Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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“Le fiabe dove gli animali si mescolano agli esseri umani, di solito finiscono molto male.
È meglio che le bestie si limitino alle loro storie.”


Tutto comincia con una scala di grigi tinta da attimi color seppia, come vecchie foto sbiadite tratte da quaderni del secolo scorso, immagini che introducono ad un universo alternativo a quello a noi noto, ove il corso degli eventi storici si è susseguito in modo differente: una sorta di “Sliding Doors” a partire dal sofferto epilogo della Seconda Guerra Mondiale, capace di prendere una tangente che andrà a sviluppare eventi surreali e a tratti angoscianti - niente di nuovo ahinoi, né troppo differente dalla nostra realtà.

“Tutti conosciamo la versione di Cappuccetto Rosso e nessuno conosce quella del lupo. Forse ci parlerebbe di solitudine e di orgoglio, di lune favolose e di boschi cancellati dagli uomini.”

Sin dalle prime battute di questo imponente e silenzioso lungometraggio respiriamo un’aria tragica ed epocale, mentre grevi, sofferte note introducono un incipit ispirato ai tumultuosi e disperati Anni Cinquanta nipponici, a cavallo fra una mirabolante, pachidermia crescita economica e gravi crisi sia sociali che di crescita urbana, alla mercé di una delinquenza organizzata e intrisa di rapporti altalenanti verso un Occidente più proiettato verso il futuro.
Si intuisce che non stiamo per assistere a un racconto di sviluppo e libertà come potremmo immaginare, bensì un cupo prolungamento di alcuni regimi totalitari a stampo militare che nella nostra realtà avrebbero dovuto essere dissipati (o quantomeno frammentati e reimpostati): in un Giappone allo sbando, per riportare equilibrio e sedare il caos dilagante, lo Stato istituisce un ordine squadrista di soldati ultra-equipaggiati di nome “Dine”, inquietanti truppe speciali dal tenore nazista, gente dai volti celati da maschere a gas, lenti oculari rosso fuoco e armi da fuoco terribili per l’epoca, una sorta di crudele e spietata impostazione che rievoca corsi e ricorsi storici appena conclusi (ma in chiave cyber-futuristica).
Addentrandoci nella vicenda, veniamo a conoscenza del protagonista di cui seguiremo le gesta, e della sua complessa e sofferta realtà... Anno Domini 1960, una timeline differente dalla nostra: conclusasi la Seconda Guerra Mondiale, le cose sono andate diversamente da come le conosciamo; Kazuki, membro di una delle suddette squadre d’elite anti terrorismo, milita in una branca della Dine di nome Kerberos, istituita con la finalità di combattere ciò che tutti hanno imparato a conoscere come Setta, ovvero quei superstiti che, dopo aver partecipato, fomentato e indotto disordini e sommosse antigovernative, si sono riuniti in gran segreto - e come i carbonari d’un tempo, hanno creato un gruppo popolare sovversivo con il fervente desiderio di rovesciare la dittatura attuale.
Comprendiamo sin da subito che non esistono parti in ragione: è tutto troppo torbido, troppo vero e troppo amaro per filtrarci qualcosa di puro e positivo. Quando il popolo, disperato, insorge con i suoi più irrefrenabili giustizieri e si contrappone a giovani forze militari cresciute con ideali diametralmente opposti, è storicamente appurato che finirà in un lago di sangue.

