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Apparentemente, Jin-Roh sembra trattare della storia di un amore impossibile, quello tra una rivoluzionaria, o presunta tale, e un tutore dell'ordine, in (apparente) crisi di coscienza. In realtà, come potete vedere anche dalle altre recensioni, la trama dice molto altro. Questo è un film politico, impegnato come potevano essere impegnati i lavori anni '70 di un Montaldo, un Pontecorvo, o di un attore come Volontè o Cucciolla. E non è casuale che faccia venire in mente un certo clima, presente in quasi tutte le storie di Oshii, alla Anni di Piombo, molto comprensibile per ogni italiano. Gruppi rivoluzionari, polizia "cane da guardia del potere" (il nome del protagonista, Kazuki Fuse, è già un simbolo, se il suo significato può essere, come è, "a cuccia cane fedele"), complotti nelle alte sfere del potere per instaurare regimi oppressivi sfruttando la paura della gente, quella brava gente che non si sporca le mani, che se ne frega di quello che le accade intorno purché possa continuare a vivere la sua infima ed insignificante - ma tutto sommato benestante - vita.

La storia si sviluppa attorno all'incontro tra Fuse, il poliziotto dei reparti speciali, quello che da noi in Italia sarebbe chiamato celerino (quella Dime che vuole rappresentare quel riarmo mascherato dalle Forze di Autodifesa che nel reale Giappone sconfitto, in teoria pacifista e antimilitarista, hanno sostituito l'esercito), e Kai, la sorella, o almeno così si presenta, di una ragazzina morta durante un'azione della Dime a cui anche Fuse ha partecipato. Ragazzina "cappuccetto rosso", o, per dirla all'italiana, staffetta, portaordini, portastrumenti, e porta-esplosivi, la quale, pur di non essere catturata - per non tradire i compagni, o, più semplicemente, per paura di essere torturata: cosa che non è esplicita nel film, ma che si capisce benissimo nella sequenza introduttiva, dove si spiega come la Dime altro non è che una polizia politica con potere di vita e di morte su chiunque non sia allineato -, si fa esplodere proprio davanti a Fuse. Un gesto insano, e non paragonabile al kamikaze giapponese a cui siamo abituati a pensare: dietro il gesto di quella che potrebbe essere una quindicenne c'è una precisa convinzione politica, un alto grado morale.

E qui la trama, probabilmente, poteva anche offrire qualche elemento di critica in più al comportamento settario dei rivoluzionari, chiamati, appunto, la Setta: e chi ha un minimo di cultura politica di "sinistra" sa comunque quanto sia offensivo definire qualcuno come settario. Il gesto vuole mostrare come, a certi livelli di scontro politico, l'umanità va in secondo piano, necessariamente, doverosamente, rispetto al bene della Causa e all'interesse del Partito. Cosa criticata, nel film, ma non così radicalmente come potremmo pensare noi nati negli anni '80, o più in là. Questo è un film scritto da chi la vita di Partito l'ha fatta, da chi ha partecipato a manifestazioni e ha preso manganellate (la scena iniziale dello scontro di piazza non è realistica, è vera: guardate i lacrimogeni come vengono sparati ad altezza d'uomo), e che si chiede come sia stato possibile da un'idea di pace, libertà, uguaglianza, democrazia e solidarietà arrivare all'attentato come unico strumento di lotta politica. Sembrano impotenti i protagonisti del film di fronte a questa macchina divoratrice che essi stessi hanno messo in funzione e di cui hanno perso il controllo.

Jin-Roh, uomo-lupo, uomo che diventa cacciatore e mangiatore di altri uomini - la polizia -, ma, anche, potere che divora se stesso pur di conservare la propria posizione di privilegio: polizia, dime e fantomatica organizzazione Jin-Roh, cercano a vicenda di farsi le scarpe, triturando nel frattempo qualunque principio morale. Non è un caso se viene usato come metro di riferimento la fiaba di Cappuccetto Rosso, quella originale, non quella edulcorata che a tutti noi è stata letta da bambini, in cui a Cappuccetto Rosso, nella casa della nonna già mangiata dal lupo, affamata, viene servita dal lupo cattivo una porzione di carne della nonna appena uccisa.
Intendiamoci, non è un film violento. E' però un film che mostra la violenza insita in un certo modo di fare lotta politica: come non parteggiare per i rivoluzionari, ma come non chiedersi il perché abbiano perso qualunque contatto con la massa, con il popolo, che ormai ha paura tanto della polizia quanto degli attentati. Mostra la violenza connaturata nel potere esercitato solo per autoconservazione, e la violenza, non apparente, ma vera causa di ogni problema, della gente comune, della brava gente che guarda indifferente, convinta che la ricerca della felicità vada indirizzata solo verso il benessere materiale, refrattaria a ogni cambiamento e a ogni autocritica.

Fuse anche questo rappresenta: l'umanità che, pur di non cambiare, anche quando si rende conto che non sta percorrendo la strada giusta - emblematiche le ultime scene del film -, preferisce restare nascosta nel branco, preferisce restare bestia, lupo, piuttosto che diventare, o ritornare a essere, umano. Critica alla borghesia, si sarebbe detto. Critica però anche all'ideologia cieca e non consapevole, fatta di accettazione meccanica del pensiero unico, che rende le persone automi. E ditemi se la divisa di Fuse e dei reparti speciali non trasformi l'essere umano in robot obbediente e servizievole.
Ultima considerazione: perché l'equipaggiamento delle forze di polizia rimanda direttamente all'esercito nazista? Perché il film si svolge in una realtà alternativa, in cui il Giappone è stato vinto e invaso dai tedeschi invece che dagli americani. Evidentemente. Ma, in un film in cui niente è ciò che sembra a prima vista, la risposta non può che essere un'altra. E l'equazione Stati Uniti-nazismo è, nel mondo di Oshii, e nel mondo da cui proviene, fin troppo facile.

In conclusione, Jin-Roh è un film che deve essere visto, nonostante la lentezza, la complessità, la pesantezza, la difficoltà dei temi trattati, ormai lontani per chi è nato e cresciuto nel post '89; questi non sono difetti, anzi, sono pregi voluti e ricercati, uno stile ben preciso che rimanda a una filmografia ben definita, in cui non c'è spazio né per alieni, né per robottoni, né per buoni sentimenti. Più semplicemente, è un film più che reale, è vero, è vita vera e vissuta quella che viene rappresentata. E la vita reale è ben più ostica da affrontare di un'intera flotta aliena. Guardatelo, riguardatelo, se non altro per la splendida realizzazione, al 99% ottenuta con il vecchio lavoro pre-computer grafica, che non lo fa assolutamente sfigurare nell'impatto visivo, volutamente, oscuro, sporco, simbolo di una società materialmente e moralmente povera. Guardatelo, non pensando di trovarvi di fronte a un film pessimista, rassegnato, disilluso, come spesso viene definito Oshii, perché in ogni suo lavoro c'è sempre una speranza, c'è sempre la possibilità, per quanto difficile sia il compito e forte il nemico da affrontare, di impegnarsi per cambiare le cose. E' in questo che consiste la vera speranza: non in un mondo migliore, ma nella possibilità di lottare per cambiarlo. Ed è questo il grande insegnamento, sottovalutato, di questo film.