il suo equilibrio relazionale.
Sullo stesso piano il confronto con Billy Batson, l'alter ego di Capitan Marvel, anche lui bimbo sperduto salito su un treno che lo porta, a metà fra sogno e magia, al suo incontro con un padre che modella l'adulto dalla forma dell'infante.

Le tematiche del film fanno di "Mirai no Mirai" un'opera che offre diverse chiavi di lettura e si presta a parallelismi che, uniti a citazioni del regista a sé stesso, come risultato ottengono un buon racconto, fruibile a chiunque, legandosi alla miglior tradizione delle favole.

Lo Studio Chizu ha espresso egregiamente le sue potenzialità, salvo l'uso poco curato in alcune scene della computer grafica che mal si integra con movimenti e inquadrature ardite.
L'uso di toni da acquerello per gli sfondi del passato e di colori vividi e cangianti per momenti dal maggiore impatto emotivo è giocato in maniera magistrale.
Hosoda sfrutta tutte le sue abilità per confezionare un prodotto che sa emozionare e strappa anche qualche piccola risata.
Una menzione particolare merita anche il doppiaggio italiano, che raggiunge le vette del virtuosismo con Tatiana Dessi che presta la voce al protagonista.
La vis espressiva è totale, e si impone con una efficacia esemplare anche per gli altri personaggi.
Le emozioni del piccolo Kun, i capricci, le urla, le moine divengono palpabili quanto le fantasie che popolano la sua realtà.

Il percorso della propria identità segue processi non lineari. Per andare avanti si può ripercorrere una strada a ritroso o trovare un condotto che, sottotraccia, porta a snodi e incroci che si diramano nei meandri di quel soggetto in divenire chiamato Uomo.
Un soggetto che è esso stesso la meta, e che combatte per diventare il viaggio.

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Il 18 giugno 2020 approda su Netflix il film “Miyo - Un amore felino” (“A Whisker Away”), con la sceneggiatura di Mari Okada, acclamata dal pubblico in particolare per “Anohana”, come serie, e per il suo esordio alla regia con lo spettacolare “Maquia”.

La trama ha come protagonista Miyo, una giovane liceale allegra e decisamente sopra le righe, innamorata del suo compagno di scuola, Hinode, che stuzzica pubblicamente ogni giorno, nonostante il palese disagio del ragazzo. Quando a Miyo capita tra le mani una maschera che, indossata, le permette di trasformarsi in una gattina, approfitta della situazione per avvicinarsi sotto mentite spoglie a Hinode, il quale accoglie l’animaletto a braccia aperte, parlandole di volta in volta dei propri problemi. Essere Taro, così viene soprannominata da gatta, per Miyo è l’apice della felicità, non ha tutti i problemi che ha da umana... è così che esprime il desiderio di restare gatto per sempre, dando origine a catastrofiche conseguenze.

Per chi ha dimestichezza coi lavori della Okada, saprà che pone particolarmente l’enfasi sulla componente drammatica, spesso sfruttando tematiche serie, come il disagio adolescenziale (come era successo con “Kokoro ga Sakebitagatterunda”), il che pone sovente la storia di fronte alla possibilità di cadere troppo nello “smielato” e dimenticarsi le tematiche.
Miyo si fa carico di proporre una protagonista apparentemente sempre felice e spensierata, che ha alle spalle un disagio troppo grande: sua madre l’ha abbandonata; il padre si è risposato con una donna che lei finge soltanto di accettare; e soffre per la mancanza di un solido sostegno, dal momento che anche le sue compagne di classe la bullizzavano perché “neanche la madre l’aveva voluta”. I suoi unici punti di riferimento sono la migliore amica e, per l’appunto, Hinode, che lei ama.

La maschera da gatto che permette la trasformazione è sia reale che metaforica, ed è la classica maschera che viene indossata per fuggire alla tristezza e ai problemi. Non è un caso che lei decida di restare gatto, proprio perché i problemi reali sono troppo difficili da superare, mentre un gatto non deve preoccuparsi di niente. Allo stesso modo, viene inserita la tematica dell’empatia, enfatizzata nel momento in cui Miyo non riesce più a tornare umana. In che modo lei si è preoccupata di sondare i sentimenti delle persone che la circondavano? Non ha mai dato una possibilità alla matrigna, o fatto il tifo per la felicità del padre, ad esempio. Miyo parte dal presupposto che, anche scomparendo, a nessuno importerebbe, restando esterrefatta nello scoprire che non solo i suoi genitori, ma anche i suoi amici la rivorrebbero indietro più che mai.

Sostanzialmente, se ci fermassimo qui, direi che il film risulterebbe positivo in tutto, tuttavia mi è sembrato che più volte la sceneggiatura facesse acqua. Soprattutto perché vengono inseriti molti argomenti interessanti a inizio storia che, verso la fine, non trovano il meritato spazio di approfondimento. Se infatti il bilanciamento commedia/dramma, che intervalla dialoghi più commoventi a gag simpatiche, funziona, avrei preferito ci fosse una maggiore cura anche della parte finale, che sembra ‘rushata’, ponendo l’attenzione a dialoghi un po’ troppo stucchevoli.

A livello tecnico, il chara è abbastanza anonimo, ma ho trovato sicuramente più piacevole il comparto sonoro, per quanto non memorabile.

Insomma, per me, è un film con alti e bassi, che risulta sicuramente piacevole da vedere, tutto sommato.