“Jin-Roh” viene prodotto nel 1999, e il suo impatto visivo risulta meraviglioso e immediatamente coinvolgente, tanto oggi quanto all’epoca.
Presenta sin da subito scorci artistici eccezionali, prospettive studiate e “cinematografiche”, quasi un film disegnato, recitato da attori reali trasformati in cartoni animati. Altrettanto attinenti e verosimili sono i fondali, ambienti meravigliosamente dettagliati e credibili: è come una pellicola d’autore ricca d’emozione e intensità.
Ciò che colpisce dalle prime battute è una colonna sonora di fondo perpetua e sofferente, tanto da ricordarci, - solo a tratti, e diamine se calza a pennello - le dilanianti melodie di “Platoon”, capolavoro cinematografico di Oliver Stone sulle strazianti e orrende vicissitudini dei soldati americani in Vietnam. In comune, oltre alle note, qui troviamo elmetti lucidi che custodiscono fragili menti di giovanissimi e innocenti assassini, ignari di cosa stanno subendo, convintissimi di fare la cosa giusta, facce e smorfie celate, armi spianate, sangue versato senza coscienza e adolescenti strappati alla vita troppo presto. Crudeltà talmente disumane da essere inequivocabilmente umane, ricalcanti l’amaro realismo del nostro infausto mondo pregno di democrazia esportata e ipocrisia patriottica.

Come in tantissimi altri momenti storici e racconti più o meno reali, in “Jin-Roh” i ribelli passano per i “cattivi” agli occhi di parte dell’opinione pubblica e di chi sostiene l’ordine - gente senza scrupoli pronta a usare qualsiasi mezzo e immolare chiunque per la propria causa.
Ma è veramente follia, la guerra - e il conseguente stato di disordine di un Paese sottosopra? Quando lo stato si scontra col popolo, gli innocenti non sono più tali e ne scaturiscono cascate di sangue, chi ha davvero torto?
Esiste qualcuno che ha mai avuto ragione, quando quel confine viene valicato?
Forse oggi potremmo rispondere di sì, che la rivoluzione e la resistenza sono sacre e i giochi di potere sono sempre più spietati, quando mirano a fare “grandi” soltanto poche persone, invece che le istituzioni e i Paesi che esse rappresentano.
Ecco quindi l’analogia riguardo i famosi cani intesi come bestie feroci, segugi da guerra, branco furioso e violento, spietato e pronto a sbranare: un soldato della Kerberos deve essere capace di mettere da parte le emozioni e dimostrarsi una macchina da guerra, senza esitazioni. La disumanità dell’ordine estremista militare è alla base del mestiere e, in quanto lupi spietati, i Kerberos danno la caccia a chiunque nel proprio “territorio”.
È nelle prime battute del film che Kazuki, assieme al suo plotone, cerca di fermare un gruppo di riottosi pronti a utilizzare pericolosi ordigni esplosivi, passando inosservati attraverso la rete fognaria sotto la città, utilizzando come corrieri innocenti ragazzine che mai potremmo immaginare complici (provate a pensare alle coraggiose fanciulle che aiutavano i Partigiani recapitando messaggi e oggetti di sorta); è proprio Nanami, una di queste giovanissime, vestita d’uno scialle scarlatto e una borsetta a tracolla, ad essere scoperta e inseguita dai terribili segugi. La giovanissima che tanto ricorda l’ignara Cappuccetto Rosso, fugge spaventata nella sotterranea foresta fognaria, inseguita dal branco di Lupi Cattivi, e proprio quando Kazuki si ritrova faccia a faccia con lei sperando di farla desistere (invece di abbatterla come avrebbe dovuto), Nanami decide di farsi esplodere piuttosto che farsi catturare.
La borsetta a tracolla contiene un’immane quantità di esplosivo, tanti sogni infranti e traumi irrisolti.
Di lei non rimane quasi più niente, ma nella testa del giovane soldato, che si credeva convinto e nel giusto, cominciano a sorgere numerosi dubbi e insicurezze, tanto da finire di fronte a un tribunale militare che cercherà di comprendere il suo stato psicologico, sospendendolo momentaneamente.

Da qui il lungometraggio assume ancor più una piega matura e profonda, alzando l’asticella della qualità: radicati sensi di colpa cominciano a far capolino da sotto il tappeto come sporco lurido nascosto per troppo tempo e accumulato in modo a dir poco preoccupante. Elaborate introspezioni autocritiche accompagnano silenziosi e lancinanti momenti di lotta interiore per venire a patti coi propri ideali, in contrasto a sensazioni istintive che il giovane e coraggioso soldato non può reprimere.
Kazuki, sospeso poiché ritenuto in un momento di eccessiva fragilità e insicurezza, comincia così a navigare nel proprio io esistenziale, in pericoloso bilico fra presunto pragmatismo e sofferenza inaudita. Inevitabilmente, vagando con l’anima in fiamme, finisce di fronte alla tomba della suicida, interrogandosi sul perché non sia riuscito ad adempiere al proprio dovere, e proprio lì incontra la sorella maggiore della defunta, che non poco le assomiglia - bella, delicata, evanescente e malinconica nei tratti.
Dall’incontro, e dalla lunga, riflessiva chiacchierata che ne segue, Kazuki rimane sorpreso che la ragazza - Kei il suo nome -, sebbene col cuore in frantumi, non ce l’abbia a morte con lui; anzi, inaspettatamente la fanciulla gli dona un libro che fu caro alla sorellina scomparsa... il volumetto parla di una fiaba in particolare, una sorta di rivisitazione, appunto, di “Cappuccetto Rosso”.
Quando il soldato in congedo comincia a leggere il racconto, proprio in quell’esatto momento, l’intero film animato da semplice lungometraggio diviene un meta-racconto, un racconto simbolico e multifunzionale trasversalmente stratificato sulla moralità umana, così che si possa valutare e sfogliare a più livelli come una novella che per ogni frase pronunciata fornisce un significato biunivoco, due sensi di lettura paralleli e coincidenti al tempo stesso.
Nei cunicoli di quelle fogne, una foresta di buio e pietra, (il) Cappuccetto Rosso vaga con la borsa del suicidio/strage, stretta a tracolla mentre si dirige verso la casa della nonna, porto sicuro di gente che ancora resiste. Ma nella cupa foresta il lupo dagli occhi rossi vaga affamato e spietato, e al seguito ha tutto il branco, addestrato a pensare di essere nel giusto, pronto ad azzannare per la sicurezza di tutti. Tutti chi?
La fiaba raccontata in quel tremendo libretto risulta ben più atroce e ben più acuminata di come potremmo immaginarla. È una versione più spaventosa, più sanguinosa, tristemente realistica, metafora dell’interminabile condizione umana, prigioniera dei propri crimini sin dall’alba dei tempi.
La spirale di dolore è solo all’inizio.
Kei e Kazuki cominciano a conoscersi, a frequentarsi.
Ad avvicinarsi. A cercare di Essere Umani.

“Noi non siamo uomini travestiti da cani.
Siamo lupi travestiti da esseri umani.”


Più il film procede, più s’inabissa in fondali di dolore che via via diventa quasi impossibile elaborare. Il parallelismo coi traumi del Vietnam è tanto agghiacciante quanto pertinente; a tratti possiamo tangere tutto lo stress post-traumatico che molti soldati subiscono dopo aver assistito - o ancor peggio causato - in guerra. Così come nei crudi testi dei Pink Floyd, l’essere “Dogs of War” non lascia mai davvero il soldato, nemmeno e soprattutto quando torna a una vita apparentemente normale, poiché è il primo ad essere sia carnefice che vittima dei giochi di potere di chi non si sporca le mani; eccoli lì, in fila, con le loro bellissime medaglie lucidate, giovani disgraziati illusi di trovare il proprio posto nel mondo servendo file di un’interminabile menzogna armata, immaginando di elargire giustizia, esportare legge e correggere un mondo ormai corrotto fino al midollo, così intossicati da tale chimera tanto da lasciarsi il vero mondo alle spalle, per principiare un’infinita traversata nell’oceano di un dolore che non potranno mai guadare del tutto.

“Provare incubi per le proprie nefandezze è sbirciare attraverso l’uscio della coscienza.”

La seconda metà dell’opera è una caduta libera verso sensi di colpa e riflessioni universali, un’allegoria dove immagini, suoni, sequenze animate e parole suggeriscono significati reconditi ben più profondi di ciò che mostrano; lo svolgimento raggiunge così il vero climax con un doppio colpo di scena nelle fasi finali, dove ciò che lo spettatore ha assimilato fino a quel momento viene quasi totalmente ribaltato e riscritto, mentre la sottile, vacua e straziante falsariga su cui è stata ricamata la storia d’amore fra Kei e Kazuki - che fa da contraltare a tutto questo orrore - assume toni viscerali e inevitabilmente disperati.

“Non volevo nient’altro che un posto nel tuo cuore. Volevo qualcuno che si ricordasse di me!”

È un’esegesi di sentimenti, complessa da decifrare; uno sfogo, un liberarsi dei fardelli e uno spezzare silenzi a lungo atteso.
Tuttavia, il “drama” terminale s’avverte con doloroso anticipo e chiude la vicenda di controspionaggio con un epilogo altrettanto disumano proprio perché realistico, un riverbero dell’umanità che da sempre si perpetua: se l’amore è la forza che permette agli uomini di cambiare il proprio modo di vedere le cose e andare oltre ogni difficoltà, è chiaro che a questo mondo non ce n’è mai abbastanza per sopperire a tutta questa sconfinata, dilagante crudeltà che ha intriso ogni epoca.
L’orrore è reale, e ha il nostro volto.
Su tali direttive, “Cappuccetto Rosso” viene rivisto e riscritto secondo le regole “dell’adulta disillusione”, con un finale completamente differente, eppur pertinente.
I titoli di coda non hanno alcuna colonna sonora, esattamente come dopo la morte non esiste alcun suono.

“Jin-Roh” è una perla dell’animazione nipponica, da vedere assolutamente una volta, anche perché solo i più duri e solo chi apprezza questo genere di drammi distopici e strazianti lo vorrà subire una seconda volta.
Un’opera di grande impatto e più veritiera, ahinoi, di quanto si possa immaginare.

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Che la guerra sia, da sempre, il più “grande spettacolo del mondo” in qualche modo lo si è tutti intuito, considerandosi calati nella realtà con spirito critico e sufficienti cognizioni a supporto, ma che ancora una volta fosse un anime, nemmeno edulcorato dal presunto candore di genere, a mostraci impietosamente futuri prossimi o presenti alternativi a cavallo tra distopia e fantascienza e sempre intrisi di materia filosofica distillata dallo spirito del tempo, è un’ulteriore conferma di come più la finzione ci appare a rigor di logica lontana e perversamente fantasiosa, più la si percepisce come terribilmente verosimile nella sua funzione, in qualche modo catartica, di spauracchio inconscio. L’animazione giapponese e la guerra si sono incontrate spesso, soprattutto nell’immaginare il domani come una minaccia in cui il progresso tecnologico minasse i principi di libertà, veri o presunti, acquisiti nel tempo da un’umanità capace di autodistruggersi proprio in ossequio a una distorta e cinica idea di quello stesso progresso - dal “Conan” di Miyazaki, passando per “Akira”, “Metropolis”, “Ghost in the Shell”, “Neon Genesis Evangelion”, tanto per dirne alcuni - inseguito più che altro per consolidare le più disparate ambizioni imperialiste, piuttosto che per realizzare un effettivo benessere interclassista. Mamoru Oshii, già regista delle note serie animate “Lamù” e “Patlabor”, del pluripremiato “Ghost in the Shell” e sceneggiatore dell’intenso e commovente “Jin-Roh: Uomini e lupi”, torna a concepire un’animazione in cui la rappresentazione del futuro possibile è stretta nei contorni di un quadro quanto mai angoscioso e desolante, esasperando contraddizioni politico-sociali e minacce ancestrali sempre volutamente dissimulate dalle potenze dominanti. “The Sky Crawlers”, tratto dall’omonima serie di romanzi di Hiroshi Mori, in Italia arrivato solamente in supporto home video, è uscito nelle sale giapponesi nell’estate del 2008. È un lungometraggio animato poetico e toccante, basato proprio sulla “funzione sociale” della guerra e sul conflitto, sia interiore che esteriore, tra realtà e rappresentazione. L’opera accosta per intensità emotiva un altro anime ambientato in uno scenario di guerra (il secondo conflitto mondiale e i suoi tragici effetti in Giappone), quanto mai realistico e doloroso come lo struggente capolavoro di Isao Takahata, “Una tomba per le lucciole”, e avvicina per consonanza ideale e perversioni distopiche “Non lasciarmi”, lo splendido romanzo dello scrittore nippo-britannico Kazuo Ishiguro. È una storia essenziale ma densa di significati, rarefatta nelle atmosfere e costruita su una rappresentazione che privilegia i tempi meditativi a quelli del conflitto, quasi in controtendenza al sottogenere animato cui comunque fa riferimento la pellicola, il mecha, solitamente immaginato per privilegiare l’azione, l’avventura e l’esaltazione della battaglia dal punto di vista sia visivo che narrativo. Ma qui la battaglia esteriore, pur centrale nel palesare i motivi immediati dell’opera, lascia presto il campo a un travaglio interiore che avvolge l’animazione in un tessuto doloroso e malinconico dalla prima all’ultima sequenza.

In un diverso presente - o possibile futuro - l’umanità sembra aver eliminato le guerre. O meglio, le guerre sono uno spettacolo da seguire sui media, dalla comoda poltrona di casa in TV. I Kildren, giovanissimi piloti dal volto bambino, sono i protagonisti di questo spettacolo interminabile. Essi non invecchiano mai e vivono in un immutabile stato adolescenziale, finché non muoiono in battaglia. Quando Yuichi Kannami arriva alla sua nuova base ricorda solo di essere un Kildren e come si pilota un aereo da caccia. Il comandante della base, l’altera Suito Kusanagi, sembra attenderlo con impazienza. Anche lei è un Kildren e forse conosce l’oscuro passato di Yuichi, il quale è perso tra battaglie e frammenti di ricordi, mentre nel cielo appare la minaccia più terribile: il Maestro, temuto aviatore che mai nessuno è riuscito ad abbattere. Ma chi è veramente il Maestro? E qual è l’atroce segreto dei Kildren? La progressiva presa di coscienza di Yuichi rispetto al proprio passato e alla natura dei Kildren lo porterà alla consapevolezza che il meccanismo che si perpetua e che lega a un destino segnato le loro vite deve assolutamente cambiare.

“The Sky Crawlers”, diretto magistralmente da un artista che si conferma sensibile a temi gravi e importanti, per quanto abbastanza consueti alla particolarità del genere, è un’opera densa di inquietanti interrogativi e impreziosita da una notevole qualità di scrittura fortificata dall’intelligente scelta di puntare su dialoghi espliciti ed essenziali. Pur nella staticità espressiva, immaginata da un character design che privilegia l’imperturbabilità dei volti (i tratti ricordano vagamente le caratterizzazioni espressive gravi, sospese e stralunate del fantascientifico-filosofico “Ergo Proxy”) per ampliare il senso di smarrimento, sollecitando così una dimensione percettiva dello spazio e del tempo che non concede facili punti di riferimento, lo spettatore partecipa all’angoscia sottile ma persistente che la pellicola restituisce grazie alla dilatazione dei tempi e alla reiterazione, quanto mai significativa, di un presente infinito e perpetuo che è la vera condanna per i protagonisti della vicenda. Il tutto inquadrato in una cornice che mescola con abilità computer grafica e animazione tradizionale, separando nettamente i tempi dell’azione in volo da quelli della consuetudine giornaliera dei piloti. Allontanando volutamente le due realtà quasi fossero mondi a sé stanti, per innestarvi d’improvviso riflessioni filosofiche, tanto care a Oshii già al tempo di “Ghost in the Shell”, che leghino indissolubilmente il destino dei Kildren all’evoluzione di un mondo che è oramai perduto nella sua confusione tra realtà e rappresentazione. E il parallelo con “Non lasciarmi”, la tragica similitudine tra “i donatori” e “gli assistenti” di Hailsham e i Kildren di Hiroshi Mori, scatta spontanea in chi ha letto l’inquietante romanzo di Ishiguro, perché è sempre la sostanza senziente, a parere di chi vi parla, che dirime la questione tra ciò che è umano e ciò che non lo è, tra ciò che può provare emozioni ed è dotato di coscienza e memoria, al di là della sua genesi, e ciò che è creazione robotica, inanimata. Come i cloni di Ishiguro, anche i Kildren hanno quindi un’anima, hanno emozioni, ricordi e un passato che non è facile azzerare o riprogrammare senza lasciar tracce nella psiche. Di qui l’ossessione e la paura di molti artisti giapponesi, che respirano o hanno respirato suggestioni d’Occidente, per un progresso ignoto e pericoloso, per certi versi inevitabile e difficilmente regolabile nella sua ansia di spingersi oltre il limite, non casuale in una terra che come nessun’altra è fusa in un legame indissolubile, e a tratti esasperato, di modernità e tradizione.

E poi c’è il tema della guerra, affidata non più alla volontà politica così come la conosciamo ma a compagnie private che dominano il mondo, centrale nello scandire i mutamenti dei modelli di sviluppo economico-sociali; qui addirittura protagonista, al pari delle partite di calcio o dei gladiatori nell’arena, facendo una rapida ricognizione su cosa ci suggerisce d’immediato la storia, dell’intrattenimento dei popoli, delle discussioni da bar e del turismo di massa. Scelta provocatoria solo in apparenza, perché, se ci soffermiamo un attimo sulla storia da noi tutti studiata e conosciuta, risulta palese come sia sempre e solo stata la guerra, innescata ogni volta da interessi di potere e di conquista, l’ultimo atto dei mutamenti sociali e dei crolli di imperi e civiltà secolari.

Pur considerando l’evidenza dello scenario proposto, propedeutico ai diversi motivi su cui s’innerva la riflessione centrale del film di Mamoru Oshii, il retrogusto dell’opera allontana nelle sue conclusioni le riflessioni sulla società per tornare prepotentemente ai bisogni ineludibili dell’individuo, improvvisamente percepitosi come avulso o estraneo rispetto al contesto ospitante. In questo senso la parabola di Yuichi e con lui di ogni Kildren risvegliato a un presente che non è altro che un’eterna prigione dell’esistenza, è davvero tra le più tragiche, dolorose e insensate che è possibile immaginare per qualsiasi essere senziente. E quando l’epilogo rafforza questo senso di impotenza, nel momento in cui la battaglia riserva solo mulini a vento come antagonisti sulla scena, lo spettatore assiste alla calma piatta dell’ultima, simbolica sequenza, col sangue raggelato e un nodo alla gola che può sciogliersi solo dopo aver rielaborato la visione.

7.5/10
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"86 Eighty Six" è un anime di guerra tratto dall'ononima novel di Asato Asato e trasposto da A-1 Pictures.

La storia è ambientata in un continente fittizio dove la potenza egemone, prima di cadere in preda ad una rivoluzione, costruì la Legione: un'armata di droni IA che ancora oggi infestano il continente ed attaccano la vicina repubblica di San Magnolia dove si svolgono le vicende. Nonostante la forma di governo repubblicana, San Magnolia è uno stato che nulla ha da invidiare alla Germania Nazista e in cui chi non fa parte dell'etnia dominante è soggetto ad una pesante forma di apartheid. Le etnie indesiderate vivono nel posto più pericoloso ed esposto ad attacchi ovvero nel distretto 86, una serie di campi di internamento situati fuori dalle mura cittadine. Qui gli 86 sono coscritti in massa per combattere i droni della Legione pilotando i droni di San Magnolia, gli Juggernauth.

Se politicamente l'anime ricalca situazione di apartheid o meglio di vero e proprio nazismo, tatticamente l'anime ricalca la situazione di una odierna guerra proxy: gli 86, che sarebbero comunque i primi a subire la furia distruttiva della Legione, sono armati e spediti al fronte dagli Alba che li comandano solo da remoto per non dovere sostenere delle perdite di guerra di fronte all'opinione pubblica, gli 86 che invece muoiono in misura insostenibile non vengono presentati all'opinione pubblica come perdite poiché completamente deumanizzati, situazione che per certi versi ricalca quella reale dei vari mercenari, contractors e milizie locali impiegate nelle attuali guerre per procura. In questo scenario Lena Mirizè, zelante giovane ufficiale, viene assegnata come coordinatore in remoto a uno squadrone di 86 al fronte. I buoni propositi di Lena di legare con la propria squadra e combattere la Legione nel modo migliore possibile si scontreranno, in modo scioccante, con le procedure insensate e macellaie dell'esercito di San Magnolia, con le differenze etniche e di diritto fra lei e le sue truppe e, sopratutto, con il fatto che mentre lo squadrone è al fronte unito nel rischio di morire in battaglia lei è invece lontana, comodamente seduta in un ufficio della capitale.

L'anime è di genere Mecha ma, fortunatamente, questi mecha non sono i soliti di forma umanoide. Siceramente i robottoni a forma di samurai giapponese e magari con tanto di spada e scudo, si chiamino essi super robot o real robot, li considero ben poco realistici e sfidano ogni volta la mia sospensione dell'incredulità, e infatti nessuno, a parte un eccentrico discutibile miliardario, ha mai pensato nella realtà di spendere i soldi per costruire un drone dalla forma così inefficiente. Non è così invece per i robot presenti in Eighty Six, molto simili a prototipi reali di droni, ma con migliori prestazioni, i droni in 86 sono simili a carroarmati con le zampe dalla silhuette di aracnidi, questa forma, oltre ad essere molto più futuribile, apre le porte a tutta una nuova gamma di movimenti e pattern di combattimento che portano una gran ventata di ara fresca al genere mecha.

Quella che ritengo la migliore caratteristica dell'anime è la regia piena di inventiva di Toshimasa Ishii che non butta mai via un'inquadratura e riesce sempre efficacemente a mostrare il contrasto e la difficoltà di fraternizzare fra i soldati al fronte ed il loro ufficiale lontano dall'azione, nonchè la rassegnata vita degli 86 che stanno come le proverbiali foglie autunnali sugli alberi di Ungaretti. Regia ancora più stupefacente se si considera che il regista è alla sua opera prima seppure coadiuvato da uno staff di tutto rispetto, A-1 pictures ha infatti deciso di puntare sulla qualità nella trasposizione animata di Eighty Six.

La trama è essenziale e perfettamente misurata nella prima parte dell'anime, ma scricchiola molto nella seconda parte.
I villain, siano esse IA o i cosidetti "pastori", sono degli antagonisti dalla caratterizzazione debolissima e, se nella prima parte sono la Repubblica stessa e le sue insulse regole di ingaggio il vero ostacolo da affrontare, nella seconda parte lasciato tutto il ruolo di villain nelle spalle della Legione, la storia cala bruscamente. Non aiuta il fatto che i soldati protagonisti sviluppino con l'andare del tempo e delle scremature un plot armor sempre più marcato ricordando i famosi cadetti del centoquattresimo di "Attack On Titan". Aiuta ancora meno che in questa parte, lo screentime prima dedicato a Lena sia ora fagocitato da una blaterante Loli fuori luogo che sta nella storia come le quaglie pucciate nel tè.
Con l'aumentare degli episodi aumenta poi la consapevolezza di quanto scarno e poco pianificato fosse il world building fin dall'inizio, difetto veniale quando il focus è completamente sulle dinamiche fra Lena e lo squadrone Sperahead, ma che diventa pesante quando l'autore nella seconda parte allarga la storia ad altre entità.

Nel complesso l'anime è comunque buono, giudizio che addirittura sale ad eccellente per gli episodi che vanno dall' 1 al 9.
Benché la novel e quindi la storia non siano terminate, il secondo Cour dell'anime riesce a raggiungere un finale più che soddisfacente anche senza un ipotetico futuro terzo Cour, pubblicazione che comunque non so se augurarmi, vista la progressiva perdita di slancio della storia.